Edito da Derive Approdi, Roma, 2004, 315 p.
Sul finire degli anni Sessanta si materializzano in Italia, nell’area del triangolo industriale e sullo sfondo del lavoro di fabbrica, gang giovanili che evolvono rapidamente in temibili batterie di rapinatori. La linea di condotta dei banditi metropolitani è tutt’altro che estranea ai modelli culturali dei quartieri operai e il loro stile esistenziale assolutizza quell’impazienza e assenza di mediazione che caratterizzerà le generazioni degli anni Settanta. Nel gergo pokeristico andare ai resti significa giocarsi tutto: in questo modo i rapinatori ostentano l’imbocco di una strada senza ritorno, una visione del mondo fatta propria per oltre un decennio dalla meglio gioventù e formata attraverso la rielaborazione esistenziale dell’immaginario della ribellione. Tra le molte anomalie, rispetto alla criminalità tradizionale, vi è il ruolo delle donne. In un’epoca in cui, anche negli ambienti politici più radicali, le donne sono, nella migliore delle ipotesi, gli angeli del ciclostile, le donne/bandite conquistano un’autonomia decisionale e operativa scomoda sia per il conservatorismo borghese che per il progressismo femminista. Inevitabilmente, quando non muoiono in uno dei tanti conflitti a fuoco, per le donne e gli uomini delle batterie il carcere diventa un passaggio obbligato. Qui la loro utopia incontra quella dei militanti rivoluzionari, e in carcere le affinità elettive finiranno col riconoscersi. Partendo da un humus esistenziale comune, banditi, rapinatori e guerriglieri mettono in campo la critica più radicale mai portata alle istituzioni totali che sfocia in innumerevoli evasioni, riuscite o tentate. Quest’epoca si dissolve nelle carceri speciali nei primi anni Ottanta, quando la criminalità organizzata ritorna a egemonizzare i mondi illegali.