Edito da Centro Internazionale Diffusione Stampa, Roma, 1978, 16 p.
Estratto dall’inizio dell’opuscolo
Tutta la nostra esistenza è preordinata secondo norme che ci espropriano.
La vita quotidiana della donna è ritmata da gabbie successive: le mura della casa, i suoi ruoli (figlia, moglie, madre), il lavoro. Apparentemente sono gabbie aperte, in realtà la donna vi è rigettata continuamente dentro come unico luogo dove il cosiddetto femminile può esprimersi.
Riusciamo a liberarci… che già ci troviamo incarcerate in un altro ruolo. Questa spirale oppressiva e annientatrice di noi come persone si rafforza e prende terreno proprio mentre la società ci “accetta” e si rispecchia.
C’è anche una nostra necessità di essere accettate; questa, se da una parte costruisce tutte le deformazioni e le storture dei nostri bisogni, dall’altra ci costringe ad adattarci a comportamenti imposti. In noi stesse c’è il divieto, l’abitudine, l’adattamento.
LE NUOVE, le sue mura di cinta danno un senso di terrore. Sembrano ‘‘l’estraneità”’’ dello stato, espressione fisica e visibile del luogo separato, l’espiazione della pena. Sembrano fuori del nostro percorso, già così rigidamente articolato; un iceberg di vite sopravvissute. Ma corrispondono per negativo ad una rottura violenta nel sociale o ad una ‘devianza’ dalla norma.
Per poter dire qualcosa sul carcere come istituzione bisogna capire le fasi di incarceramento nel nostro quotidiano, come donne. Ricostruirle a ritroso, scardinare le norme per collocarci interamente e consapevolmente nel sociale. Le gabbie: del ruolo sono elemento di ricomposizione: la donna che sta al suo posto è funzionale a conservare e a riprodurre gli stessi rapporti sociali. L’istituzione carcere, intervenendo su un rifiuto, su una ribellione sociale e politica, riconferma l’ordinamento esistente ed è perciò interna alla nostra pratica di vita.