(a cura di) Bettoli Gianluigi, La Guerra di Spagna attraverso gli articoli e le lettere degli antifascisti e dei garibaldini del Pordenonese

Edito a Pordenone, 2008, 146 p.

Introduzione di Gabriele Donato
È un orgoglio per me poter ricordare stamattina, grazie all’invito dell’Anpi di Sacile, la straordinaria decisione di decine e decine di friulani di partire, dopo il 1936, alla volta della Spagna per combattere il fascismo, che in quel paese si stava affermando grazie alla ribellione dell’esercito guidata da Francisco Franco. I friulani furono solo una piccola parte, ma estremamente significativa, delle decine di migliaia di volontari antifascisti che partirono da decine di paesi: solo gli italiani, nel complesso, furono circa 4 mila.
Un vero e proprio fiume di energie popolari confluite nella prima grande battaglia generale condotta, armi alla mano, in Europa contro il fascismo. L’intenzione era semplice: difendere il diritto dei popoli dello stato spagnolo a liberarsi dalle catene con le quali i latifondisti, la casta militare, la grande finanza e le gerarchie ecclesiastiche volevano continuare a tenerli intrappolati nella logica dello sfruttamento, “imprigionandone” la voglia di libertà. Si trattò di una straordinaria “migrazione”: un flusso di idealità e passioni, un’esplosione fragorosa di vero e proprio internazionalismo proletario; essa seppe travolgere le frontiere trasformando operai, contadini e intellettuali che parlavano linguaggi anche diversissimi in un’unica forza straordinaria. È possibile ricordare oggi l’impatto di quella forza ideale, l’eroismo di tanti volontari, evitando i riferimenti alle tante miserie dell’attualità in cui siamo immersi? Si tratterebbe di una reticenza ingiustificabile, e non pensiate che io mi riferisca esclusivamente all’esito delle recenti elezioni politiche, che hanno ricollocato al potere le forze di ispirazione conservatrice e reazionaria che allora non avrebbero esitato a schierarsi dalla parte del franchismo.
Penso anche ad altro: al rinnovato intensificarsi della campagna polemica contro i libri di storia scritti dagli “intellettuali di sinistra”, e anche ai fatti tragici che insanguinano le nostre città e che si legano al moltiplicarsi delle azioni squadristiche promosse dalle formazioni dell’estrema destra neofascista. Si tratta di due questioni completamente slegate l’una dall’altra? Per nulla, e lo dimostra proprio la vicenda drammatica di Verona: nella città in cui i neofascisti hanno assassinato un ragazzo, il sindaco leghista aveva proposto, circa un anno fa, che nel Consiglio direttivo dell’Istituto per la Storia del Movimento di Liberazione entrasse, a rappresentare il Comune, Andrea Miglioranzi, esponente di spicco dell’estrema destra cittadina, già condannato per reati connessi alla sua militanza neofascista.
I due ordini di problemi si legano, e il clima di intolleranza si alimenta anche della rozzezza revisionista con la quale si vorrebbe cancellare la memoria antifascista; d’altra parte, si farebbe fatica a capire, altrimenti, tutto l’accanimento con il quale l’antifascismo viene continuamente messo in discussione. Azzerare la memoria antifascista rimane, per le destre vecchie e nuove, una priorità, nella logica dell’azzeramento dei conflitti e del superamento delle diversità: nella logica dell’uniformizzazione passivizzante delle coscienze.
Questo è il motivo per cui spetta a noi il compito di riscoprire la funzione dei monumenti dedicati all’antifascismo: essi devono diventare i luoghi in cui rifiutare pubblicamente l’idea che la memoria collettiva possa risolversi in un generale patteggiamento in cui meriti e colpe, neutralizzandosi a vicenda, possano svanire. Con la stessa determinazione dobbiamo rifiutare l’idea di una storia ufficiale, imposta al paese dalla politica e dai partiti di governo: dobbiamo, invece, continuare a rivendicare con orgoglio la nostra memoria non pacificata, la nostra memoria indisponibile a scendere a patti con le ragioni di chi vuole cancellare le nostre ragioni.
Nessuna pacificazione, pertanto. Continuano ad esserci, oggi, motivi di conflitto che non possono essere occultati, così come esistevano settant’anni fa: allora da una parte c’era l’Italia di Mussolini, il quale mandò a supportare Franco 70 mila soldati, 800 aerei e 8 mila automezzi, solo per citare alcune cifre; dall’altra c’era l’Italia dei volontari antifascisti, perseguitati e costretti in maggioranza a vivere in esilio, l’Italia di Carlo Rosselli, di cui voglio citare alcune parole celeberrime:
«In tutti i reparti si trovano volontari italiani, uomini che, avendo perduta la libertà nella propria terra, cominciano col riconquistarla in Spagna, fucile alla mano. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Spagna. Oggi qui, domani in Italia».
La libertà in Italia era andata perduta quindici anni prima, e nel maggio del 1936 il regime mussoliniano poteva vantare il proprio massimo successo d’immagine: la proclamazione dell’Impero a seguito della vittoriosa campagna d’Africa. Per gli antifascisti tutto sembrava irrimediabilmente perduto, e gli anni che trascorsero dal 1934 al 1936 furono gli anni di maggior crisi per le organizzazioni intenzionate ad animare forme di opposizione clandestina al regime. Ma le difficoltà di quella crisi si tramutarono in voglia di rivincita, voglia che riprese rapidamente a diffondersi proprio con l’arrivo, in Italia, delle prime notizie riguardanti la lotta armata con quale la Spagna proletaria stava cercando di opporsi alla ribellione militare di Franco.
Furono le questure, in Italia, a registrare rapidamente la diffusione di umori nuovi presso gli ambienti popolari, tradizionalmente renitenti a farsi travolgere dalla retorica del fascismo; un agente della questura di Udine, per esempio, segnalò preoccupato ai suoi superiori un commento che aveva ascoltato presso un cantiere in cui era intervenuto per bloccare sul nascere una protesta contro le cattive condizioni di lavoro: “Lavoreremo sempre così finché non vengono i rossi dalla Spagna, e mi pare che stanno per arrivare”.
I sentimenti antifascisti facevano ancora fatica a tradursi in una lotta attiva e articolata, ma la fiducia che la lotta contro il fascismo potesse affermarsi altrove iniziava a generare speranze e aspettative; le autorità parlavano preoccupate di “una forma spicciola di propaganda sovversiva, estremamente pericolosa perché intesa a creare dubbi”. Le loro preoccupazioni crescenti alimentarono una ripresa dell’attività repressiva, direttamente proporzionale alla ripresa dell’attività che definivano come “sovversiva”: se, infatti, nel 1937 le condanne del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato erano state “solo” 172, nel 1938 furono 310, e nel 1939 365; l’opposizione al fascismo, anche grazie ai fatti di Spagna, aveva ripreso a farsi sentire.
La vittoria non arrivò, tuttavia, nemmeno dalla Spagna: fra il gennaio e il marzo del 1939 i franchisti entrarono a Barcellona e a Madrid, baluardi fino a quel momento delle forze repubblicane; venne scatenata una repressione feroce contro i combattenti antifranchisti, e il regime che si insediò potè pure contare sulla “benedizione” del papa di allora, Pio XII. La guerra civile spagnola, tuttavia, non fu solo il luogo di una sconfitta: fu un palestra straordinaria di combattimento, e gli antifascisti che vi si addestrarono sarebbero poi diventati la spina dorsale della Resistenza in Italia.
Ma chi erano quegli antifascisti? Erano azionisti, erano socialisti, erano anarchici, erano soprattutto comunisti: dovremmo forse essere imbarazzati per quest’ultimo fatto? Dovremmo parlare a voce bassa di quei combattenti a causa delle loro convinzioni politiche? Il revisionismo d’ispirazione conservatrice vorrebbe convincerci proprio di questo: vorrebbe persuaderci del fatto che l’antifascismo sarebbe stato allora irrimediabilmente inquinato dalla presenza ingombrante dei comunisti; anche contro questo tentativo abbiamo il dovere di reagire, in quanto l’intenzione che sta alla base di quest’operazione di rilettura della storia è chiara: se il comunismo viene considerato un male assoluto, coloro che l’hanno combattuto meritano di essere onorati alla stregua di combattenti per la libertà; in questo modo – è fin troppo evidente – si creano le condizioni per riabilitare non solo i franchisti, ma anche i repubblichini.
Stravolgere il passato, in altre parole, per rendere più digeribile un presente inquietante, in cui sta diventando possibile riempire di onori quanti si sono macchiati dei crimini peggiori in nome dell’anticomunismo; d’altra parte, da dove scaturiva la ferocia dei franchisti se non dall’anticomunismo più accanito? Si erano dati il compito di “fare pulizia”, limpieza, come dicevano: “Dobbiamo uccidere, uccidere e uccidere, così il Paese sarà ripulito e ci difenderemo dal proletariato”. Queste erano le loro “idealità”, condivise dai fascisti di tutta Europa e valorizzate dalle destre di oggi, ossessionate dall’idea di recuperare e glorificare il passato da cui provengono.
Noi abbiamo il compito di reagire: l’anticomunismo, che poi altro non è che astio nei confronti delle aspirazioni dei più deboli, ostilità nei confronti delle speranze degli oppressi, non deve essere accettato come il valore supremo da celebrare con nuovi libri di testo, con nuove date commemorative, con nuovi eroi nazionali. Tale virulenza serve a demolire la forza dei valori per cui i combattenti che oggi ricordiamo non hanno smesso d’impegnarsi, nemmeno di fronte al rischio più terribile, quello della morte. Ecco perché i “nostri” monumenti oggi sono più preziosi che mai: è di fronte ad essi che gli antifascisti devono rialzare la testa; è per questo che quelli che esistono già devono essere riscoperti, e altri devono essere costruiti, con il cuore pieno della passione che animò i combattenti di Spagna, e a cui uno di loro, Buenaventura Durruti, nel 1936 ha dato voce con queste straordinarie parole:
«Non dovete dimenticare che noi sappiamo anche costruire. Siamo noi che costruiamo questi palazzi e le città, qui in Spagna e in America e ovunque. Noi, i lavoratori, possiamo costruire altri edifici al posto di quelli distrutti, edifici anche migliori. Noi non siamo affatto spaventati dalle rovine. Noi stiamo per ereditare la terra. Non c’è il benché minimo dubbio su ciò. La borghesia può soffiare e distruggere il suo mondo prima di abbandonare le pagine della storia. Noi portiamo un mondo nuovo qui nel nostro cuore. Questo mondo sta crescendo anche in questo momento»

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