Deneuve Sylvie, Reeve Charles, “Al di là del passamontagna del Sud-Est messicano”

Edito da Edizioni NN, Pont St. Martin/Piano d’Arci, Gennaio 1998, 54 p.

Estratto dalla nota introduttiva di Massimo Passamani
Nulla di critico, da un punto di vista sovversivo, è stato finora pubblicato in Italia sul “Chiapas insorto” e sull’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Eppure anche qui da noi non sono mancati libri, conferenze, video, magliette, adesivi, cortei, comitati, iniziative di sostegno, insomma le mille espressioni di quella che è stata definita “l’internazionale della speranza”. Non pochi anarchici hanno dato il loro contributo. Di critiche, nemmeno l’ombra. Perché? I testi sull’argomento, soprattutto quelli che si limitano a raccogliere i comunicati e i documenti dell’Ezln, forniscono in se stessi sufficiente materiale di riflessione (ad esempio: l’organizzazione dei territori controllati dagli “zapatisti”, la creazione di un “governo provvisorio rivoluzionario”, l’imposizione di “tasse rivoluzionarie”, di “leggi rivoluzionarie” e finanche di “prigioni rivoluzionarie”). Perché parlare dell’esercito zapatista come di un’organizzazione che ha superato il marxismo-leninismo, di un esperimento a carattere libertario, eccetera? Il motivo è che, come è noto, si vede soltanto quello che si vuole vedere. Detto altrimenti, l’ideologia zapatista non è che il segno di una diffusa miseria. Al tutto, ovviamente, ha contribuito anche lo spettacolo, l’immagine del passamontagna, il mistero delle foreste, il fascino dell’esotismo; e poi Marcos, con i suoi testi poetici («gay a San Francisco, anarchico in Spagna…», «un paese dove il diritto di ballare sarà riconosciuto dalla Costituzione…») e la sua abilità a giocare col concetto di potere; ma hanno contribuito, soprattutto, il vuoto di prospettive, l’immondo fronte unico di una sinistra che difende il diritto al lavoro e le garanzie democratiche contro un “neoliberalismo” che tutti – dagli stalinisti agli anarchici – pretendono combattere, l’assenza di ogni discorso rivoluzionario che, oltre il nulla delle celebrazioni storiche, sappia porre radicalmente le uniche questioni radicali: la distruzione dello Stato, la distruzione dell’economia e l’autogestione generalizzata. La miseria delle idee e dei desideri rende ciechi due volte: primo, perché inganna sulla natura reale dei contenuti e delle forme organizzative che gli sfruttati si danno negli scontri sociali presenti nel mondo (in questo caso, i metodi dell’Ezln e la pretesa “autonomia indigena”); secondo, perché porta ad affrontare il problema di quei contenuti e di quelle forme al di fuori dell’unico ambito concreto in cui può essere affrontato – quello della rottura insurrezionale. D’altronde, per quale motivo individui che qui da noi considerano velleitario e avventato ogni tentativo di rivolta, ogni discorso che fastidiosamente ricorda che lo Stato, da solo, non crolla, che contro il suo servizio d’ordine politico, sindacale e poliziesco qualcosa – prima che in meravigliose assemblee si decida tutti assieme, liberi e felici, il futuro del mondo – bisognerà pur fare; per quale motivo siffatti individui si entusiasmano per la guerriglia quando avviene in un’esotica lontananza? Che ci sia qualcosa che unisce le immagini del passamontagna “zapatista” e la vita quotidiana di tanti che lavorano, consumano, votano e pagano le tasse, qualcosa che assomiglia alla passività, una passività che potrebbero difendere anche con le armi? […] «La società che stiamo costruendo rifiuta gli strumenti e le armi tradizionali degli Stati neoliberali, cioè l’esercito, le frontiere, le ideologie nazionaliste» ha dichiarato un membro dell’Ezln. Non male per un’organizzazione che si chiama Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale. Non da meno, il subcomandante Marcos, nel suo saluto finale [all’incontro intercontinentale del 1996], dopo aver detto poeticamente che «il cerchio si stringe attorno ai ribelli, che però hanno dietro di sé, sempre, l’umanità intera», afferma politicamente: «Noi zapatisti abbiamo proposto di lottare per un governo migliore, qui, in Messico». Come si vede, discorso zapatista è a tre livelli: il “governo rivoluzionario” per i leninisti; la difesa della democrazia contro il “neo-liberalismo” per i militanti dei partiti di sinistra; la poesia contro il “potere”, il mito dell’assemblea sovrana per i libertari. Ma il riformismo rimane tale anche quando impugna le armi, quando parla male dei potenti, quando rivendica, assieme al lavoro, alla giustizia e a una nuova Costituzione, il diritto di danzare. Che uno slogan come «contro il neoliberalismo e per l’umanità» sia buono per tutti i gusti è piuttosto evidente; […] tuttavia, è utile criticare i contenuti reali dello zapatismo. Questo non certo per togliere ogni significato alle rivolte in Messico e altrove (rivolte che non vanno confuse con la loro rappresentazione spettacolare e il loro consumo mercantile), bensì, al contrario, per comprenderle meglio e dare loro, così, le ragioni della propria globalità; per rendersi conto che lo spazio di una teoria e di una pratica sovversive è colonizzato dallo spettacolo della rivoluzione, e dai movimenti che ne rappresentano soltanto la negazione riformista. Come a dire che un’Internazionale antiautoritaria e sovversiva, un’Internazionale che sappia sconvolgere davvero i piani di morte degli Stati e dell’economia, è tutta da inventare. In tal senso, conoscere e criticare il suo contrario non è che il primo passo.

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