Senta Antonio, “Il sindacalismo anarchico a Bologna. 1893-1923”

Edito da Edizioni Atemporali, 2013, 40 p.

Gli studi di storia della conflittualità e del rivendicazionismo di classe che si sono sviluppati nell’ultimo quindicennio danno la conferma del fatto che non si possa davvero fare la storia delle forme di organizzazione dei ceti subalterni, quali furono le Camere del Lavoro, non tenendone in de­bito conto le radici e le caratteristiche libertarie. Questo pare ancora più vero se si analizzano gli avvenimenti del movimen­to operaio nell’arco temporale che va dall’ultimo decennio dell’Ottocento all’avvento del fascismo, e in una regione, l’Emilia-Romagna, che da una parte vede sommarsi alle problematiche sociali della dimensione contadina quelle tutte moderne dello sviluppo industriale, dall’altra è luogo centrale della nascita e dello sviluppo del sindacalismo rivoluzionario e anarchico. In via preliminare è necessario chiarire i rapporti tra i due termini sindaca­lismo rivoluzionario e sindacalismo anarchico. Per quanto riguarda la città e la provincia di Bologna, territorio privilegiato di questa mia ricerca, si può affermare che essi coesistono, e spesso coincidono, trovandosi in per­ fetta unità di intenti, nel periodo che va dai primi anni del Novecento fino alla prima guerra mondiale. D al 1915 in avanti sindacalismo anarchico e sindacalismo rivoluzionario sono due universi distinti a causa dell’opposto giudizio politico sull’intervento nel conflitto mondiale. In particolare, dal 1917 al 1923 a essere nuovamente attivo in città è il sindacalismo anarchico e non quello rivoluzionario. Ora, il termine sindacalismo anarchico sta a indicare, ancor prima che una pratica politica e sociale, una dimensione antropologica dell’anarchico di inizio Novecento. Il movimento libertario infatti, lungi dall’essere carat­terizzato da una composizione sociale “ piccolo borghese” , come spesso sostenuto da una certa storiografia marxista, è invece largamente composto da “ lavoratori del braccio” che si gettano con generosità unica nelle lotte sociali dei primi due decenni del secolo scorso, consapevoli di avere poco da perdere nell’agone. Lo spoglio delle schede biografiche dei sovversivi sia su scala nazionale sia su quella locale emiliano-romagnola, a partire tanto dall’utilizzo delle fonti di polizia quanto dalla storiografia specialistica che si è cimentata nella compilazione di diverse raccolte di profili biografici, conferma come gli anarchici siano in stragrande maggioranza di estrazione proletaria (Antonioli et a l, 2003; Pirondini, 2012; Careri, 2012). Questo fa sì che il legame tra anarchici e lavoro sia indissolubile e che l ’azione anar­chica si sviluppi “ naturalmente” nelle questioni del lavoro. Proprio tale natura spiega perché l ’azione sindacalista anarchica si caratte­rizzi per il suo radicamento territoriale e abbia una particolare predilezio­ne per l ’autonomia federalista rispetto alle dinamiche accentratrici: ecco quindi che i lavoratori di idee libertarie sono presenti nelle associazioni di settore, in particolare nelle leghe e contribuiscono fin dal loro sorgere a quelle forme di organizzazione operaia territoriali che sono le Camere del Lavoro. La dimensione locale, in un’ottica federalista, corre parallelamente a un’al­tra peculiarità, cioè il ricorso alla conflittualità permanente e alle diverse forme dell’azione diretta, dallo sciopero al boicottaggio. A ciò si aggiunge un terzo fattore dirimente nel definire il sindacalismo anarchico: il rifiuto del parlamentarismo e della politica, intesa come po­ litica di partito. Cosa questo significhi nella pratica, lo vedremo più avanti. Questa triplice accezione, di radicamento territoriale, di radicalismo nelle lotte sociali e di accettazione dello scontro sul piano sociale e non politico, non è tanto figlia di un’elaborazione tattica di alcuni tra gli agitatori liber­tari più in vista, né tanto meno di intellettuali, quanto piuttosto è intrec­ciata ai processi, a sbalzo e tutt’altro che lineari, di emancipazione attraver­so il lavoro che i proletari italiani mettono in atto in maniera autonoma. In altre parole i lavoratori del braccio che fanno dell’azione diretta la cifra del proprio agire non seguono pedissequamente le elaborazioni tattiche dei teorici del sindacalismo o dell’anarchismo, ma vanno sviluppando i propri mezzi di lotta sul terreno pratico. Certo per il sindacalismo anarchico italiano il modello francese ha la sua importanza. Al di là delle Alpi infatti, dall’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento, si va presentando sulla scena un nuovo orientamento tatti­co, all’insegna dell’entrata negli organi di rappresentanza dei lavoratori, primis le Bourses du travail. La stessa idea delle Camere del Lavoro è, come è noto, francese. Essa pare sia stata posta già nel 1790, ma la prima du travail in Bourse nasce a Parigi nel 1887 con il doppio intento di organizzare ed educare i lavoratori di diversi settori. Negli anni Novanta Bourses federa­ te tra loro vengono fondate in diverse parti del paese. Hanno un rapido successo, tanto da essere circa settanta a inizio secolo e danno vita a tutto un complesso di attività, lotta per maggiore salario, per minori tempi di lavoro, contro l’aumento del costo della vita, e a diversi servizi: di mutuo appoggio, di istruzione e formazione, di propaganda. Esse diventano presto la base sociale su cui si innesta l ’azione anarchica, in particolare dopo la repressione seguita al periodo degli attentati (1892-1894) quando diversi militanti vivono sulla propria pelle le conseguenze del vicolo cieco cui la propaganda del fatto individuale li aveva costretti. La tattica di entrata negli organi dei lavoratori come “ minoranza agente” viene fatta propria dall’insieme del movimento francese al Congresso di Amiens del 1906 ma era già una realtà da alcuni anni. A dare voce a tale orientamento sono militanti quali Fernand Pelloutier, segretario della Fédération du bourses de travail dal 1895 al 1901, Émile Pouget e successivamente Pierre Monatte, i quali considerano la lotta sindacale una scuola pratica di anarchismo e vedono nel sindacato l’embrione della società futura, arrivando a ritenere che l ’anarchismo debba essere compreso entro il sindacalismo rivoluziona­ rio, coincidendo così di fatto con esso (Maitron, 1992). Tale rimodulazione tattica sintetizzabile nell’espressione “ andare al popo­lo ” è in parte condivisa dallo stesso Errico Malatesta, in una dinamica di reciproca influenza tra il rivoluzionario italiano e i suoi compagni francesi. Malatesta matura questa posizione nel periodo passato in Argentina (1885— 1889), dove dà un contributo essenziale all’affermarsi del movimento sin­dacale, e successivamente a Londra dove è positivamente impressionato dallo sciopero dei dockers del 1889 e dai movimenti di lotta operaia che nel decennio successivo attraversano l ’Europa. Negli anni successivi all’esilio londinese, e in particolare nell’importante periodo in cui redige L’Agitazione di Ancona (1897-1898), continua a propagandare l’entrata degli anarchici nelle leghe operaie. U n approccio di tal guisa è fatto proprio da larga parte del movimento anarchico, che nei primissimi anni del Nove­cento si trova a operare in un quadro di condizioni oggettive maggior­mente favorevoli. Nonostante la perdurante repressione, i nuovi equilibri politici sanciti dall’indirizzo liberale della stagione giolittiana lasciano in ­ fatti maggiori spazi di azione e i libertari possono intensificare la propria attività nelle organizzazioni operaie e aprire una nuova stagione di lotte collettive (Giulietti 2012). Tale visione della lotta sociale tutta interna al movimento operaio non è vista di buon grado dalla totalità degli anarchici, alcuni dei quali continua­ no a temere che l ’idea anarchica si corrompa a contatto con le organizzazioni sindacali stabili, le loro strutture e burocrazie: non a caso anche in Emilia-Romagna gli anarchici si dividono ovunque quando c’è da deci­dere se partecipare o meno alle Camere del Lavoro e se accettare di ricoprirvi cariche elettive. A differenza di quanto avviene in Francia, in Italia l’identificazione tra sindacalismo rivoluzionario e anarchismo ha vita breve. Infatti tanto Malatesta, dopo il suo ritorno in Italia nell’estate del 1913, quanto Luigi Fabbri maturano via via una posizione secondo cui l’identificazione completa tra organizzazione operaia e anarchismo è di danno a quest’ultimo. In particolare è criticato il fatto che, come invece sostiene l ’altro “ grande” dell’anarchismo di lingua italiana Armando Borghi, il conflitto sul terreno economico crei automaticamente la coscienza di classe e il bisogno della rivoluzione, ma è contestata anche la riduzione della rivoluzione sociale al momento dello sciopero generale espropriatore, vero “mito” del sindaca­lismo rivoluzionario (Antonioli, 1990). Mentre provano quindi a favorire l ’attività anarchica nelle organizzazione operaie, si preoccupano così anche di preservare l ’autonomia d’azione e l ’organizzazione specifica degli anar­chici. Per questi militanti la dimensione sindacale deve rimanere strumen­tale alla rivoluzione anarchica, è cioè luogo della propaganda per la lotta a ogni autorità, iv i compreso il potere politico, in vista dell’obiettivo ultimo: l’insurrezione e la distruzione di qualsivoglia governo. Quindi, a differenza dai sindacalisti rivoluzionari di lingua francese, il sindacalismo è qui solo una modalità d’azione, un mezzo, e non un fine.Tali sfumature di pensiero e di azione si confrontano al congresso di Amsterdam del 1907, dove pro­prio sul rapporto tra anarchici e movimento operaio sono presentate due diverse risoluzioni, una da Malatesta e una da Monatte (Antonioli, 1979; Antonioli, Masini, 1999; Berti 2003). Non bisogna però pensare che la pratica del movim ento reale, operaio e libertario, modifichi il proprio agire in conseguenza di una deliberazione congressuale o di un dibattito che alla maggior parte dei militanti del tem­po appare probabilmente solo come una fine questione teorica. Tanto più che in Italia, nello stesso anno del congresso di Amsterdam, i sindacalisti rivoluzionari escono dal Partito Socialista, creando, di fatto, le condizioni per una azione concorde con gli anarchici. A stabilire i termini reali di tale intesa e a darne concretezza organizzativa ci pensa, tra gli altri, Armando Borghi, protagonista assoluto del sindacalismo anarchico almeno dal 1908 e leader dell’Unione Sindacale Italiana dal 1914 al 1922. Il suo ruolo nell’organizzazione operaia di azione diretta in Emilia-Romagna è fondamentale per quanto riguarda tre grandi snodi temporali: il periodo che va dal 1908 alla settimana rossa del 1914; la guerra mondiale, momento lacerante per le leghe e le organizzazioni della regione; gli anni del dopo­ guerra e il biennio rosso (Antonioli, 1990; Landi, 2012). Al di là di Borghi, altri sono i militanti anarcosindacalisti che hanno un importante ruolo in regione (e non solo) nel trentennio che andiamo a considerare, tra questi Giuseppe Sartini, Clodoveo Bonazzi, Giovanni Lenzi, Guglielmo Guberti, Sigismondo Campagnoli, Attilio Sassi (Antonioli et al, 2003; Marabini et al 2008). Costoro sono davvero lavoratori tra i lavoratori, rappresentano cioè una moltitudine di operai di idee libertarie attiva nelle lotte sociali in regione, spesso all’interno di leghe a loro volte afferenti a Camere del Lavoro. Di seguito mi concentro sulla storia degli istituti camerali a Bologna, met­tendo in evidenza il ruolo che vi ha giocato il sindacalismo rivoluzionario e anarchico.

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Nota dell’Archivio
-Come riportato nell’opuscolo, “Il saggio è tratto dal volume curato da Carlo De Maria, Le camere del Lavoro in Emilia-Romagna: ieri e domani, Bologna, 2013”

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