Guagliardo Vincenzo, “Il meTe imprigionato. Storia di un amore carcerato”

Edito da Grafton 9 Edizioni, Bologna, 1994, [35 p.]

Prefazione di Rosella Simone
Nadia e Vincenzo sono in carcere a scontare con la vita la loro appartenenza alle Brigate Rosse con quattro ergastoli a testa e qualche altro spicciolo di anni e sono pazzi. Pazzi scatenati. Prigionieri sconfitti di una guerra dichiarata perduta, pluri-ergastolani chiusi nella cassaforte perbenista del carcere di Opera, trascurabili residui di sogni intransigenti insistono caparbi a usare parole scostanti e fuori moda come princìpi e onore. E tutto questo in nome dell’amore. L’amore per gli altri anche, ma questo era già stato detto da Cristo e anche da Marx. Ciascuno, naturalmente, con il suo linguaggio. Ma loro dicono Io amo Te. Proprio Te che sei il mio uomo, proprio Te che sei la mia donna. Proprio quell’altro\altra definita da un corpo e da una mente, e così facendo anche i princìpi che hanno spesso ferito e offeso corpi e menti vive di persone e identità, identificandosi in un nome e corpo vivo e non astratto dell’altra\altro si fanno delicati, si fanno profondi, si fanno potenti. Amo Te, la tua mente, la tua dignità, i tuoi princìpi. Amo il tuo corpo e lo desidero e questo Cristo non l’aveva detto. E neanche Marx. Pudicissimi spudorati vogliono fare l’amore e lo dicono senza malizia o vergogna, senza pruderie alcuna perché loro, per loro, sono un corpo solo. E ne sono così sicuri da argomentare il rifiuto a richiedere i benefici della legge Gozzini non solo perché rigettano l’idea di sottomettere a premio un riesame critico del loro percorso personale e politico ma anche perché non possono fare la richiesta come quello che si sentono di essere, un corpo solo, un Me-Te appunto.
Un Me-Te che neppure per la libertà può sciogliere il patto di lealtà. Lealtà a se stessi, ai propri sogni, ai propri princìpi, al proprio senso dell’onore. Tutte cose che li hanno visti insieme, fuori e dentro la galera, nelle stesse scelte: dalle Brigate Rosse al rifiuto del perdono premiale. E argomentano contro una giustizia “garantista” con questa pretesa di essere un unicum indissolubile tra se stessi e le loro scelte politiche e morali, tra lui e lei. Così, giocando molto seriamente, riescono ad essere sconvolgenti, a cambiare tutto rimanendo coerenti a un rigore rivoluzionario. Una rivoluzione che vede loro stessi primi soggetti del cambiamento che vorrebbero anche per il mondo. E lo fanno senza premio di potere e di vittorie. L’unico premio è la galera che non si scrollano di dosso non per paura della libertà ma per onorarla, la libertà. Proprio quell’unica libertà che vale, e che o la porti nel cuore o non la trovi da nessuna parte. Però sono davvero pazzi. Ad avere una così sorridente fermezza che li fa essere inflessibili e teneri, sereni e sconvolgenti, spiritosi e bizzarri. E paurosi per noi che qui fuori, liberi di prendere il cappuccino al bar o l’aereo per il Perù, a confronto con il loro libero pensiero ci sentiamo prigionieri. Prigionieri di quegli appiccicosi mille compromessi che ci consentono di avere le chiavi di casa ma non quelle della nostra più profonda verità.
Il Me-Te dunque è un paradosso? No, è una creatura nuova nata dalla sconfitta dell’io egoista e dalla scoperta della relazione. Una relazione intessuta di sensi d’amore. Capace di andare oltre i confini dell’Io verso un incontro con l’altro, in un espandersi che non appiattisce. Dal carcere dunque, nello sforzo infinito e quasi mortale di continuare a vivere conservando la propria autentica umanità, Nadia e Vincenzo fanno scoperte semplici e deflagranti.
Che, ad esempio, il grande divieto del presente è il sentimento d’amore. Non certo il grande amore per il Dio onnipotente, potente spirito maschio. E neanche l’amore per il prossimo, purché astratto e mitizzato. E neanche per le persone purché santificate in popolo o in classe. Ma quello che fa scandalo, che fa scattare l’interdetto è l’amore come modificazione dei confini del sé, come trasmettersi all’altro senza schermo. Perché non c’è niente di più alieno a questo mondo posseduto dal delirio dell’Io, basato sulla guerra e la sopraffazione, del concedersi all’altro senza difese. Quello che propongono non è una fusionalità omologante e annichilente ma il riconoscimento e l’espansione di sé nell’altro. E poiché il primo altro negato in una società fondamentalmente misogina è la donna, secondo Nadia e Vincenzo, è proprio il rapporto uomo-donna il grande interdetto della nostra società. Non certo il rapporto riproduttivo ma quello creativo. Dunque Nadia e Vincenzo fanno della coppia che sono un elemento eversivo, e pongono la contraddizione insanabile per il diritto formale ma anche per la coscienza del tempo di un’ansia di libertà sostanziale che parla di un diritto di uguaglianza tra esseri nel rispetto delle diversità. A partire da quella originaria, maschio/femmina. Rispetto della diversità non in modo astratto, ma concreto e compassione. Ma poiché chiedono l’impossibile restano in galera. Nessun patto sociale, nessun diritto positivo prevede oggi di tenere conto della sostanza dei sentimenti ma solo della forma di questi. Dunque è pentito chi pattuisce la sua resa, è onesto chi ha l’apparenza dell’onestà, ama chi si compiace dei deliri del proprio io. Nadia e Vincenzo invece stanno in carcere perché nessuno ha interesse per chi vuole onorare l’amore. E infatti sono pazzi. Forse per questo sono più vicini alle stelle, forse per questo sono sognatori di sogni liberi.
E questi pazzi, lo dico con orgoglio, sono miei amici.
Ma poiché amicizia non può essere solo condivisione acritica dei pensieri dell’altro ma confronto a pari dignità, devo dire anche che la vostra esperienza non sostiene la mia qui fuori. Nella separazione fisica dei vostri due corpi Vincenzo trasmuta Abelardo in Eloisa e l’estasi sessuofobica di San Giovanni della Croce in qualcosa di più caritatevole e terreno. E per come siate riusciti a mantenere modesti e corporei i vostri sentimenti in quella fucina di corruzioni che è il carcere, quasi unici per quello che so, a voi va tutta la mia ammirazione. Vi siete fatti corpo androgino ma io non credo all’androginia primigenia e ho in sospetto l’uso che se ne fa nel presente. Qui fuori dove i corpi possono anche toccarsi e sudare assieme possedendosi la coppia umana spesso assomiglia a un brutto sogno. Perché forse ci vogliono situazioni eccezionali perché i maschi accettino di essere semplicemente la metà del cielo. L’Io è un’invenzione tutta maschile alla quale le donne sono state spesso se non sempre ossequiose complici. Inoltre, la relazione e l’espansione del sé come esperienza privata e politica è una possibilità, un patrimonio e (almeno in alcuni ambiti dove si agisce la politica delle donne) una pratica femminile alla quale sarebbe bene, bene per loro e per il mondo, che anche gli uomini si arrendessero. Ed è, dunque, solo attraverso la relazione con te Nadia che io posso credere a quest’uomo che non ha paura di vivere d’amore.

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