Edito da La Fiaccola, Ragusa, Giugno 1976, 165 p.
Prefazione
Non era ancora avvenuto, nel continente americano, un caso di permanenza al potere come quello di Porfirio Diaz nel Messico; non era neppure mai stato architettato un regime così solido, dispotico ed autocratico come quello di questo lugubre personaggio. Si era sollevato in armi contro il liberalismo dell’indiano di Oaxaca, Benito Juárez, in nome dell’antirielezionismo ed era finito per restare al comando supremo per ben trentaquattro anni in rielezioni successive, sinché la ribellione del popolo messicano si generalizzò nel 1910 e mise fine al regno oppressivo e alla schiavitù di fatto delle grandi masse contadine senza terra e degli operai delle fabbriche tessili e altre. Al vertice della piramide politica, economica e sociale del paese azteco, un uomo senza scrupoli avente al suo servizio una rete di servitori ossequiosi o di suoi protetti nelle alte cariche amministrative dello Stato, al Parlamento, nei governi locali, nelle circoscrizioni politiche distrettuali, e alla base il 95 per cento della popolazione soggiogata, miserabile, analfabeta, spodestata dalle terre ereditate dal regime coloniale spagnuolo, e inoltre una minoranza di grandi latifondisti, di commercianti ambiziosi e di industriali stranieri senza scrupoli morali. Contro questa mostruosità antigiuridica e antisociale cominciarono ad agitarsi alcuni giovani, in maggioranza studenti, applauditi da gente del popolo, che si dedicarono all’apostolato della stampa e della parola, benché tale risorsa fosse stata anch’essa debilitata e sottomessa al ca priccio dei giudici e all’arbitrio poliziesco. Sin dall’ultimo decennio del secolo scorso, assistiamo ad esplosioni di pro testa come quelle indette nella sede del giornale El Hijo del Ahuizote nel 1893, contro la nuova rielezione di Porfirio Díaz, quando i giovani protestatari più attivi si affacciarono al balcone annunciando con un gran cartellone « la Costituzione è morta ». Tutto ebbe fine con l’irruzione delle forze poliziesche e dell’esercito che fecero diversi feriti e imprigionarono gli altri nel famigerato carcere di Belén, un covo spaventoso di torture da dove difficilmente si usciva vivi. Come lievito permanente di tale agitazione apparvero sin dalla prima ora i fratelli Flores Magón, Ricardo, Jesús e il minore di loro, Enrique. Dopo molte frustrazioni, nel 1900 sorge il giornale Regeneración nella capitale messicana, dapprima apparentemente come organo di critica al sistema giudiziario imperante, ma presto attaccando apertamente il regime porfirista. Le persecuzioni raddoppiarono, i redattori di Regeneración trascorrevano lunghi periodi nelle prigioni e non si piegavano né deponevano le armi. Il porfirismo decise allora che i Flores Magón non dovevano scrivere in nessun giornale del Messico, la loro parola doveva essere messa a tacere. Jesús Flores Magón, in procinto di laurearsi in legge, giudicò sterile il sacrificio e si ritirò dalla lotta. Ricardo, con Librado Rivera, Santiago de la Hoz, Camilo Arriaga, Juan Sarabia e molti altri, la maggior parte dei quali erano incarcerati, decisero di continuare dall’estero la guerra al porfirismo che ormai non potevano più condurre nel loro paese e, nel 1904, attraversarono come meglio potettero la frontiera messico-americana. Durante questo esodo forzato non mancarono drammi penosi, come la scomparsa di Santiago de la Hoz, il poeta e giornalista di Veracruz, che annegò mentre faceva il bagno nel Rio Bravo. Ricardo Flores Magón e i suoi compagni riprendono la pubblicazione, nel « paese dei bravi e dei liberi » dell’organo Regeneración, riorganizzano il Partito Liberale Messicano, stabilirono nel 1908 un programma di imperiose rivendicazioni (i cui postulati vennero poi accolti nella Costituzione messicana del 1917) e propagano la rivoluzione mediante la propaganda e l’esempio. Il giornale è perseguitato dalle autorità americane, dalle agenzie private di investigazione al soldo del governo del Messico, con la complicità del servizio postale, che permette il controllo e il registro della corrispondenza sospetta. Ricardo e compagni vanno da un ‘processo all’altro, da una prigione all’altra, fin quando Ricardo muore nel penitenziario di Leavenworth, nel Kansas, verso la fine del 1922. Quella battaglia degli esuli messicani fu un calvario da far rabbrividire che quando eravamo giovani seguivamo attraverso la nostra stampa dall’Europa e dall’America, con ammirazione e simpatia. Ricardo, che era un anarchico istintivo, non tardò a dichiararsi tale coi suoi amici intimi, senza tuttavia allontanarsi un millimetro dalla realtà in sopportabile del suo popolo. La rivoluzione messicana fu incarnata in Ricardo come simbolo, dentro e fuori del Messico. Ma non era solo, lo assecondavano e contribuivano al suo sforzo gigantesco molti altri oltre al fratello Enrique, oltre a Librado Rivera, oltre ad una pleiade magnifica di combattenti, fra i quali Práxedis G. Guerrero. Dobbiamo confessare che poco più di mezzo secolo fa, avevamo informazioni per sapere qualcosa di più di Guerrero, quando leggevamo i suoi lavori su Punto Rojo, il giornale da lui pubblicato a E1 Paso (Texas), su Regeneración di Los Angeles (California) e su altri organi di stampa che vedevano la luce negli stati americani limitrofi; ci seduceva lo stile letterario, la profondità del pensiero, il soffio libertario che emanava da ogni frase e da ogni nota, e ci avvinceva la combattività, l’abnegazione, la comprensione delle esigenze di quell’ora. Si era unito al gruppo di Flores Magón sin dal 1906 e non tardò a diventare uno dei suoi compagni intimi e a colmare il vuoto lasciato dagli altri dirigenti del movimento quando dovevano scontare le loro condanne. Già nel 1906 ha inizio la lotta armata da parte di con tingenti guerriglieri articolati dentro e fuori del Messico; continua con nuovi sollevamenti nel 1908 e negli anni successivi; Francisco I. Madero proclama il piano di San Luis Potosí e prende le armi nel 1910 e le guerriglie del magonismo libertario danno il loro apporto a questa crociata, come quella di Prisciliano G. Silva, come i tentativi di Jesús M. Rangel, come quella della Bassa California e di tante altre località del paese, come quella di Práxedis G. Guerrero, che si impadronì di Casas Grandes, verso la fine del 1910, sconfisse i difensori di Janos e quando credeva che tutto il villaggio fosse sotto il suo controllo, una pallottola notturna mise fino alla sua vita, senza che si sapesse se si trattò di un errore o dell’azione di un nemico nascosto. La morte di Guerrero fu una tragedia, una perdita irreparabile per il movimento rivoluzionario messicano, una perdita per il Messico, perché si trattava di una brillante promessa che aveva già dato la misura del suo valore nei pochi anni di attività. Guerrero era il rampollo di una famiglia ricca, nato nel podere de Los Altos de Ibarra, non lungi da Leon, Guanajuato. Aveva abbandonato la sua posizione di privilegiato e aveva scelto la via dell’esilio negli Stati Uniti per lavorarvi come manovale, assieme al compagno Francisco Manrique, con cui aveva frequentato le scuole elementari e che vide morire in un altro tentativo di guerriglia cui entrambi prendevano parte. Allorché Guerrero intraprese la sua ultima azione alla testa di un nutrito gruppo di guerriglieri, Ricardo Flores Magón e Librado Rivera erano in carcere. Se non fosse stato così, riteniamo che lo avrebbero dissuaso dall’esporsi personalmente, perché sapevano quanto valesse e perché per Ricardo era come un fratello minore. L’impresa in cui si giocava la vita aveva probabilità di espandersi, di con centrare nuove forze combattenti, però aveva maggiori probabilità di trasformarsi in tragedia, dato che le forze militari del porfìrismo erano più forti e disponevano di ogni mezzo per l’attacco e per la difesa. Uomini della tempra di Guerrero sono più utili all’umanità e ai popoli come seminatori vivi che come simboli eroici morti. Quello che Guerrero avrebbe potuto ottenere con la sua penna e la sua presenza, non lo avrebbe potuto ottenere col fucile in mano. Santiago de la Hoz affogato nel Rio Bravo, Guerrero morto a Janos, rimase solo Ricardo Flores Magón con una statura da lottatore imperterrito; al contrario il trio avrebbe potuto costituire una fucina di grandi possibilità per un nuovo Messico, non essendocene in quegli anni un’altra di tale qualità, di simile chiaroveggenza, di uguale impulso per mobilitare coscienze e braccia. Parecchi anni or sono, traducemmo un saggio di Max Nettlau su Gustavo Landauer, assassinato nel corso della rivoluzione dei consigli di Baviera nel 1919, una perdita dolorosa per il pensiero libertario in Germania e nel mondo. Nettlau, che non ignorava quanto Gustavo Landauer potesse dare al mondo col suo talento, col suo valore intellettuale e il suo esempio, non esitò a dichiarare la sua ostilità contro il fatto che uomini di tale taglia si sacrificassero in azioni d’importanza relativa come quelle della Räterepublik. Confessiamo che ci dolse non poco il giudizio del grande storiografo del socialismo al quale tanto dobbiamo, perché pensavamo che una causa come era quella della libertà e della giustizia non ammetteva divario fra pensiero e azione. Nel corso degli anni siamo giunti alla stessa conclusione del Nettlau riguardo Landauer. E ci siamo rallegrati quando abbiamo saputo che Rudolf Rocker aveva potuto eludere all’ultima ora il destino che gli prospettava il trionfo di Adolfo Hitler in Germania, perché potè darci ancora per molti anni il risultato delle sue esperienze e della sua conoscenza dei problemi dell’uomo e del mondo. Se dipendesse da noi, cercheremmo di risparmiare vite preziose anziché stimolarle al sacrificio in tentativi di dubbia utilità. Un Praxedis G. Guerrero, con la penna in mano, ci sarebbe stato infinitamente più prezioso che non la sua fine eroica all’età di ventott’anni. Pietro Ferma è stato sedotto, come noi, dai combattenti magonisti, e ha saputo valorizzare il loro pensiero e la loro azione esemplare in vari lavori sostanziosi di questi ultimi anni. Questa dedizione ci inorgoglisce e ce ne rallegriamo straordinariamente perché Ferma riunisce tutte le condizioni affinché tale capitolo della presenza dei nostri compagni nella rivoluzione messicana venga presentato alle nuove generazioni senza deformazioni capricciose o settarie. La monografia da lui dedicata a Praxedis G. Guerrero con tiene tutto quello che una ricerca storica rigorosa può riunire su questa figura nobile e su questo modello che non può essere ignorato dagli amanti della libertà e della giustizia. Rende così un omaggio ben meritato allo scrittore, al propagandista, all’eroe senza macchia, che visse e morì per la liberazione del suo popolo, schiavizzato e martirizzato da una tirannia inumana, inumana come tutte le tirannie, di destra, di sinistra o di centro. Non dubitiamo che questo lavoro di Pietro Ferma riempia un vuoto nella nostra bibliografia e abbia l’accoglienza meritata.
DIEGO ABAD DE SANTILLAN
Buenos Aires, 20 luglio 1975