Edito da Klipper Edizioni, Cosenza, 2008, 117 p.
Prefazione di Katia Massara
Nel periodo della grande emigrazione moltissimi calabresi elessero a loro patria d’adozione l’Argentina, nella speranza che questa scelta difficile e dolorosa sarebbe stata prima o poi ripagata. Per molti fu così. I sacrifici, la fatica dell’adattamento, la ricostruzione della propria esistenza su basi completamente nuove e in un contesto sconosciuto furono premiati dalla conquista di un livello di vita che in patria non sarebbero probabilmente mai riusciti a raggiungere. A partire dal 1875 e fino al 1940 la Calabria registrò un incremento sempre maggiore degli espatri; partita dalla nona posizione nella graduatoria delle regioni italiane, negli anni immediatamente successivi al 1900 arrivò al secondo posto, dopo l’Abruzzo-Molise, fino al 1920 e dopo il Friuli Venezia Giulia fino al 1940. La provincia più interessata al fenomeno fu Cosenza e, al suo interno, i circondari di Castrovillari e di Paola. Fu un’emigrazione prevalentemente maschile, almeno nella prima fase. Una volta consolidata la loro posizione, i calabresi furono per lo più raggiunti dalle loro famiglie, le quali nel frattempo venivano sostenute dalle rimesse che – spesso per molti anni – i loro congiunti facevano affluire in patria, determinando così un netto miglioramento del livello socio- economico della regione, permettendo l’acquisto di case e terre e sostenendo, tramite l’afflusso di moneta circolante, le nascenti attività creditizie. Ma vi fu indubbiamente anche un ritorno in termini di crescita culturale della regione, di cambiamento delle mentalità e dei valori di riferimento, di miglioramento delle condizioni di vita e dell’alimentazione, di richieste di maggiore partecipazione civile, di aggregazione e rivendicazione dei diritti fondamentali. Uno degli effetti più dirompenti prodotti dall’emigrazione fu, ad esempio, la massiccia alfabetizzazione della popolazione calabrese e meridionale in genere, dovuta alla raccomandazione degli “americani” di imparare a leggere e a scrivere, perché le persone istruite facevano più fortuna. Gli studi sull’emigrazione si sono arricchiti da qualche anno di un nuovo aspetto, prima scarsamente considerato: quello dell’emigrazione “sovversiva”, ossia delle persone considerate politicamente sospette e pertanto continuamente sorvegliate dalle autorità di polizia dei paesi ospitanti e dalle ambasciate e consolati italiani. Le carte di polizia – e in primo luogo il Casellario politico centrale – ci restituiscono in questo senso il clima e le immagini di luoghi e tempi non tanto lontani. I calabresi che, partiti quasi sempre privi di qualsiasi connotazione politica, svolsero all’estero un’intensa attività arrivando a ricoprire ruoli di prestigio all’interno delle organizzazioni sindacali, operaie e partitiche, inserendosi rapidamente nei movimenti di lotta e fornendo spesso un contributo determinante per il progresso civile fuori d’Italia, costituiscono certamente uno degli aspetti più originali fra quelli sino ad ora messi in luce. A contatto con la nuova e più stimolante realtà vissuta all’estero molti calabresi si politicizzarono, confluendo in massima parte nei gruppi anarchici. In particolare, dei circa 3.000 “sovversivi” calabresi schedati nel Casellario e in altre fonti di polizia, gli anarchici costituiscono una parte rilevante, oltre un quinto del totale. La loro condizione sociale è alquanto modesta, così come il loro grado di istruzione; se da una parte sono destinati a svolgere i lavori meno remunerativi riservati alla manodopera non qualificata, dall’altra molti di loro sono impegnati in attività legate all’artigianato, che gli consentono di avere contatti diversificati e continui con i loro clienti e che, proprio per questo, gli impongono la comprensione rapida della lingua e della situazione generale del nuovo paese. Il dato impressionante è il numero degli anarchici calabresi che scelgono di emigrare: su 533, ben 430, pari ad oltre l’80% del totale, ossia la percentuale di gran lunga più elevata di emigranti rispetto a quella degli altri colori politici. Accanto a questo, un altro dato emerge con particolare evidenza: tra i flussi migratori, quello verso l’Argentina è decisamente eccezionale. Se infatti la maggior parte degli anarchici calabresi si stabilisce nell’America centro-meridionale (circa il 77%), l’Argentina – e soprattutto Buenos Aires – viene scelta dal 67% circa di essi, seguita, ma molto alla distanza, dal Brasile e da pochi altri paesi latino-americani. L’Argentina e il Brasile, del resto, che possedevano immense quantità di terre da coltivare e poche braccia da utilizzare, avevano adottato dalla fine dell’ultimo ventennio dell’Ottocento una politica di accoglienza per gli immigrati che prevedeva addirittura, oltre alla casa e agli animali da lavoro, anche la distribuzione gratuita del biglietto di viaggio. Ma non erano solo motivazioni di ordine economico ad esercitare una forte attrazione; non va dimenticato infatti che gli immigrati italiani erano accolti anche in omaggio alla comune origine latina, che abbatteva quasi del tutto le barriere linguistiche e rendeva molto più semplice l’integrazione. L’influenza dell’immigrazione italiana sul movimento anarchico argentino, che si identificava sostanzialmente con quello operaio e che si contraddistinse sempre per un forte attivismo, fu indubbiamente rilevante, grazie anche alla presenza, tra la fine dell’Ottocento e i primissimi anni del Novecento, di Errico Malatesta e Pietro Gori. Teorizzando come strategie di lotta lo sciopero, il sabotaggio e il boicottaggio, il movimento anarchico riuscì a incanalare energie e consensi intorno a un progetto di democrazia diretta, di solidarismo e di azione rivoluzionaria che si rendeva veramente interprete dei bisogni e delle aspettative delle masse. Si trattava di lottare contro una sostanziale, se non formale, esclusione dalla partecipazione alla vita pubblica, contro un sistema politico-istituzionale fondato su una ristretta base sociale; per questi motivi, la protesta contro le istituzioni era assoluta e trovava la sua forma naturale di espressione nei metodi propri dell’anarchismo, precludendo al sindacalismo di tipo riformista la possibilità di attecchire. Molti anarchici calabresi confluirono nella Federación obrera regional argentina (FORA), il grande sindacato rivoluzionario protagonista, soprattutto nei primissimi anni del Novecento, di una stagione di lotte senza precedenti o in gruppi libertari come “Umanità Nova”. Ma oltre alla partecipazione ai gruppi propriamente anarchici, i calabresi crearono associazioni che si richiamavano ai paesi d’origine; tra queste, spicca per la sua forte caratterizzazione politica il “Nucleo libertario cetrarese” operante nella capitale argentina e denominato anche “Gruppo anarchico cetrarese”, “Senza patria” e “Senza patria e senza Dio”. Ad esso risultano affiliati alcuni calabresi, tra i quali Francesco Attanasio, che, oltre ad esserne per un certo periodo segretario, fu tra i promotori della sua costituzione, Angelo Antonucci di Giovanni Battista e Costantino Scardamaglia, che proprio a causa della sua appartenenza al gruppo il 21 maggio 1906 fu fermato e diffidato dalla polizia di Buenos Aires. Diversi di loro aderivano anche ad “Umanità Nova”, come il già citato Antonucci, Francesco Mannarino, Salvatore Niesi e Giuseppe Pepe; in particolare, Antonucci e Niesi furono più volte segnalati per i loro rapporti con il compagno di fede Severino Di Giovanni, notissimo anarchico giustiziato in Argentina. Il “Nucleo libertario cetrarese”, sul cui funzionamento e sulla cui organizzazione non abbiamo notizie precise, doveva avere comunque una forte capacità di attrazione, se ad esso si legarono anche calabresi originari di altri paesi della Calabria, come Francesco Mannarino di Fiumefreddo Bruzio, Costantino Scardamaglia di Nicotera e, soprattutto, Giovanni D’Acqui di Corigliano, che preferì questa affiliazione a quella all’associazione costituita dai suoi stessi compaesani, ossia al gruppo dei “Coriglianesi uniti” (che poi si scisse nella “Cor Bonum” e nella “Fratellanza coriglianese”), operante anch’essa a Buenos Aires e composta in massima parte da operai e braccianti, ma meno caratterizzata politicamente. Il lavoro di Angelo Pagliaro offre all’attenzione degli studiosi e dei non addetti ai lavori le sintesi biografiche, dedotte concettualmente dai rispettivi fascicoli personali, degli appartenenti al gruppo libertario cetrarese, arricchendo il testo con l’individuazione degli altri anarchici cetraresi emigrati in Argentina e oggetto di interesse da parte delle autorità a causa della loro presunta o reale pericolosità politica e con la riproduzione di documenti originali. I fascicoli personali esaminati (conservati in copia presso il Dipartimento di Storia dell’Università della Calabria) contengono non soltanto i verbali di interrogatorio, rapporti di carabinieri e polizia e relazioni dei confidenti, ma anche scritti autografi e tutta una serie di documentazione non ufficiale che ci restituisce nella sua integrità sia il modo in cui i “sovversivi” calabresi venivano percepiti e rappresentati dalle autorità italiane e da quelle diplomatiche all’estero sia quello con il quale, viceversa, essi stessi descrivevano la propria condizione nelle lettere inviate ai familiari e agli amici. Tante storie si intrecciano e contribuiscono a rendere più profondo il solco di quella microstoria che indaga più accuratamente sulle nostre radici e la cui dignità non è seconda a quella della storia nella sua dimensione più ampia e conosciuta. Questo studio ha dunque il merito di svelare un argomento poco noto della nostra storia e di fornire un input a chi fosse interessato a proseguire gli studi su tali temi, ampliando o restringendo il campo di interesse a uno o più aspetti. Uno, tra i tanti, mi sento di fornirlo io stessa. Il Casellario politico centrale contiene, accanto a quelli degli anarchici, i fascicoli personali di comunisti, socialisti, antifascisti, demoliberali, massoni, popolari, giellini, radicali, liberali, disfattisti calabresi che, in patria o all’estero, svolsero un’azione definita a vario titolo antinazionale e comunque tale da meritare la paziente e pressoché ininterrotta vigilanza delle autorità di pubblica sicurezza, ovviamente accuratissima soprattutto durante il ventennio fascista. La zona del medio e dell’alto Tirreno cosentino fu particolarmente attiva su questo fronte. Mi auguro che questo lavoro solleciti la curiosità di chi, con lo stesso zelo e con la stessa pazienza di Angelo, intenda proseguire in questa direzione.