Haraway Donna, “Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata”

Edito da Derive Approdi, Roma, 2019, 171 p.

«La natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un’essenza da proteggere. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l’alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. La natura è, strettamente, un luogo comune». Così esordisce Donna Haraway, tra le principali esponenti del pensiero ecologico e femminista contemporaneo, in questo testo illuminante sulla nostra condizione di umani, specie devastatrice che ancora non ha imparato a convivere con il resto del vivente senza danneggiarlo. Perché ciò che sembriamo dare per scontato – l’idea o l’esistenza di una natura – in realtà non lo è affatto. La natura è in tutto e per tutto un artificio umano: attraverso la quale gli umani pensano loro stessi e l’insieme delle relazioni con ciò che esiste. Passare per una critica di questo artificio significa immaginare che altri artifici sono possibili, a partire dai quali entità biologiche e tecnologiche in continua trasformazione troveranno uno spazio di coesistenza su questo pianeta.

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Nota dell’Archivio
-Traduzione del saggio “The Promises of Monsters: A Regenerative Politics for Inappropriate/d Others”, Routledge, New York, 1992, pp. 295-337

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Botta Luigi, “Sacco e Vanzetti. Giustiziata la verità”

Edito da Edizioni Gribaudo, Cavallermaggiore (Cn), 1978, 298 p.

Su Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti — i due anarchici italiani condannati alla sedia elettrica ed uccisi il 23 agosto 1927 nel carcere di Charlestown — sono state scritte numerose biografie che hanno ampiamente sviscerato le tragiche vicende di quel decennio agli inizi del secolo. Arrestati, condannali e mandati a morte per un delitto che gli atti hanno dimostrato attribuibile ad una banda di comuni malviventi, Nicola e Bartolomeo sono stati vittime dello strapotere americano che, colpendo loro, ha creduto di colpire gli anarchici, i socialisti, i comunisti ed i sovversivi in genere. Intorno ai due italiani, sin dall’epoca degli avvenimenti, si è creato un vasto movimento di opinione che ha alacremente combattuto la battaglia della liberazione, prima, e della riabilitazione, poi. Ad ormai cinquant’anni dalla tragica conclusione della vicenda, quando il mondo intero ha avuto la possibilità di verificare e riconsiderare il succedersi dei fatti con più obiettività, Luigi Botta raccoglie in questo volume tutti quei documenti, lettere e petizioni (nella maggior parte inediti), che possono contribuire attivamente ad una maggiore conoscenza della vicenda, anche e soprattutto nella lotta per la riabilitazione. L’autore — che ha seguito per conto della Gazzetta del Popolo lo svilupparsi degli avvenimenti intorno ai due anarchici nel corso degli ultimi dieci anni — ha aggiornato sino all’inizio del 1978 l’elenco dei documenti sul caso, analizzando compiutamente anche quanto reso noto negli Stati Uniti dopo l’apertura di un plico contenente oltre millecinquecento pagine inedite. Le figure di Sacco e Vanzetti, libertari e nonviolenti, emergono nella loro sincera natura, quale simbolo per tutti coloro che soffrono — come loro soffrirono cinquant’anni fa — a causa di ingiustizie sociali.

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Faure Sebastien, La putredine parlamentare. Kolakowsky Leszek, Che cosa non è il socialismo. Galleani Luigi, Viva l’anarchia

Edito da La Fiaccola Editrice, Ragusa, Aprile 1968, 50 p.

Prefazione
All’approssimarsi di una nuova gazzarra elettorale, gli anarchici sentivamo il bisogno di portare una loro parola chiari­ficatrice e suadente su tale argomento, per coloro che, promotori della ristampa del presente opuscolo del Faure, cercano since­ramente un orientamento migliore. Il gruppo ha trovato che la parola dell’illustre compagno francese poteva egregiamente ser­vire al loro scopo. Si è reso però necessario di sfrondarlo di quegli argomenti che si riferivano più strettamente alla situa­zione della Francia, di vari decenni passati. Sono stati scrupo­losamente annotati i punti dove si è operato il taglio e si è anche accennato in breve riassunto all’argomento scartato. Per rendere la lettura dell’opuscolo più aderente alla mentalità dei lettori italiani, sono stati anche generalizzati periodi, che ave­ vano un più stretto significato geografico, o nazionalistico. Co­munque il pensiero dell’autore è stato sempre rispettato e ri­portato integralmente nella traduzione. Lo stile, così efficace ed elegante nell’originale, si è cercato di lasciarlo il più possibile inalterato, tranne nei casi in cui la sintassi italiana reclamava altra sistemazione di periodo. Si prega gli amici ed i simpatizzanti di leggere, meditare e diffondere tate opuscolo, affinchè le nostre idee siano conosciu­te ed apprezzate in tutto il valore della loro bontà e ragionevolezza. Ci rivolgiamo particolarmente a quei dissidenti che, in que­st’ultimo periodo di tempo, vanno presentando argomentazioni contrarie e che, con scritti e posizioni di fatto, contrastano la tesi che il Faure difende con il presente scritto. Da un’attenta lettura, specialmente delle ultime pagine dell’opuscoletto, risul­ta chiaro che l’astensionismo elettorale è qualità essenziale e determinante dell’anarchismo. Oggi, come ai tempi del Faure, esso è il nocciolo stesso dell’azione rivoluzionaria di chi vuole essere anarchico. Coloro che comunque partecipano al regime parlamentare, collaborano con esso, e perciò stesso si privano di una delle più efficaci armi veramente rivoluzionarie, su cui l’anarchismo fon­ da anche attualmente la sua azione. Sebastian Faure tenne questa conferenza il 30 novembre 1920, nella grande sala dell’Unione dei Sindacati. Precedente- mente ne aveva tenute altre due, sul medesimo argomento e per lo stesso pubblico, e perciò inizia questa facendo un rias­sunto delle altre due. La traduzione che presentiamo è stata fatta, direttamente dal francese, dalla compagna Nadia Serano che ne ha curato le annotazioni e stilata la prefazione, si trova, con la presente ristampa, alla terza edizione: le prime due (la prima apparsa nella vecchia Collana Anteo e la seconda «a cura della Fede­ razione Anarchica Laziale») sono ormai esaurientissime. Questo dimostra, ci pare, che un largo pubblico trova interesse, se non consensi, per le tesi sull’astensionismo elettorale, l’antiparlamentarismo, la ripulsa di ogni delega di poteri e di qualsivo­glia intermediarismo propugnate dagli anarchici, e che Faure, in questa conferenza sviluppa in modo semplicemente magistra­ le. Come del resto avevano fatto dalla loro parte Malatesta, Galleani, Molinari e il Merlino (prima che abbandonasse il cam­po), anche con gli scritti che abbiamo riprodotti nel precedente opuscoletto di questa stessa Collana. Fatto è che noi anarchici siamo i soli ormai a propugnare l’astensionismo elettorale e l’antiparlamentarismo, e, per con­tro, l’azione diretta. F. questo è senza dubbio un merito, anche perchè trova un certo riscontro nell’astensionismo immotivato che sia pure timidamente si manifesta ad ogni tornata elettoralistica (senza contare tutti coloro che votano «scheda bianca» e gli altri che votano «scheda sporca», cioè con frasi denigra­torie e contestatarie). Ma ciò non toglie che abbiamo aperto un’altra grossa lacuna nella nostra propaganda e azione: quella cioè d’aver trascurato, proprio noi anarchici, quest’altro argo­ mento di capitale importanza e pregnanza per la lotta emanci­patrice, d’averlo sottovalutato o considerato con molto scetti­cismo e di volta in volta il modo del tutto superficiale e niente affatto impegnativo. Quando invece una miriade di fatti e di accadimenti politico-sociale, la crescente insoddisfazione in lar­ghissimi strati della popolazione (e non solo in Italia), la inef­ficienza e infunzionalità, l’inerzia, documentatissime, del Parla­mentarismo e della rappresentanza avrebbero dovuto spingerci ad una più attenta e circostanziata rivalutazione dell’astensio­nismo anarchico, sia come metodo di contestazione e di nega­zione, sia per poterci inserire validamente nel movimento reale, e sia per trarne, e proporre, quell’alternativa veramente e so­stanzialmente rivoluzionaria, al gioco autoritario democrazia-dit­tatura, dittatura-democrazia, paventata da moltissimi (padroni del vapore, gruppi di potere, direzioni decisionali, aspiranti al cadrechino senatoriale o ministeriale, arrampicatori sociali, ecc., ecc.) e da altri (specie i giovani) ricercata, ma che solo l’anar­chismo può compiutamente formulare e spingere fino alle sue conseguenze estreme: naturali, logiche, materiali; l’espropria­zione e la riappropriazione dei mezzi materiali e intellettuali, la distruzione del privilegio in tutte le sue forme, l’autogoverno nell’autonomia, l’emancipazione. Intanto, la ristampa di questi «vecchi» testi, può essere la buona indicazione provocatoria e stimolatrice, per gli anarchici e i non anarchici (giovani, s’intende).

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Fassin Didier , “La forza dell’ordine. Antropologia della polizia nelle periferie urbane”

Edito da La Linea, Bologna, 2013, 351 p.

Spesso, negli ultimi anni, le periferie delle metropoli occidentali sono state il teatro di scontri tra le forze di polizia e gli abitanti, per lo più giovani di origini straniere. Nel 2005 è stato il turno delle maggiori città francesi. Didier Fassin, con un’etnografia incentrata su un corpo “speciale” di polizia dell’area urbana di Parigi, ci dà un resoconto illuminante del fenomeno. Ne descrive la quotidianità fatta d’inattività e di noia, ma mostra anche la costante ricorrenza di umiliazioni, violenze e discriminazioni nei confronti delle minoranze etniche e degli immigrati. L’analisi ci svela come, in un contesto di crescenti disparità e tensioni razziali, lo Stato tenda ad agire per rafforzare l’ordine sociale vigente piuttosto che per difendere l’ordine pubblico.

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Nota dell’Archivio
-Traduzione del libro “La force de l’ordre. Une anthropologie de la police des quartiers”, Seuil, Parigi, 2011

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Equipaggio della Tanimar, “Crocevia Mediterraneo”

Edito da Eleuthera, Milano, 2023, 152 p.

Gommoni, sbarchi, motovedette, ONG, scafisti… la spettacolarizzazione dei confini che da anni viviamo nel nostro quotidiano racconta solo una parte della storia. Le prevalenti narrazioni politico-mediatiche rappresentano il Mediterraneo come una barriera «naturale» che divide aree geograficamente e socialmente distanti. Al contrario, il Mediterraneo è – storicamente – uno spazio di incontro e contaminazione, come testimonia questo lavoro «sul campo» condotto a bordo della Tanimar da un gruppo di scienziati sociali che ha dato voce e legittimità a tutti coloro che lo attraversano: migranti, pescatori, marinai, guardacoste, isolani, funzionari delle agenzie europee. Una ricerca che applicando i criteri di una sociologia intesa come pratica pubblica propone di ripensare la «frontiera d’acqua» del Mediterraneo. Affinché non sia più un confine arbitrariamente tracciato sulla mappa, ma torni a essere uno spazio comune abitato da una pluralità di attori sociali che non solo lo rimettono costantemente in discussione, ma già oggi vanno prefigurando futuri post-nazionali in grado di oltrepassare il controllo statale della mobilità.

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(a cura di) Papi Andrea, “Educazione e libertà. Atti del Convegno di Castelbolognese (22 Ottobre 2017)”

Edito da La Fiaccola, Ragusa, Giugno 2018, 126 p.

Dalla presentazione di Andrea Papi
Questo convegno è stato pensato e progettato all’interno dell’as­semblea della Blab (Biblioteca Libertaria Armando Borghi), co­ me prosieguo dell’esperienza dell’anno precedente quando, dal 21 ottobre al 16 dicembre del 2016, fu organizzato il ciclo d’incontri Vaso, creta o fiore? – Educare alla libertà. Avendo constatato che si era trattato d’un’esperienza altamente positiva, aveva senso pro­ porre qualcosa capace di continuare ad analizzare ed elaborare ulteriormente tutto ciò che è inerente a quell’insieme complesso e affascinante che conosciamo come Educazione libertaria. Si trattava di tentare di fare il punto della situazione relativa­ mente al senso e alle problematiche in atto delle esperienze e del­ le riflessioni che agiscono per educare alla libertà, tenendo conto che non si parte da zero, ma che si è collegati a un retroterra sto­rico e culturale di tutto rispetto: ampio, cospicuo e molteplice, che ha dimostrato di sapersi perfezionare e arricchire. Capace cioè di quella duttilità positiva che è in grado di assorbire cam­biamenti anche profondi e spingersi a cercarli, senza però intac­care minimamente il patrimonio ideale e valoriale su cui si fonda. Seguendo queste linee di riferimento il convegno si è svolto in due sessioni, una mattutina e una pomeridiana. Nella prima sono state proposte quattro relazioni programmate (Andrea Pa­pi, Raffaele Mantegazza, Francesco Codello e Giulio Spiazzi), cui è seguito un dibattito prima della pausa pranzo. Nella sessio­ne pomeridiana altre tre relazioni programmate (Filippo Trasat­ti, Maurizio Giannangeli, Thea Venturelli), anch’esse seguite da un dibattito, come nella mattinata sentito e partecipato. Nella presente pubblicazione sono riportate innanzitutto le sette relazioni che hanno costituito il programma annunciato. Abbiamo inoltre trascritto alcuni interventi pronunciati nell’am­bito del dibattito che ne è seguito, selezionando quelli che ci so­ no apparsi più stimolanti.

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La rivoluzione sociale. Periodico socialista-anarchico

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Durata: 4 Ottobre 1902 — 5 Aprile 1903
Luogo: Londra
Periodicità: Quindicinale
Pagine: 4

Nota dell’Archivio
-Manca il n. 5
-Come scrive Pietro Di Paola in “The Knights Errant of Anarchy. London and the Italian Anarchist Diaspora (1880-1917), “dopo la cessazione de “Lo Sciopero Generale, venti anarchici italiani firmarono una nota scritta da Malatesta per lanciare un altro giornale, “La Rivoluzione Sociale”. Questo giornale intendeva esprimere il cambiamento nella tattica politica degli anarchici. Ormai Malatesta aveva cominciato a considerare come errore l’ingresso degli anarchici nelle organizzazioni operaie in Italia. Entrando nelle associazioni operaie, gli anarchici erano riusciti parzialmente ad uscire dall’isolamento. Tuttavia, gli anarchici erano stati troppo sicuri del potenziale del movimento operaio e avevano simpatizzato con i gruppi repubblicani e socialisti, ideologicamente e politicamente antagonisti all’anarchismo – fattori che stavano erodendo il radicalismo degli anarchici. Malatesta sosteneva che gli anarchici avevano sopravvalutato l’importanza delle associazioni operaie: era un’illusione credere che il movimento operaio, da solo e per sua natura, potesse portare alla rivoluzione sociale. […] [secondo Malatesta] i sindacati includevano elementi conservatori e reazionari ai quali gli anarchici dovevano resistere […] Il movimento operaio era un comodo obiettivo per le campagne politiche ed era molto utile per riunire le forze in vista della rivoluzione. Tuttavia, per ottenere un cambiamento strutturale della società era inevitabile un’insurrezione armata. Di conseguenza, gli anarchici dovevano prepararsi e organizzarsi in vista del conflitto armato. Per Malatesta, preparare il terreno per una rivoluzione armata doveva essere la priorità degli anarchici, sia all’interno che all’esterno delle associazioni operaie. […] Malatesta sosteneva questa posizione perché presumeva che l’Italia fosse sull’orlo di una insurrezione popolare. In effetti, l’ondata di scioperi generali del 1902 […] sembravano confermare [..] l’avvicinarsi di un periodo rivoluzionario. Egli riteneva, quindi, che l’esperimento liberale di Giolitti stesse per fallire e sostituito da una politica di repressione che ricordava gli anni Novanta del XIX secolo. Questo, secondo Giulietti, dimostra che la lunga assenza di Malatesta dall’Italia gli fece perdere di vista alcuni degli elementi politici e sociali innovativi del riformismo giolittiano. “La Rivoluzione Sociale” intendeva sostenere il nuovo orientamento di Malatesta in Italia sfruttando la libertà di espressione concessa dall’Inghilterra. La differenziazione dai riformisti […] divenne quindi un tema centrale del giornale. […] Il timore che i contatti con i socialisti potesse minare la purezza rivoluzionaria degli anarchici fu spiegato in una serie di articoli dove vennero criticate le politiche e gli approcci parlamentari del Partito Socialista. La decisione dei socialisti riformisti, guidati da Filippo Turati, di appoggiare il gabinetto Zanardelli-Giolitti, aggravò lo sdegno degli anarchici. L’intransigenza verso il programma riformista spinse il giornale a respingere persino le campagne per le riforme sociali dei socialisti alla Camera – come la legalizzazione del divorzio, o la proposta di un congresso antimilitarista da tenersi a Londra. Secondo Virgilio (una spia della polizia, ndt), Malatesta riteneva che il coinvolgimento degli anarchici nelle campagne per le riforme, sebbene apparentemente vantaggioso, fosse uno spreco di energie. La Gran Bretagna fu un esempio del fallimento del riformismo. La descrizione della povertà diffusa, causata dalla crisi economica che colpì il Regno Unito, fu utilizzata per sottolineare l’inefficienza dei sindacati, degli enti di beneficenza e delle riforme politiche. […] Pur essendo nati come istituzioni rivoluzionarie, i sindacati avevano gradualmente accettato il ruolo del capitalismo. Di conseguenza, divennero difensori degli interessi corporativi e incitarono i lavoratori privilegiati contro i lavoratori immigrati mal pagati. Inoltre, i sindacati svilupparono strutture burocratiche gestite da una classe di funzionari ben pagati e interessati quasi esclusivamente ai propri interessi. […] un altro punto centrale de “La Rivoluzione Sociale” era la partecipazione degli anarchici nelle associazioni dei lavoratori […] Secondo “La Rivoluzione Sociale”, tutti i lavoratori, di qualsiasi inclinazione politica o religiosa, dovevano iscriversi ai sindacati; ma le stesse organizzazioni dei lavoratori dovevano rimanere politicamente neutrali. Il giornale esortava gli iscritti ai sindacati anarchici a preservare la propria identità, senza farsi assorbire dalla gerarchia sindacale […] Allo stesso tempo, i membri anarchici erano ansiosi di contrapporre le loro politiche ai tentativi socialisti di conquistare l’egemonia in queste organizzazioni […] Negli anni successivi, lo sviluppo dell’analisi del rapporto tra anarchici e movimento operaio – avviato da Malatesta e da La Rivoluzione Sociale – influenzò fortemente la partecipazione anarchica nel sindacalismo rivoluzionario e nell’Unione Sindacale Italiana. L’ultimo numero de La Rivoluzione Sociale apparve nell’aprile 1903. Le difficoltà finanziarie segnalate dal giornale in Gennaio furono, ancora una volta, la ragione più probabile della sua scomparsa. […]”

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Baez Joan, “Saresti imbarazzato se ti dicessi che t’amo? Autobiografia”

Edito da Mondadori, Milano, 1969, 134 p.

Questa autobiografia di Joan Baez è come le sue canzoni: altrettanto serena e poeticamente suggestiva nel ripercor­rere il cammino della sua giovane vita, dall’infanzia vaga­bonda vissuta accanto alla forza tranquilla del padre – un contadino messicano divenuto professore di fisica a Harvard e poi pacifista – sino agli anni dell’indipenden­za, della ricerca personale, privata e « civile », di un at­teggiamento che non concedesse nulla all’opportunismo, alla chiusura settaria verso il prossimo. In tutto il libro, come nel mormorato « understatement » delle sue can­zoni più belle, in primo piano non ci sono né i razzisti né coloro che le gridano insulti quando parla о canta contro la guerra: ci sono le persone che ama, i ragazzi fug­giti e vagabondi, le ragazze negre incontrate nei ghetti e nelle prigioni, gli esclusi e gli sbandati che si cercano e si uniscono per sopravvivere, e una esperienza d’amore chiusa, intimidita, delicata, ma anche rigorosa, senza pre­cauzioni e senza riguardi. Intorno a questo mondo gio­vane e inquieto si stringe un cerchio di sospetto, rabbia, paura, violenza, premono i gelidi meccanismi della società organizzata. Se il sospetto cadesse, se l’aggressività si pla­casse (è il « messaggio » per cui si battono Joan Baez e i giovani che lei rappresenta), si scoprirebbe una nuova fraternità primordiale, un amore incondizionato, profon­do, in cui oggi sembra impossibile credere.

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Nota dell’Archivio
-Traduzione del libro “Daybreak”, Dial Press Inc., New York, 1966

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Kupiec Jean-Jacques, “La concezione anarchica del vivente”

Edito da Eleuthera, Milano, 2021, 256 p.

La genetica è nata e si è sviluppata su un presupposto deterministico: la stabilità del gene e la sua trasmissibilità ereditaria. Eppure tutta la biologia contemporanea ci parla della variabilità come di una condizione permanente ed essenziale dell’essere vivente che non può essere ridotta a puro rumore o fluttuazione: il caso non è un accidente che perturba il processo deterministico. Nel vivente non c’è un ordine stabilito bensì un disordine organizzato che rende possibile la vita e la sua evoluzione. Ampliando il campo di applicazione dell’ontologia darwiniana, che assume la variazione aleatoria come forza motrice del processo evolutivo, Kupiec delinea una concezione anarchica del vivente che contesta l’idea di un ordine cogente inscritto nei geni. Gli organismi non sono società centralizzate di cellule che obbediscono al genoma o all’ambiente esterno, ma comunità cellulari autogestite che vivono per sé stesse e che per mantenere le proprie funzioni vitali sono spinte a cooperare, realizzando delle vere e proprie reti di mutuo appoggio. Ed è questa la nuova via che deve intraprendere la ricerca biologica per uscire dalle secche in cui l’ha spinta la genetica.

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Nota dell’Archivio
-Traduzione del libro “Et si le vivant était anarchique”, Éditions Les Liens qui Libèrent, 2019

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Briguglio Letterio, “Il partito operaio italiano e gli anarchici”

Edito da Edizioni di Storia e Letteratura, Roma, 1969, 314 p.

Introduzione

«Il movimento operaio si chiarisce solo dal di dentro. Il mistero della sua storia può essere messo in luce solo in virtù degli artefici di questa epopea (.. .). Utilizzare le testimonianze dei militanti, ravvivarne i volti scoloriti, farne riudire le voci, non è forse questo il mezzo più sicuro per restituire alla storia operaia il suo significato? ». Con queste considerazioni Edouard Dolléans inizia il suo secondo volume della Storia del movimento operaio intesa come storia del movimento sindacale.

Ora, proprio per chiarire l’operaismo e l’anarchismo dal di dentro e per restituire alla storia operaia alcuni particolari significati, abbiamo conferito ai capitoli di questo volume l’esclusivo carattere di studi e di ricerche. Non è quindi la nostra una storia delle idee socialiste separata dalle drammatiche vicende del movimento operaio, ma un insieme di indagini concrete che si sforzano di riconoscere a quelle vicende il valore di autentiche occasioni per una ricostruzione sempre più consapevole della dinamica sociale. L’autosufficienza e le istanze sistematiche banno preteso fin troppo per legittimarsi storiograficamente. N’è venuta fuori una metodologia intellettualistica ed astratta che ha fatto procedere il divenire storico del movimento operaio a passaggi obbligati. Siamo così ancora oggi di fronte a una specie di fenomenologia lineare che non ammette integrazioni di natura dialettica, né parallelismi più o meno transitori e che ripete le sue origini dal pensiero politico e sociale di Filippo Turati.
Il Turati infatti, nel criticare il « sereno eclettismo » (così lo chiamava) di Osvaldo Gnocchi Viani, poneva il movimento operaio alla base di un processo fenomenologico che partiva dalle manifestazioni più inavvertite ed inconscie per giungere « alla cuspide » e cioè alle forme di pensiero consapevoli ed organiche rappresentate esclusivamente dal « socialismo scientifico »?. Anche la storiografia contemporanea, quella autosufficiente e sistematica, recepisce interamente questo schema interpretativo e perciò ammette un rigoroso evoluzionismo gerarchico che, partendo dall’indistinto e dell’inconscio (anarchismo), giunge al distinto ed «i conscio (operaismo), per riposare definitivamente nella pienezza dell’autocoscienza (il socialismo scientifico, cioè la « cuspide »). Dopo di che la problematicità e la dialettica naturalmente si volatilizzano ed ogni ricerca sul movimento operaio finisce col rivestire un valore essenzialmente erudito. Ma la storia, osserva ancora il Dolléans, « non è un erbario i cui fori scoloriti diventano polvere. È una foresta, interrotta da selve e da radure, una foresta che con la sua ombra ora protegge, ora soffoca i nuovi virgulti ». Da qui la necessità di stadi e di ricerche sempre nuovi come base di un atteggiamento critico volto a confermare, a perfezionare v anche a capovolgere giudizi vecchi e nuovi, Dalla storie del movimento operaio attraverso i suoi congressi, bisognerà giungere al confronto di questa storia con la realtà quotidiana delle lotte sociali; dai profili storici, spesso con contorni troppo definiti, di gruppi o di partiti, bisognerà puntare a ricostruzioni critiche che tengano conto di quel fenomeno di osmosi sociale che persino l’anarchico Mingozzi riteneva del tutto inevitabile. Ecco cosa intendiamo per ripensamenti, per occasioni e per integrazioni in sede storiografica.
Solo così l’operaismo non sarà più passibile di disinteresse e di interpretazioni ausiliarie o di comodo. E solo così l’anarchismo riuscirà a sottrarsi alle continue decapitazioni in sede storiografica, mentre, più o meno esplicitamente, continua a vivere, carica di esperienze, di delusioni e di dolori nella coscienza del mondo contemporaneo.
Gli argomenti contenuti in questo volume riguardano l’individuazione dei vari gruppi anarchici, il loro orientamento ideologico e la loro attività nel campo cooperativistico durante il delicato trapasso dalla tradizione bakuninista o collettivista ai nuovi orientamenti anarco-comunisti. Per quanto si riferisce agli operaisti, le nostre ricerche dovrebbero condurre ad un ripensamento della qualifica di «corporativismo », pronunciata a suo tempo dagli anarchici e ripetuta oggi con molta insistenza dagli storici del movimento operaio, Non sembra infatti per nulla calzante la qualifica di corporativismo o di « operaiocrazia » a proposito di un partito cui premeva nell’identica misura l’emancipazione dei lavoratori delle città e quella dei lavoratori delle campagne. Altro scopo delle nostre indagini è stato quello dì fare conoscere da vicino il pensiero e l’opera di Alfredo Casati, quasi ignorato dalla odierna storiografa, e soprattutto di ravvivare il volto scolorito di Osvaldo Gnocchi Viani, le cui precisazioni sulla differenza fra partiti politici e partiti sociali, fra vita politica e vita pubblica? avrebbero dovuto servire a non confondere lo sperimentalismo operaistico con una specie di riformismo più o meno potenziale. Aveva il Partito operaio un programma finalisticamente socialista? C’è chi ritiene di no, essendosi limitato a rivendicare « quell’emancipazione della classe lavoratrice ad opera dei lavoratori medesimi, che era stata la bandiera della Prima Internazionale al movimento della sua fondazione ». Il programma del Partito operaio, sperimentalista nei mezzi, ma intransigente nel fine, si prestava molto poco a divagazioni di natura teleologica. « Lo scopo del Partito Operaio Italiano — si legge ne Il Fascio operaio in polemica con gli anarchici — non è quello di vedere come deve compiersi l’emancipazione dei lavoratori, ma di prepararla ed affrontarla colle organizzazioni delle forze oppresse, colla continua conquista del miglioramento e del benessere morale e materiale, coll’assicurarsi la vittoria contro il capitalismo (…) la missione del Partito Operaio è essenzialmente economica e intellettuale, di propagande e di organizzazione emancipatrice della classe che rappresenta (.. .) lasciandola nella vita pubblica con propria bandiera e proprio carattere ». Sembrerebbe una forma di miopia questa rinuncia a vedere come si dovrà compiere l’emancipazione dei lavoratori, e invece era frutto di una coerente autolimitazione che rifiutava responsabilmente qualsiasi dottrinarismo «teorico e indefinito v, di un’esigenza concreta secondo cui « la miglior scuola e la miglior dottrina (consistevano) nella lotta di tutti i giorni, nelle sconfitte e nelle vittorie ». Rigorosamente parlando, anche il Partito operaio, dl pari degli anarchici e dei socialisti legalitari, guardava e! comunismo anarchico come al fine migliore dell’umanità. Ma questo era un finalismo utopistico, una malattia del secolo. I fine non immediato, ma nemmeno utopistico, consisteva invece, secondo Gnocchi Viani, in una grande organizzazione economica di produzione e di scambio, in una società basata sull’economia sociale intessuta di associazioni cooperative. Un fine, come si vede, che negava alla Politica ogni diritto di cittadinanza. Se questo era (quale in effetti si rivelò) l’intrinseco finalismo del Partito operaio, non sarà sufficiente rilevare che questo partito mancava di un programma finalisticamente socialista; occorrerà pure precisare che cosa si intendesse per socialismo in Italia durante il decennio 1882-92, E di ciò si potrà trovare qualche cenno in questo volume. Per un « partito sociale » e sperimentalista come quello operaio, costantemente insoddisfatto delle soluzioni proposte dei « partiti politici », anche se socialisti, la futura società non avrebbe potuto avere altro carattere saliente se non quello proposto appunto da Gnocchi Viani. Pensare diversamente? sarebbe come dire che il partito socialista del Costa non aveva un programma finalisticamente operaista, perché era socialista. I confini fra operaismo e socialismo sono storicamente così tenui da rendere precaria ogni legittima esigenza di precisazione.
L’occasione al presente lavoro è stata offerta in maniera determinante dal ritrovamento di quasi tutto il « processo dei Socialisti in Este » in mezzo a migliaia di buste recentemente versate dal Tribunale di Padova all’Archivio di Stato?
Il prezioso « corpo di reato » di tale processo (circa 700 fra cartoline e lettere, quasi un piccolo archivio privato) è ora a completa disposizione degli studiosi che potranno ampiamente servirsene, avendo noi pubblicato in appendice solo ciò che si riferisce di nostri argomenti. Nel corso delle nostre ricerche siamo stati particolarmente favoriti dallo spirito di collaborazione dei funzionari e del Direttore dell’Archivio di Stato di Milano, Prof. Alfio Natale. A tutti porgiamo quindi doverosi e sentiti ringraziamenti. Presso l’Archivio di Milano si trovano però, sia pure in discreta quantità, i soli documenti di Gabinetto della Questura, ancora poco valorizzati nella loro interezza. Al Direttore della Biblioteca « G. G. Feltrinelli » di Milano, Prof. Giuseppe Del Bo, vadano pure î nostri sentiti ringraziamenti per averci facilitato le ricerche, soprattutto consentendo la consultazione degli archivi Casati e Gnocchi Viani.
Fra i corrispondenti di Gnocchi Viani si conservano nella « Feltrinelli » diverse lettere di Francesco Papafava che abbiamo pubblicato (solo in parte), insieme con alcune lettere di risposta forniteci dal conte Novello Papafava, al quale manifestiamo quindi la mostra riconoscenza.
Uguale riconoscenza esprimiamo alla Direttrice della Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, Prof. Emma Pirani, per le cortesie usateci,
I più profondi sentimenti di gratitudine vadano infine al Prof. Gabriele De Rosa, costante ed affettuosa sorgente di incoraggiamenti e di chiarificazioni metodologiche.

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