Edito da Il Saggiatore, Milano, 1976, 365 p, Seconda Edizione
Introduzione
« Voi siete delle misere figure, siete dei falliti, la vostra parte è finita; andate al posto che vi compete da oggi in poi: tra la spazzatura della storia. » L’apostrofe di Trockij contro gli oppositori menscevichi dell’ottobre 1917, è tipica di tutto un modo di considerare la storia, secondo cui soltanto le cause che trionfano dovrebbero interessare lo storico, mentre sarebbe giusto ignorare e irridere, o liquidare come miopi e reazionari, quei movimenti e quelli uomini che non contribuiscono al progresso dell’umanità. I marxisti non sono gli unici a pensarla cosi: lo stesso concetto è implicito nel giudizio di storici cristiani sul paganesimo, o di storici liberali sul conservatorismo. Ma le vere vittime degli storici per i quali non ha valore che il successo, sono i rivoluzionari falliti. Quando una rivoluzione trionfa, gli storici si affannano a ricostruirne le origini vicine e lontane, e a ripercorrerne gli sviluppi; cosicché l’intera successione di avvenimenti che l’ha preparata nel corso di molti decenni è molto spesso descritta come un processo inevitabile, e ogni idea, ogni episodio sono giudicati in base al contributo che hanno dato, o all’ostacolo che hanno opposto, all’esito finale. D’altra parte, le rivoluzioni mancate appaiono come vicoli ciechi, e gli uomini e le idee che le ispirarono non sono quasi mai studiati per il loro valore intrinseco. Di conseguenza, molti aspetti interessanti o curiosi vengono dimenticati o trascurati, e il campo visivo dello storico è deliberatamente rinchiuso in limiti angusti. Ma, se la missione dello storico, come dell’artista, è quella di allargare la nostra immagine del mondo, di aprirci una nuova prospettiva nel guardare le cose, può accadere che spesso lo studio della sconfitta sia altrettanto istruttivo e fecondo di quello della vittoria. Un tipo ricorrente di insuccesso, e le sue cause, possono allora far luce tanto sulla psicologia degli individui, quanto sulle strutture sociali.
Come ogni minoranza, gli anarchici hanno sofferto di questo culto del successo. Essi non hanno al loro attivo nessuna rivoluzione vittoriosa. Le loro teorie politiche sono piene di incoerenze, o di ipotesi sbagliate. La simpatia che un certo tipo di dottrina anarchica si era guadagnata è stata a volte distrutta dall’efferatezza o dal folle terrorismo di un’altra scuola pratica. Ciò non toglie che, negli ultimi cent’anni, le dottrine anarchiche e le loro realizzazioni pratiche abbiano sollevato diversi interrogativi sulla natura della nostra società industriale. Esse hanno rivolto al concetto moderno dello Stato un filo ininterrotto di critiche di fondo, e hanno contestato i concetti base di quasi tutte le scuole contemporanee di pensiero politico. Hanno attaccato, spesso in modo estremamente brutale, i valori e gli istituti della società e della morale stabilite. Tutto ciò si è risolto in gran parte in futili melodrammi, o in tragiche commedie. Ma le proteste di cui il movimento anarchico si è reso interprete esprimono un pur tuttavia ricorrente bisogno psicologico, che la sua débàcle come forza politica e sociale efficiente non annulla affatto.
L ’anarchismo è un prodotto dell’Ottocento. È , in parte, il riflesso dello scontro fra le macchine della rivoluzione industriale e una società artigiana o contadina. Ha tratto alimento dal mito della rivoluzione cosi come si era venuto formando dopo l ’89), mentre ciò che ha spinto gli anarchici a rimettere in discussione i mezzi e i fini degli stessi rivoluzionari è stata l ’incapacità delle evoluzioni politiche e delle riforme costituzionali a soddisfare i bisogni economici e sociali degli uomini. I valori che gli anarchici cercarono di demolire erano quelli di uno stato centralizzato sempre più potente – perché eretto sulla base di una crescente industrializzazione — che sembrava il modello al quale, a partire dal secolo XIX, tutte le società tendevano ad avvicinarsi. Era quindi inevitabile che gli anarchici si creassero sempre più dei nemici: ai latifondisti e ai preti dell’ancien regime finirono per aggiungersi i tiranni e i burocrati espressi da movimenti che pur miravano a costruire ima società nuova. Cosi gli anarchici si trovarono impegnati simultaneamente in una battaglia su almeno due fronti. Pur essendo un fenomeno dell’ultimo secolo e mezzo, il movimento anarchico rappresenta un tipo di rivolta che affonda le sue radici in epoche assai più remote.
Gli stessi anarchici sono fieri di questi precedenti storici, e molto spesso rivendicano come precursori uomini che si stupirebbero di trovarsi in loro compagnia. Zenone e gli stoici, le eresie gnostiche e gli anabattisti, sono stati tutti salutati come progenitori del moderno anarchismo. Ed è vero che, in un certo senso, questi moti di rivolta sociale e religiosa, o di distacco dalla realtà attuale, costituiscono uno dei grandi filoni sotterranei del suo pensiero e della sua azione. Gli anarchici uniscono una fede nella possibilità di un’improvvisa e violenta trasformazione delle strutture sociali, ad una fiducia nella ragionevolezza dell’uomo e nelle sue prospettive di miglioramento. Da un lato, sono gli eredi di tutti i movimenti religiosi a sfondo utopistico e millenaristico che credettero vicina la fine del mondo e attesero fiduciosi che « suonerà la tromba e in un batter d’occhio saremo rigenerati »; dall’altro, sono i figli dell’Età della ragione. (Metternich chiamava Proudhon un figlio illegittimo dell’Illuminismo.) Sono gli uomini che spingono all’estremo logico la fede nella ragione, nel progresso, o nella persuasione. La loro è insieme una credenza religiosa e una dottrina razionale; e molte delle sue anomalie sono il prodotto dell’urto fra quella e questa, e delle tensioni fra i tipi diversi, e a volte opposti, di temperamento, che esse rappresentano.
Note dell’Archivio
-Traduzione del libro “The Anarchists”, Little, Brown and Company, New York City, 1964
-La prima edizione in italiano è del 1970