Edito da Edizioni Sprofessori, 2011, 98 p.
Prefazione
Sopprimere nell’educazione la disciplina, i programmi e le classificazioni, le tre iniquità della regolamentazione scolastica attuale, da cui derivano tutte le iniquità sociali: la disciplina generatrice di dissimulazione, di ipocrisia e di menzogna; i programmi, distruttori d’ogni originalità, iniziativa e responsabilità; le classificazioni, generatrici di rivalità, di gelosie e di odi. Così il nostro insegnamento sarà integrale, razionale, misto e libertario: integrale, perché tenderà allo sviluppo armonico dell’essere tutto intero e fornirà un insieme completo, collegato, sintetico, parallelamente progressivo in ogni ordine di cognizioni, intellettuali, fisiche, manuali, professionali, e ciò a partire dalla più giovane età; razionale, perché sarà basato sulla ragione, e conforme ai principi della scienza attuale e non sulla fede; sullo sviluppo della dignità e dell’indipendenza personale e non su quello della pietà e dell’ubbidienza; sull’abolizione della funzione di Dio, causa eterna e assoluta di asservimento; misto, perché favorirà la coeducazione dei sessi in una frequentazione costante, fraterna, familiare dei fanciulli, giovani e giovanette, che dà all’insieme dei costumi una particolare serenità; lungi dal costituire un pericolo, essa allontana dall’idea del fanciullo le curiosità malsane e diviene, nelle sagge condizioni in cui deve essere osservata, una garanzia di preservazione e di alta moralità; libertario, perché gioverà all’immolazione progressiva dell’autorità a favore della libertà, lo scopo finale dell’educazione essendo il formare degli uomini liberi, pieni di rispetto e d’amore per la libertà altrui.
Questo Manifesto per la libertà dell’insegnamento, pubblicato a Parigi nel 1898, portava in calce, tra le firme di militanti anarchici come Pëtr Kropotkin, Louise Michel, Charles Malato, Jean Grave ed Élisée Reclus, anche quella del celebre romanziere russo Lev Tolstoj. L’atmosfera culturale di cui questo documento era figlio non era nata però negli studi e nelle biblioteche, ma proveniva direttamente dal bisogno di libertà del popolo lavoratore. Una libertà che, a differenza di quanto avviene oggi, non veniva invocata attraverso petizioni all’autorità di turno, ma conquistata sulle barricate attraverso la coscienza della propria forza e l’autorganizzazione: un atto di autoaffermazione, ossia di educazione nel senso etimologico della parola. Operai il cui nome non è stato coperto di celebrità dalla storia dei vincitori, sono i veri responsabili di quest’idea di libertà come bene collettivo. Alcuni di questi operai, rivolti agli studenti parigini, si esprimevano così alla vigilia del primo congresso dell’Internazionale dei Lavoratori (3-8 settembre 1866):
L’umanità ha sofferto abbastanza; troppo a lungo è stata piegata sotto il gioco abbrutente della forza, ed è ora che, cacciando dal suo cuore e dal suo cervello ogni superstizione, si alzi in piedi, reclamando con energia la giustizia. […] Ebbene! A voi giovani, con le vostre nobili aspirazioni non ancora raffreddate dall’età, a voi, speranza dell’avvenire, dal fondo della nostra miseria diciamo: venite in mezzo a noi, vedrete le nostre mani indurite dal lavoro; venite a rafforzare la nostra alleanza. Ci insegnerete la scienza e noi vi insegneremo i misteri del lavoro. Vi conosceremo meglio e vi ameremo di più. Probabilmente, il messaggio contenuto in testi come quelli citati è comprensibile, ancora oggi, più con il sentimento che non con l’analisi del linguaggio.
Per chi abbia la disposizione d’animo adatta, il valore di quelle parole è intatto, anche se è facile prendere le distanze dalla fiducia nella scienza (dopo le bombe atomiche e la distruzione del pianeta ad opera della tecnologia) o dall’ideologia del lavoro e dell’istruzione (dopo aver visto cosa ha prodotto la scolarizzazione di massa). Dopo un secolo e mezzo, il bilancio è chiaro: molte delle istanze sollevate da quel movimento di emancipazione si sono trasformate in testi di legge oppure in elaborati giri di parole sui libri di pedagogia, senza che nessuno abbia acquisito la capacità di prendere in mano le redini del proprio destino.
Maschi e femmine sono stipati nelle stesse classi, senza che le valutazioni abbiano troppa importanza e, se vogliono, possono rifiutare l’ora di catechismo cattolico; i pedagogisti parlano di libertà, di scienza e anche dell’equivalenza tra vita e apprendimento, ma le conoscenze che ciascuno di noi possiede su ciò che mangia, produce e utilizza sono diminuite, anziché aumentate.
Sono sbagliati i principi o c’è qualcosa che non va nel modo in cui si è provato ad applicarli? L’ipotesi più probabile è che siano vere entrambe le cose. Innanzitutto è difficile parlare di principi, e dunque di parole, in un mondo che accosta parole come “Libertà” e “Mercato”, oppure “esercito” e “pace”. In secondo luogo, se anche riuscissimo a chiarirci sul significato delle parole, resterebbe da capire in che modo le azioni umane ne vengono influenzate.
Quel che è certo è che l’opera di emancipazione dalla sudditanza verso l’autorità è ancora da compiere, e talvolta viene anche da dubitare che abbia fatto passi in avanti. Forse, a dover essere messo in discussione è proprio il presupposto che ci sia un avanzamento da compiere: il mito del progresso, della crescita e di uno sviluppo lineare delle potenzialità umane che, in ultima istanza, è il mito della scuola. Gli scritti di Tolstoj qui riportati sono appunto rivolti alla demolizione di questo mito. Lo scrittore russo, probabilmente più di ogni altro educatore antiautoritario contemporaneo, riesce a sfuggire all’ideologia progressista della sua epoca. Oggi sappiamo, o dovremmo sapere, che il progresso, la scienza e lo sviluppo non corrispondono ad un miglioramento delle condizioni di vita o al conseguimento di una maggiore felicità. Gli educazionisti dell’ottocento avevano però più di un’attenuante, poiché la razionalità e la scienza, sulle cui basi volevano edificare una società più giusta, avevano un’ottima ragion d’essere nella contrapposizione all’irrazionalità e alle assurdità del potere religioso, economico e statale. Le parole di Tolstoj, oggi sono forse più comprensibili che allora: Ai nostri tempi chiamasi scienza non ciò che tutti gli uomini ritengono essere vero, ragionevole e necessario, ma viceversa viene ritenuto vero, ragionevole e necessario tutto ciò che alcuni uomini chiamano scienza. […] Soltanto questa pseudoscienza dà ai potenti la possibilità di dominare, e toglie ai dominati la possibilità di liberarsi della propria schiavitù. Allora come oggi, parlando di pseudoscienza, il riferimento alla pedagogia è inevitabile:
La pedagogia può definirsi quella scienza che insegna in che modo, vivendo male, si possa riuscire ad esercitare una buona influenza sulla gioventù; e rassomiglia alla nostra medicina, che pretende di insegnare come, vivendo contro le leggi della natura, si possa conservare la salute: scienze furbe e vuote che non raggiungono mai la loro meta. Sebbene successive di qualche anno, le precedenti definizioni sono in sintonia con la visione dell’educazione delineata negli scritti qui pubblicati.
Si tratta di una visione che anticipa quella dei descolarizzatori degli anni settanta, affermando la superiorità dell’apprendimento dalla vita rispetto a quello istituzionalizzato. Tolstoj analizza alcuni importanti temi alla radice del problema educativo, come la distinzione tra formazione e indottrinamento, la relazione tra insegnante e alunno e il ruolo del contesto sociale, della famiglia, della chiesa e dello stato. Sa di «turbare la serenità dei tecnici esprimendo una convinzione così contraria all’opinione generale», ma non esita ad attaccare l’ideologia scolastica da tutte le angolazioni possibili: mette in discussione il diritto di educare, dei laici come dei religiosi, e persino la nobiltà d’animo dell’insegnante, il cui movente sentimentale Tolstoj attribuisce all’«invidia per la purezza del bambino» e al «desiderio di renderlo simile a sé». Rovesciando questa logica, egli mostra, nell’ultimo articolo (Chi deve insegnare l’arte letteraria a chi?), la possibilità di recepire da un bambino di dieci anni, «l’arte di insegnare ad esprimere i pensieri» e la rinnovata convinzione che «il fanciullo è più vicino di me, più vicino di qualsiasi adulto, all’armonia del vero, del bello e del bene». L’idea alla base della scelta di fondare la scuola di Jàsnaja Poljana consiste forse proprio in questa presunta superiorità morale del bambino rispetto all’adulto.
Ciò che però ci sembra più interessante è la riflessione su alcuni termini (educazione, scuola, cultura) che, oggi come 150 anni fa, fanno parte del dibattito politico sebbene nessuno si preoccupi di fornirne una pur approssimativa definizione. Tolstoj ci prova, e sebbene incorra in qualche contraddizione, dà l’impressione di grande lucidità e, a nostro avviso centra il problema: la questione della libertà. Attorno a questo concetto egli fa ruotare la distinzione tra «educazione», imposta dall’insegnante agli alunni, e «formazione culturale», prodotto di un rapporto libero. Appunto in contraddizione cade però quando, dopo aver definito la scuola come «l’azione consapevole dell’educatore sugli educandi», teorizza, e cerca di mettere in pratica, una scuola che non cerchi di educare, ossia di obbligare ad apprendere ciò che desidera l’insegnante.
Al di là delle questioni terminologiche, la contraddizione, forse propria di tutto il movimento che faceva riferimento al Manifesto per la libertà dell’insegnamento riportato all’inizio, sta proprio nel tentativo di conciliare la libertà con la conservazione dei ruoli insegnante-alunno o, in altri termini, la liberazione sociale con la fondazione di scuole. Lo stesso Tolstoj si accorgerà di questa contraddizione, e in una corrispondenza del 1909 scriverà: «Dico innanzitutto che la distinzione tra l’educazione e l’istruzione, fatta nei miei articoli pedagogici, è artificiale. L’educazione e l’istruzione sono indivisibili. Non si può dare un’educazione senza trasmettere delle conoscenze e, d’altra parte, ogni conoscenza possiede un’influenza educativa». Detto in altre parole: nessuno è neutrale e imparziale, nemmeno la scienza, i musei, le biblioteche e gli insegnanti libertari. Tanto vale schierarsi, discutere le idee e le azioni di chi esprime ambizioni affini alle nostre e cercare insieme un percorso di liberazione, senza rinchiuderci in ruoli e categorie.
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Nota dell’Archivio
-Questa pubblicazione era stata curata da Ugo Zandrino con un saggio introduttivo per la Minerva Editrice nel 1970. Link per il download