Edito da Multimedia Edizioni, Salerno, 1996, 184 p.
Prefazione
Non parlatemi della valle dell’ombra della morte. Io vivo là. Nella contea di Huntingdon della Pennsylvania centromeridionale c’è una prigione di cento anni fa, con le torri gotiche che emanano un’aria di presagio evocando la cupa atmosfera dell’Alto Medioevo. Io ed altri settantotto uomini passiamo circa ventidue ore al giorno in celle di due metri per tre. Le due ore restanti le possiamo passare all’esterno in un box recintato da una rete metallica e circondato di filo spinato, sotto lo sguardo di torrette con le mitragliatrici.
Benvenuti nel braccio della morte della Pennsylvania.
Sono un po’ attonito. Alcuni anni fa la Corte Suprema della Pennsylvania confermò la mia sentenza e condanna a morte con il voto di quattro giudici (tre si astennero). Come giornalista nero, che era stato una Pantera Nera nei lontani anni della giovinezza, ho studiato spesso la lunga storia americana dei linciaggi legali di africani. Ricordo una prima pagina del giornale Black Panther che riportava la citazione: “Un nero non ha diritti che un bianco debba rispettare”, dall’infame caso Dred Scott, in cui la più alta corte americana stabilì che né gli africani né i loro discendenti “liberi” hanno diritto ai diritti della Costituzione. Incredibile, eh? Ma è la verità.
Forse sono ingenuo, forse sono proprio uno stupido, ma pensavo che nel mio caso sarebbe stata seguita la legge e la condanna revocata. Davvero.
Persino davanti al brutale massacro dei MOVE a Filadelfia del 13 maggio 1985, che portò all’incriminazione di Ramona Africa, all’uccisione di Eleanor Bumpurs, Michael Stewart, Clement Loyd, Allan Blanchard, e alle altre infinite uccisioni di neri da parte della polizia da New York a Miami, tutti impuniti, la mia fiducia restava intatta. Persino davanti a questa implacabile ondata di terrore di stato contro i neri, pensavo che i miei appelli avrebbero avuto successo. Nutrivo ancora fiducia nella legge statunitense e la constatazione che il mio appello era stato rigettato fu uno shock. Riuscivo a capire razionalmente che le corti americane sono serbatoi di sentimenti razzisti e che sono state storicamente ostili agli imputati neri, ma è difficile sbarazzarsi di una vita di propaganda sulla “giustizia” americana.
Basta uno sguardo attraverso la nazione, dove al dicembre 1994 i neri costituiscono il 40 per cento degli uomini nel braccio della morte, o attraverso la Pennsylvania, dove al dicembre 1994, 111 su 184 uomini nel braccio della morte – più del 60 per cento – sono neri, per vedere la verità nascosta sotto le toghe nere e le promesse di uguali diritti. I neri sono solo il 9 per cento della popolazione della Pennsylvania e solo l’11 per cento dell’America.
Come ho detto è difficile sbarazzarsene, ma forse possiamo farlo insieme. Come? Considerate questa citazione che ho visto in un libro di legge del 1982, di un avvocato molto in vista di Filadelfia, di nome David Kairys: “La legge è semplicemente la politica con altri mezzi”. Queste parole spiegano bene come le corti funzionino nella realtà, oggi come 138 anni fa nel caso Scott. Non si tratta di “legge” ma di “politica” con “altri mezzi”. Non è forse questa la verità?
Io continuo a combattere contro questa sentenza e condanna ingiusta. Forse possiamo sbarazzarci di alcuni dei pericolosi miti inculcati nelle nostre menti come una seconda pelle e farli a pezzi, come il “diritto” a difendersi da soli; persino il “diritto” a un processo giusto. Questi non sono diritti. Sono privilegi dei potenti e dei ricchi. Per i senza potere e i poveri sono una chimera che svanisce appena si cerca di afferrarli come qualcosa di reale e sostanziale. Non aspettatevi che le reti dei media ve lo dicano, perché non possono a causa del rapporto incestuoso tra essi e il governo e la grande impresa, che entrambi servono.
Io posso.
Anche se devo farlo dalla valle dell’ombra della morte, lo farò.
Dal braccio della morte, questo è Mumia Abu-Jamal.
Dicembre 1994
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Note dell’Archivio
-Traduzione del libro “Live from death row”, 1995