Edito da Editori Riuniti, Roma, 1991, 399 p., Seconda Edizione
Lo schermo demoniaco ha trent’anni ma non li dimostra. Lo slogan, anche se non brilla per originalità, mi potrebbe consentire di chiudere già a questo punto e concorrere, con buone speranze, al Guinness dei primati per la brevità di una introduzione letteraria. Il lettore, se intende procedere, è comunque avvertito: le righe che seguono non fanno altro che riprendere e variare il tema iniziale.
Scritto su commissione per la collana cinematografica del Poligono già alla fine degli anni quaranta, questo libro è stato poi curato e tradotto da Mario Verdone nel 1955 per le edizioni di Bianco e Nero, in una versione più ricca e completa rispetto a quella francese del 1954 e, per molti versi, assai vicina alla più recente edizione del 1981.
Pur tornandovi sopra a distanza di tempo, Lotte Eisner non ha sentito il bisogno di apportarvi modifiche sostanziali, di accogliere nuove ipotesi o tesi inconfutabili emerse nel frattempo. Gli aggiornamenti bibliografici, o gli interventi sul testo, segnalano piuttosto la diffusione e l’accettazione delle sue tesi e di molti motivi del libro e denunciano, con mano leggera, l’ esistenza di piccoli atti di pirateria critica ai suoi danni. In ogni caso nessun restauro o operazione di facile rivitalizzazione dei tessuti. Il libro mantiene intatte fisionomia e struttura originarie. Caso pressoché unico, nel quadro peraltro molto ricco della saggistica cinematografica del dopoguerra, Lo schermo demoniaco è stato subito visto come un classico, pur senza assumere un ruolo centrale e di guida nel dibattito teorico e critico dell’ epoca. Non solo giocava a suo sfavore l’ostracismo più generale nei confronti delle avanguardie artistiche, ma un elemento decisivo era dato dal confronto con il libro di Kracauer, Il cinema tedesco. Dal «Gabinetto del dottor Caligari» a Hitler, dello stesso periodo, anche se scritto e tradotto in Italia alcuni anni prima, la cui carica polemica e ideologica si muoveva in sintonia quasi perfetta con le parole d’ordine, gli interessi e la competenza della critica del tempo.
Tuttavia se la critica militante non trovava soddisfatti, dal saggio della Eisner, gli interrogativi sul rispecchiamento della società tedesca prenazista nei film espressionisti, ci si rendeva conto che l’area di interessi e la portata dello sguardo della Eisner erano assai più ampie e ricche di prospettive rispetto ali’ argomentazione tutta orientata su un solo asse dimostrativo del libro di Kracauer.
Partito dunque con un discreto handicap, questo libro, sulla lunga distanza, non soltanto ha recuperato, ma è riuscito a mantenersi come punto di riferimento indispensabile per tutte le successive analisi e ricerche sull’espressionismo cinematografico. Che, peraltro, non sono state molte, nel pur vivace panorama critico e interpretativo degli ultimi vent’anni, e neppure memorabili per qualità e novità critica o storiografica.
In mancanza di una rigorosa ricerca d’archivio, che sappia restituire, in modo completo, il quadro delle relazioni, delle influenze reciproche nella cinematografia all’indomani della prima guerra mondiale e in mancanza di una convincente risistemazione critica del cosiddetto espressionismo cinematografico nel più vasto campo di tensioni dell’espressionismo artistico e culturale, il libro della Eisner ha il merito di costituire, ancor oggi, la guida più autorevole per un tipo di contatto con l’intero ordine di problemi stilistici e interpretativi posti dal sistema cinematografico tedesco tra la fine della guerra mondiale e l’invenzione del sonoro. Il primo interrogativo e la prima risposta netta che il libro offre è che si deve maneggiare con cura la fom1ula «espressionismo cinematografico» e che, a ben guardare, ben pochi film meritano, a pieno titolo, l’ appellativo di espressionisti.
L’ipotesi guida del libro è che il cinema, ad un certo momento in prossimità della guerra mondiale, viene attirato – e quasi risucchiato – nel campo gravitazionale dell’espressionismo, senza mai farne parte del tutto. In base ai principi di rottura dei criteri di separazione tra le arti si attua una mescolanza e una continua metamorfosi di codici tra le varie manifestazioni del]’ espressionismo. Il gioco di travasi. e passaggi, i principi dei vasi comunicanti sono analizzabili fino alle soglie del cinema, che si pone come un luogo di confluenza delle diverse forme e temi senza esserne tuttavia il naturale punto d’approdo e di conversione completa. Più che di metamorfosi si potrà parlare piuttosto di ibridazione, di intergamia, di reti di relazioni multiple e di coesistenza di anime diverse.
Nel passaggio dalla letteratura, dalle arti figurative, dal teatro al cinema, raramente si constata una congruenza perfetta degli elementi recitativi, scenografici, narrativi, fotografici, architettonici e una loro corrispondenza totale con i codici espressionisti. Nel testo filmato i valori e i moduli espressionisti, quando vi siano, risultano come diluiti e coesistenti con altri elementi. Come ricordava ancora la Eisner qualche anno fa in un numero monografico della rivista francese Obliques (n.6-7, 1976), di ogni autore di film espressionisti si dovrà tener conto del suo contemporaneo contributo alla creazione di altri generi e altre tendenze. Cari Mayer – l’ideatore per eccellenza dei piu famosi soggetti e sceneggiature espressionisti – è anche l’autore e promotore del «Kammerspièl.», il genere piu antitetico rispetto all’espressionismo. Lo stesso Robert Wiene, autore del Gabinetto del dottor Caligari, non ha alcun rapporto organico anteriore o successivo con il movimento espressionista. E Fritz Lang si ostina a negare, contro ogni evidenza, il suo rapporto con l’espressionismo fino agli ultimi anni di vita. Quanto ai film di Murnau la recitazione espressionista in qualche opera non è sufficiente a farlo rientrare d’ufficio nel movimento, mentre assai più forte è in lui l’influenza di Max Reinhardt.
La presenza di elementi espressiònisti appare dunque diffusa e distribuita in modo diseguale e disomogeneo. Percorrendo le fasi della storia del cinema tedesco nel decennio successivo alla fine della prima guerra mondiale, l’autrice punta la sua attenzione su elementi specifici, isola _tratti stilistici e formali assai marcati, suggerisce anche l’ideit di un’ atmosfera che permea il cinema tedesco e che, all’improvviso, irrompe sulla scena cinematografica e si materializza in modo imprevedibile. Ignorando quasi del tutto gli orientamenti e le parole d’ordine della critica degli anni cinquanta, la Eisner sceglie, da una parte, come punto di riferimento fondamentale il libro di Rudolf Kurtz Expressionismus und Film del 1926 e pochissimi altri referenti bibliografici e, dall’altra, tenta di applicare al cinema – ricordandosi la sua formazione di storica dell’arte – la lezione di Alois Riegl e soprattutto di Heinrich Wolfflin e del puro-visibilismo. Tutte le sue analisi stilistiche e formali dei rapporti tra i film e lo sviluppo di forme e di mentalità anteriori possono essere tranquillamente riportate, o trovare i loro referenti naturali, nei concetti fondamentali sullo sviluppo dell’arte moderna espressi da Wolfflin. In ogni capitolo la Eisner segue lo sviluppo e la trasformazione di questa o quella forma, individuandone le radici vicine e lontane e mostrandone la materializzazione finale in una scena o in un film. Non solo, ma, soprattutto nei primi capitoli, si tenta di cogliere la presenza di temi chiave o temi guida nel profondo della mentalità del popolo tedesco che il cinema accoglie e ripropone all’interno di un quadro storico lacerato e carico di tensioni violentissime.
Cosi, se da una parte la lezione puro-visibilista le consente, a sua volta, di effettuare magistrali analisi sulla relazione tra le forme, le linee e le superfici all’interno delle singole inquadrature, o di scene e sequenze e di coordinarle in un quadro generale di scelte d ‘autore, dall’altra l’attenzione per gli archetipi e la storia della cultura e della mentalità la portano a importanti riflessioni sul ruolo del cinema per la comprensione dell’immaginario tedesco. Certo se, tra tutte le manifestazioni artistiche, la Eisner riesce a distinguerne il diverso grado di influenza sul prodotto cinematografico, il suo discorso acquista il massimo di pertinenza quando vengono mostrate le relazioni più strette e dirette tra il teatro e il cinema. Su questo piano si attua, in misura maggiore, il principio dei vasi comunicanti e si constata come, ad alimentare il cosiddetto espressionismo cinematografico, sia la lezione teatrale di Max Reinhardt prima e di Piscator poi, in misura non certo inferiore a quella delle regie dell’espressionismo teatrale. A mano a mano che il libro procede ci si accorge che la Eisner, mediante una serie di mutamenti a vista, pone il cinema non al punto più stretto di confluenza delle varie espressioni artistiche, ma gli affida il ruolo di contenitore, dalle pareti assai elastiche e dilatabili, capace di accogliere e sistemare al suo interno spinte e materiali tra i più eterogenei. Cosi, in uno spazio in apparenza sconvolto, tra storie di mostri e fantasmi, in atmosfere da incubo, la Eisner si muove con estrema sicurezza indicando i giusti rapporti di prospettiva, le ragioni delle scelte scenografiche, l’oscillazione tra molteplicità e unità, tra forme chiuse e aperte, tra le diverse modalità della visione della superficie e della profondità, le influenze precise e specifiche – là dove esistono – dei grandi teatralizzatoci tedeschi degli inizi del novecento.
Cosi non sarà difficile – per esempio – mostrare come alla base del cinema di Fritz Lang vi sia la lezione di Gordon Craig, come il verbo di Max Reinhardt sia sceso sulle teste di molti autori del cinema tedesco come una sorta di spirito, come l’ opera di von Gerlach, Jessner, o del «Kammerspiel» circoli nei film di Lubitsch e Dupont, di Lupu Pick e Murnau, Pabst e Lang. Più che in qualsiasi altra cinematografia, nel cinema tedesco degli anni venti si verifica un rapporto non antagonistio, ma simbiotiço tra cinema e teatro e una feconda interazione reciproca. E il merito del libro è di avercene mostrato tutti i legami e le relazioni di scambio.
In questo quadro la cultura dell’espressionismo risulta essere una pedina importante del gioco, ma non la forza egemone e totalizzante. Le relazioni, le misure di scala, i conflitti formali e ideologici all’interno della produzione tedesca della repubblica di Weimar non si possono osservare in base ad una prospettiva unitaria e monocentrica: I testi e il sistema cinematografico che li accoglie presentano all’interpretazione percorsi multipli e tuttora si offrono in tutta la loro ambiguità e polisemia di significati e di espressione.
Trent’anni fa, con questo saggio, Lotte Eisner aveva mostrato come il modo più produttivo per conoscere il cinema tedesco degli anni venti fosse quello non di unificare e trovare comodi denominatori comuni, ma piuttosto di mostrare le differenze, distinguere, separare. Da allora, come si è detto, poco è stato fatto e la modestia dei contributi successivi e il minimo interesse per la storia del cinema muto tedesco, se non trovano plausibili spiegazioni, ripropongono, quasi naturalmente, questo libro per la sua attualità. Ad un ideale tavolo di gioco critico e storiografico, alla Eisner il banco verrebbe assegnato di diritto e bisogna riconoscere che in mano ha tuttora lei le cane migliori e che, in molti momenti, il libro è ancora in grado di assumersi rischi critici e interpretativi molto alti. E soprattutto di comunicarci il senso del profondo coinvolgimento e dell’amore dell’autrice per il proprio oggetto e di affascinarci per la ricchezza del suo bagaglio culturale e per la sua estrema disinvoltura nel manovrare i vari strumenti critici e interpretativi.
Dal momento che Werner Herzog ha già testimoniato, da par suo, l’amore per la Eisner compiendo un viaggio a piedi da Monaco a Parigi nel 1974 (documentato nelle pagine di Sentieri di ghiaccio) per ottenerne la guarigione da una grave malattia, e poiché, d’altra parte, credo assai poco nelle mie doti taumaturgiche, preferisco dichiarare, in modo assai più semplice e modesto, il mio amore per l’autrice. E testimoniarle soprattutto la mia riconoscenza per aver provato, leggendo più volte queste e le altre pagine dei libri su Murnau e Lang, emozioni e suggestioni culturali di lunga durata e lezioni di metodo e di rigore professionale, raramente ritrovate in questi ultimi anni in cui mi è parso spesso di annegare nella miriade di pubblicazioni effimere, improvvisate, dilettantesche, abborracciate, destinate per lo più ad una dispersione rapida e incapaci di lasciare alcuna traccia.
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Note dell’Archivio
-Prima edizione di questo libro: 1983
-Traduzione del libro “L’écran démoniaque. Les influences de Max Reiithardt et de l’exprenionnisme”, La Terrain Vague, 1981