Sacchi Marco, “Il sindacalismo rivoluzionario in Francia, Italia, Spagna e USA”

Autoprodotto, Milano, Gennaio 2012, 75 p.

Premessa
La crescente integrazione delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio tagliava fuori, in misura diversa da paese a paese, quote più o meno consistenti (per quanto eterogenee) di lavoratori: un esteso comparto dell’artigianato francese minacciato dal procedere dell’industrializzazione, fette consistenti di lavoro dequalificato e marginale, britannico e nordamericano, stuoli di contadini senza terra. Un insieme, come si vede, di frazioni di classe accomunanti dalla perifericità. Il mentore del sindacalismo rivoluzionario fu G. Sorel che aggiunse profondità e spessore al progetto sindacalista, ma intrattenne rapporti sporadici col movimento sindacalista e non vi ebbe mai un’influenza reale, anche perché la sua avversione assoluta per la società borghese lo rendeva insofferente e ostile verso le conquiste e i miglioramenti parziali perseguiti invece dalle organizzazioni operaie. Il sindacalismo rivoluzionario fece leva sulla profonda, radicale insoddisfazione nei confronti dei tratti fondamentali della società borghese, in primo luogo verso la democrazia politica. A essa era imputata il suo inconfessabile conservatorismo, lo pseudo egualitarismo e la narcotizzazione delle masse dovuto all’emergere di una casta professionalizzata di professionisti della politica, cresciuta con il sistema parlamentare e le sue compagini partitiche. Ciò che i sindacalisti rivoluzionari mettevano soprattutto in discussione era la capacità di queste istituzioni a rappresentare i reali bisogni dei lavoratori, alle quali era contrapposta l’azione diretta, cioè il rifiuto di qualsiasi forma di delega e l’impegno individuale nella trasformazione della società. All’artificialità dei rapporti politici, opponevano la naturalità dei rapporti economici, al cittadino il produttore, al partito la classe operaia organizzata nel sindacato. Lungi però dall’adagiarsi o rianimare i sindacati esistenti, i sindacalisti rivoluzionari si dedicarono all’edificazione di organizzazioni operaie alternative a quelle esistenti. L’esautorazione della politica a vantaggio dei rapporti produttivi rendeva, ai loro occhi, superflua l’elaborazione di una linea strategica. A essa era contrapposta la capacità di individuare il momento più propizio all’attuazione dello sciopero generale, bloccando così l’intera attività produttiva fino al collasso definitivo del capitalismo. Poiché il lavoro era considerato l’unico elemento vitale dell’ordinamento sociale e lo Stato borghese non sarebbe stato in grado di fronteggiare una paralisi totale del sistema produttivo, lo sciopero generale s’identificava con la rivoluzione. L’obiettivo primario del movimento era quindi l’abbattimento della società capitalista e la sua sostituzione con la società dei produttori ma erano avversari acerrimi del socialismo della Seconda Internazionale e delle organizzazioni sindacali legalitarie. Il sindacalismo rivoluzionario non vedeva il problema del centralismo della classe: le lotte locali, di azienda o di categoria andavano bene, purché ne fosse tolto il veleno della collaborazione di classe per arrivare al rovesciamento del potere borghese e all’espropriazione dei padroni. Questa visione dello sciopero generale espropriatore riduceva alla fine la conquista della società alla conquista della fabbrica. Le divergenze teoriche tra quello che era definito “marxismo ortodosso” e sindacalismo rivoluzionario era profondo. I teorici del sindacalismo rivoluzionario respingevano l’impianto teorico della Seconda Internazionale che era identificato in Kautskj. Essi (e sotto certi aspetti non avevano torto) lo consideravano l’ideologo di un determinismo storico, che teoricamente portava al fatalismo e nella pratica al riformismo. Quello che gli intellettuali sindacalisti rivoluzionari respingevano, non era tanto il marxismo in sé, quanto contro l’evoluzionismo automatico della socialdemocrazia quella strana miscela di Marx e Darwin, Spencer e degli altri pensatori positivisti, che era spacciato per marxismo. A dire il vero nell’Occidente, la prima generazione di intellettuali che dichiarò di utilizzare l’analisi marxista, in massima era nata attorno al 1890, fusero in maniera naturale Marx con le influenze culturali prevalenti all’epoca. Per molti di loro il marxismo, per quanto teoria nuova e originale, apparteneva alla sfera generale del pensiero progressista, sebbene politicamente più radicale e connesso specificamente al proletariato.

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