
Edito da: Anarchismo
Luogo di pubblicazione: Catania
Anno: 1989
Pagine: 53
File: PDF
Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:
Il dibattito storiografico innescato dalle celebrazioni per il bicentenario della presa della Bastiglia ha il gran merito di riproporre, attualizzati, gli schieramenti del tempo della “Grande Rivoluzione”, senza le mascherature e i tentativi impropri di recupero verificatisi per eventi a noi ben più vicini, quali il maggio ’68 e il marzo ’77. La Rivoluzione è nuda. Rispuntano i partigiani del re e della regina, di Dumouriez e della Vandea, gli amanti della Montagna o della Gironda, gli ammiratori dell’Incorruttibile e dell’Imperatore, tutti a loro modo dalla parte della rivoluzione, di quella, beninteso, che non si fece, la rivoluzione non traumatica, accomodante, anemica. Ai margini della storia viene ricacciato il vero protagonista, illuso, ingenuo, incolto, violento, refrattario ad ogni discorso di mediazione e di moderazione, il popolo dei sanculotti delle grandi città di Francia. È questo popolo, cattivo, oggi come ieri, il capro espiatorio degli eccessi rivoluzionari. Gli storici à la page non mancano di ricordarci che furono i sanculotti a reclamare ed ottenere la decapitazione del re, degli ambiziosi e degli speculatori, a contropartita – aggiungiamo noi – delle morti sofferte per fame e nella più nera miseria; che furono ancora essi a costringere i governanti di turno – timorosi di perdere le staffe del potere – ad inaugurare la sanguinosa stagione del terrore. In realtà quel terrore, così abilmente eretto oggi a spauracchio ideologico, servì egregiamente da strumento all’oligarchia borghese per l’utilizzo nella lotta di fazione, il controllo e l’annientamento infine proprio della sanculotteria, e in specie dei suoi uomini più fidi e disinteressati, dei suoi organi di autogoverno, delle sue libertà rivendicate ed aspramente contese. Poche voci si sono levate a rammentare le conquiste sociali più significative e prematuramente strozzate della Grande Rivoluzione, l’abnegazione di tanti uomini usciti dal popolo e nel popolo e nell’oscurità della storia dei dominatori rientrati una volta compiuta la loro opera, quel crogiolo di entusiasmi e di passioni politiche in cui presero forma e realtà le grandi idee dell’emancipazione umana da ogni oppressione e sfruttamento che tanta parte avranno nella storia del mondo dei due secoli successivi. Sono queste idee che, negando e denigrando l’immensa opera rivoluzionaria compiuta dalla sanculotteria francese, si continua oggi a volere negare e denigrare.
Questo libro, dando la parola direttamente ad uno dei protagonisti ed interpreti della “rivoluzione popolare”, vuole essere un piccolo contributo al ristabilimento di una verità storica che la ricorrenza del bicentenario, con la rimozione del benché minimo indizio di sovversione e la pretesa esaustività delle versioni ufficiali, rende tanto più urgente e necessaria. Sovversivi in senso moderno furono senz’altro gli enragés, non un partito ma un’alleanza tra uomini diversi per temperamento, estrazione sociale, preparazione culturale, e tuttavia accomunati dall’idea di una rivoluzione rimasta incompiuta, da attuarsi integralmente al servizio delle masse popolari e con gli strumenti della democrazia diretta. «Fanatici di una grandezza sconosciuta, d’un fanatismo temerario – è Michelet, uno storico non sospetto di simpatizzare per gli enragés, a scriverlo -, (essi erano) trasportati da uno spirito vago ancora, ma che andava fissandosi, prendendo forma e ponendo una rivoluzione in faccia alla Rivoluzione». Già agli esordi del movimento rivoluzionario, la questione sociale era stata sollevata, con esiti spesso deludenti, in diversi distretti della Francia da isolati quanto coraggiosi pamphlettisti. Fu nel dicembre del 1792, a causa della drammatica penuria di generi alimentari che colpiva a Parigi gli strati sociali meno abbienti, che essa assunse una minacciosa configurazione di massa e si candidò a dominante della vita politica francese. Fino a quell’epoca gli enragés avevano agito in ordine sparso, all’interno delle sezioni e della Comune parigina, promuovendo petizioni popolari o esortando i cittadini nelle pubbliche piazze a vigilare sugli approvvigionamenti della capitale. La rapida radicalizzazione della situazione politica ed economica, l’incapacità o l’impossibilità del governo girondino di farvi fronte efficacemente, l’improduttiva frammentazione dell’opposizione insurrezionale, spinsero gradualmente gli enragés a mettere da parte le reciproche diffidenze e ad unire le proprie forze. Frutto di tale accordo sarà la cosiddetta “Seconda Rivoluzione”, cioè l’insurrezione del 31 maggio-2 giugno 1793. Brissot, capo della Gironda, testimone e principale vittima di quell’insurrezione, scriveva in un pamphlet edito pochi giorni prima: «Gli anarchici – così spregiativamente definiva gli enragés – sono quelli che vogliono tutto livellare, le proprietà, la sicurezza economica, il prezzo delle derrate, i diversi servigi resi alla società (…) Sono quelli che hanno diviso la società in due classi, quella che ha, e quella che non ha – quella dei sanculotti e quella dei proprietari, che hanno eccitato l’una contro l’altra». Brissot tuttavia esagerava, trascinato dall’intento polemico.
Nessuno tra gli enragés si fece mai promotore della ridistribuzione delle proprietà. Le principali misure di salute pubblica da loro auspicate consistevano nel calmiere dei generi alimentari (il “maximum”), nei soccorsi agli indigenti ed alle famiglie dei volontari in guerra, nel corso forzoso della moneta, nella lotta contro accaparratori, aggiotatori ed usurai e nell’istituzione di una forza armata rivoluzionaria per la loro applicazione. Suggerirono tutt’al più l’introduzione di una tassa progressiva sui redditi e la requisizione dei beni appartenenti a chi veniva condannato per crimini contro la nazione. In diversi scritti si accennava, è vero, alla necessità di por fine alla “enorme sproporzione delle ricchezze”, senza entrare però in dettagli che avrebbero potuto, tra l’altro, costare la testa ai loro autori (specialmente dopo l’entrata in vigore del decreto convenzionale del 18 marzo 1793 che puniva con la pena capitale la propaganda a favore della divisione delle terre). D’altronde, il “godimento della proprietà” – epurata dei profittatori e degli affaristi senza scrupoli – finì, in piena epoca giacobina, con l’essere considerato dagli enragés come un valido baluardo contro il dispotismo di stato e le limitazioni della sovranità. Ben più originale fu il loro apporto in campo politico. Jean Varlet, tra gli enragés, è stato colui che più insistentemente ha posto il problema della gestione e della direzione della società rivoluzionaria. Giovanissimo agitatore, “tribuno volante” e “apostolo della libertà” (al quale titolo aggiunse quello di “apostolo dell’eguaglianza” dopo l’espulsione dai giacobini), Varlet era andato via via radicalizzando le sue posizioni in senso antiparlamentare, fino a contestare la legittimità dello stesso governo rivoluzionario, quali ne fossero i capi: Brissot, Robespierre o Barère.
L’Esplosione, lo scritto che dà il titolo alla presente raccolta, segna il culmine di questa evoluzione, iniziata nel maggio 1792 con Piano d’una nuova organizzazione della Società-madre degli amici della Costituzione e proseguita con altri due fondamentali testi: il Progetto d’un mandato speciale e imperativo ai mandatari del popolo alla Convenzione nazionale, del 9 dicembre 1792, e la Dichiarazione solenne dei diritti dell’uomo nello stato sociale, del 13 maggio 1793. Il modello di ricostruzione sociale al quale Varlet si richiama è senza dubbio la Comune parigina, composta di sezioni relativamente autonome tra loro, sui cui delegati, revocabili, si esercita il diretto controllo dei mandanti riuniti in assemblea permanente. Sorta a seguito delle giornate di luglio, la Comune costituiva un pericolo permanente per la Convenzione nazionale che cercò reiteratamente, prima, d’imbrigliarla nel gioco istituzionale, poi, d’impedirne ogni attività. Per gli enragés, al contrario, essa rappresentò uno strumento della sovranità popolare che andava perfezionato ed esteso all’intero territorio nazionale. Discepolo di Rousseau, Varlet sarà costretto a ripudiarlo progressivamente, di pari passo che approfondiva la sua analisi e la sua avversione per il sistema rappresentativo. Convinto che l’applicazione libera e consapevole del contratto sociale dovesse caratterizzare la nuova società, già nel Piano… egli aveva sostenuto l’opportunità che le masse indigenti, grazie all’istruzione integrale, fossero messe in condizione di operare il necessario controllo sugli organi e gli atti del governo: infatti, «l’abitudine al potere perde gli uomini; all’aristocrazia dei blasoni vedrete succedere l’aristocrazia delle cariche: quest’ultima sarà incurabile». Tale critica, di natura rozzamente psicologica, verrà perfezionata nel successivo Progetto…-. «Nostri deputati, voi non sarete più i nostri rappresentanti: sarete i nostri mandatari, i nostri strumenti: vedrete tracciata davanti a voi la linea che dovete seguire.
Prima di intraprendere seriamente i vostri lavori, riceverete il piano di condotta che abbiamo preparato per voi (…) Riformerete, rifarete la Costituzione in tutti gli articoli che sono contrari al libero esercizio della nostra sovranità: chiediamo una Costituzione popolare che possa arditamente sostenere il confronto con la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo: il che non vuol dire soltanto una Costituzione senza re né monarchia, ma anche senza dittatori, senatori, triumviri, decemviri, tribuni, senza nessun capo di qualsiasi genere che, sotto un nome diverso, sarebbe investito dei medesimi poteri…». Dalla riscrittura della Costituzione a quella della Dichiarazione dei Diritti il passo è breve: riformulato da Varlet in trenta articoli, l’atto “sacro” della Rivoluzione ospita adesso anche il tanto contrastato diritto all’insurrezione, da applicarsi estensivamente, ogni qualvolta «la sovranità di una nazione è usurpata”. La sovranità, cioè «il diritto naturale che hanno i cittadini, nelle assemblee, di eleggere, senza intermediari, a tutte le pubbliche funzioni, di discutere essi stessi i propri interessi, di redigere mandati per i deputati cui commettono di fare le leggi, di riservarsi la facoltà di revocare e di punire quelli dei loro mandatari che abuseranno dei propri poteri o tradiranno i loro interessi; di esaminare, infine, i decreti, i quali, eccetto quelli riguardanti circostanze straordinarie, non possono avere forza di legge se non sono stati sottoposti alla sanzione del corpo sovrano nelle assemblee primarie». Siamo al limite dell’influenza che il pensiero del Rousseau libertario esercita sul “tribuno volante”. Dalla concezione anarchica della ricostruzione sociale lo separa la distinzione che negli scritti sopra accennati ancora mantiene tra potere legislativo – da riconsegnarsi interamente alla sovranità popolare – e potere esecutivo che – pur con limitazioni, controlli, ecc. – viene demandato alla cura di pochi.
La natura intrinsecamente controrivoluzionaria dell’oligarchia governativa si rivelerà a Varlet solo dopo l’insurrezione di giugno, il trionfo giacobino e l’accentramento progressivo dei poteri nel Comitato di Salute Pubblica. Gli scritti qui riuniti testimoniano appunto di questo processo di svelamento. Non mancano, è vero, le critiche alla corruttibilità degli uomini, ma solo in margine a passi oramai celebri e inequivocabili: «Il dispotismo è passato dal palazzo dei re al circolo di un comitato. Non è il manto regale, né la corona, né lo scettro che fanno odiare i re; ma solo l’ambizione, la tirannia. Nella mia patria ci si è solo cambiati d’abito. Nazione leggera e versatile! fino a quando i nomi terranno il posto delle cose? (…) Per qualsiasi essere raziocinante, governo e rivoluzione sono incompatibili, a meno che il popolo non voglia costituire gli organi del potere in permanente rivolta contro sé stesso, il che è troppo assurdo per riuscire credibile ». Il governo dell’uomo sull’uomo – anche se contemporaneamente rivoluzionario, popolare e democratico – non è più visto come una struttura in sé necessaria, ma, piuttosto, come l’organo principe dell’oppressione e della repressione dello Stato. A buon diritto, quindi, Woodcock, nella sua Anarchia. Storia delle idee e dei movimenti libertari, considera L’Esplosione come un “primo manifesto anarchico nell’Europa continentale”. La denuncia Varlettiana si serve in questo testo dell’esperienza accumulata nei lunghi mesi, densi di persecuzioni politiche e giudiziarie, trascorsi sotto il terrore. Conscio della vera natura e degli scopi perseguiti dai terroristi, l’enragé risponde esplicitamente alla confusione interessata che si è voluto fare tra la violenza popolare, possente leva nella lotta di liberazione dalla tirannia, e il terrore di Stato scatenato dai giacobini per ambizioni personali e fini di governo. L’uso della forza da parte delle classi popolari rappresentava per Varlet una misura di salute pubblica volta a garantirne la sussistenza e la sopravvivenza, pur nel rispetto dei diritti fondamentali – essendo l’eguaglianza, come recita una sua formula, “la conseguenza immediata della libertà”.
«Ci sarebbe piaciuto – precisa ancora nel Piano… – Che l’imperio della ragione potesse sistemar tutto in via amichevole. Se avessimo avuto a che fare con degli amici dell’umanità, avremmo ben potuto coltivare l’ulivo della pace…». Altri interessi perseguivano invece gli ex nobili, gli arricchiti e i “moralizzatori” del giacobinismo. Il terrore era da loro inteso come mezzo necessario all’applicazione incondizionata dei decreti governativi, avessero anche matrice popolare, e alla depurazione degli organi dello Stato e della società dagli oppositori più o meno manifesti. I terroristi della Convenzione tentarono di guadagnarsi, da un lato, il favore dei meno abbienti, accarezzandone il miraggio di eguaglianza economica, e dall’altro, ridotte col tempo le intemperanze iniziali, quello delle classi medie e dei commercianti, dal cui seno essi in gran parte provenivano. La contraddizione, com’è noto, si risolse, una volta debellata la combattività del popolo, frenate e divise le sue aspirazioni, imbavagliate o sciolte le sue organizzazioni, con la vittoria degli affaristi della repubblica e l’affermazione del più ampio liberismo economico. Varlet, in questo contesto, differentemente dai giacobini e da alcuni tra gli stessi suoi compagni di lotta (pensiamo a Roux), si pose dal punto di vista dei rivolgimenti istituzionali, senza i quali non gli apparve possibile perseguire una politica economica coerente con gli interessi popolari. Ed alla luce delle posteriori riflessioni storiche, l’indissolubilità tra il momento della riorganizzazione politica e quello della riorganizzazione economica, opposta sia all’equilibrio terroristico sia alla sua involuzione liberista, appare come l’unica garanzia della efficacia e permanenza delle misure prese a favore della sanculotteria. Non ci riferiamo qui all’estirpazione del fenomeno proprietario e all’instaurazione conseguente di un sistema comunistico, ché la predicazione degli enragés non arrivava a tanto, anzi, abbiamo visto, se ne ritraeva spaventata, ma, ad esempio, all’applicazione del maximum e degli altri provvedimenti differenziata nel territorio e gestita autonomamente e direttamente da forze locali, con un sistema federato di controlli, confische, requisizioni, circolazione e ridistribuzione delle merci, costruito capillarmente dal basso. In tal modo, la stessa repressione dei fenomeni speculativi ne sarebbe stata ridimensionata, lungi dall’assumere quell’aura drammatica e da ultima spiaggia (quanto più risultava inefficace) che ebbe nelle città affamate. La messa in opera di quella ferocia cieca finiva invece col ricadere sui suoi presunti beneficiari: «Non si possono arrestare – scriveva l’enragé Roux già nell’estate del ’93 – tanti padri di famiglia, tanti soldati, funzionari, sarti, operai, artisti, senza ridurre alla fame un’infinità di cittadini, senza privare la repubblica dei suoi più zelanti difensori, senza rallentare i lavori pubblici, e le operazioni militari, senza far maledire la rivoluzione da coloro che l’han servita con più coraggio…». L’Apostolo della libertà, L’Esplosione e Dal Plessis hanno in comune la loro provenienza da un carcere. Ciò spiega anche la strana atmosfera che li impregna, quel contrasto inevitabile tra il riguardo diplomatico del prigioniero politico che sa di rischiare la testa ed il furore iconoclasta del ribelle che nulla considera nella sua immediatezza.
Documento storico e teorico di prima mano, questi scritti, come le restanti opere di Varlet – alcune delle quali raccolte da Angela Groppi in una parziale antologia sugli Arrabbiati edita dagli Editori Riuniti alla metà degli anni settanta -, testimoniano, anche nella forma, delle condizioni e delle esigenze che li videro nascere. Ma in essi, a differenza delle petizioni, dei progetti, dei piani rivendicativi, pubblicati precedentemente, i temi variamente affrontati vengono ricondotti ad un livello superiore di sintesi, quasi a costituire una summa del pensiero del loro autore. Quanto agli episodi della Rivoluzione Francese in cui Varlet ebbe gran parte, e per una maggiore comprensione del testo – che su questi episodi si sofferma frequentemente – rimandiamo a La Grande Rivoluzione di Kropotkin, ripubblicato recentemente da “Anarchismo” in edizione economica. Si legga in quest’ultimo libro, vera anti-autorità in materia, la descrizione della dedizione totale alla causa popolare di uomini come Varlet, contrapposta alle adulazioni, agli inganni, ai voltafaccia dei robespierristi. Vi si noti infine la distanza che corre tra il celebrato Robespierre, rappresentante, dittatore, carceriere e in realtà prigioniero della separazione avvenuta tra sé e il popolo, e l’oscuro Varlet, indomabile, tenace, libero nonostante fosse tenuto più volte in ostaggio dalla tirannia!
Giugno ’89
N.M.
Nota dell’Archivio: ///
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