Detour, “La canaglia a Genova”

Autoproduzione Il Sottovoce, 2006, 52 p., Seconda Edizione

E’ passato un anno dalle giornate del G8 e il cosiddetto movimento antiglobalizzazione si appresta a celebrare l’ennesima scadenza ricordando le giornate di un anno fa soltanto per la repressione poliziesca e per la morte di Carlo Giuliani. In pochi sembrano pensare – e nessuno osa dire – che se la polizia ha represso duramente, è stato soprattutto perché si era creata una situazione che le era sfuggita di mano, e che Carlo Giuliani è stato ucciso brutalmente – rispetto ai modi molto più raffinati con cui il dominio uccide e lobotomizza quotidianamente e tanto più tristemente milioni di suoi simili – perché quel giorno, assieme ad altre migliaia di persone, aveva avuto il coraggio di ribellarsi.
Il lamento e la celebrazione del lutto odierni sono gli strumenti per fare in modo che si continui a passare sotto silenzio quello che ha fatto e fa tuttora male a tutti, tanto ai fedeli servitori dell’ordine del mondo quanto ai suoi supposti contestatori. Prima del G8 era logico ritenere che nulla di interessante sarebbe potuto accadere: la logica dell’appuntamento e la costruzione di una trappola militare, nonché il monopolio mediatico delle lobbies sinistre (tute bianche, social forum, cattolici, ambientalisti e rifondati) nella gestione della “protesta” ufficiale e concordata facevano pensare che nessun contenuto interessante avrebbe potuto trovare sfogo a Genova. In questa situazione qualcosa è invece accaduto: l’organizzazione spettacolare dei professionisti della contestazione concordata è stata rifiutata da migliaia di persone che hanno deciso di fare a modo loro e di contestare realmente il potere che si manifestava attraverso l’organizzazione dello spazio urbano e la massiccia presenza poliziesca, attaccando direttamente entrambe. Se la lettura dei testi scelti e proposti restituisce in modo già esauriente (a partire dal testo di Montaldi sull’eredità genovese del ’60) lo scacco che è stato dato agli “opportunisti di sinistra” (magra consolazione, potrebbe dire più d’uno), ci sembra invece opportuno insistere subito sull’unico aspetto, finora totalmente ignorato, carico di potenzialità costruttive: migliaia di persone si sono impadronite di interi quartieri di Genova (Foce, Marassi, San fruttuoso e parti di Albaro e Castelletto), liberando le vie dal dominio capitalista.
Il dibattito post-G8 nell’ambiente “antagonista” si è esaurito nel difendere lo spirito anarchico del cosiddetto black bloc dalla ridicola accusa di essere un esercito di infiltrati e poliziotti e nel legittimare moralmente l’azione diretta. Questa doppia operazione difensiva non ha permesso di rilanciare i contenuti delle giornate genovesi oltre la denuncia della feroce repressione poliziesca. Detto quanto sia poco interessante filosofeggiare non solo sulla moralità dell’atto distruttivo (su cui poche persone di buon senso hanno da ridire), ma anche sulla stucchevole distinzione tra l’incendio di un auto proletaria o di una borghese o il saccheggio di un megastore invece che di una piccola bottega (e qui le remore aumentano da parte di chi non vede nel capitalismo un sistema di relazioni sociali concrete così oppressivo da meritare un attacco senza mediazioni) vale invece la pena sottolineare il pericolo strategico e politico di un nichilismo che non sa superarsi.
Gesto carico di significato e potenzialità quando compiuto da un casseur di periferia nel flusso della vita quotidiana come rifiuto per la vita di merda a cui è destinato, l’atto distruttivo diventa “spettacolo del rifiuto” – che già quarant’anni fa era stato identificato come una delle trappole più subdole tese dal recupero capitalista sulle forme di vita – quando viene proposto da un militante politico in occasione di un summit internazionale, circondato da telecamere e giornalisti. Se il progetto radicale è quello di ritagliarsi uno spazio all’interno degli appuntamenti fissati dal dominio e gestiti dai contestatori da esso addomesticati per praticare l’azione diretta contro i “simboli” del capitalismo, non resta che riconoscere lo scacco e andare altrove, ricordando come già negli anni Sessanta, nell’Amsterdam dei Provos, le agenzie di viaggio fossero arrivate al punto di organizzare finte guerriglie urbane a cui far partecipare i turisti, e sottolineando che le vere forme contemporanee di sovversione vanno cercate nelle insurrezioni popolari che hanno scosso l’Albania pochi anni fa, e che perdurano in Cabilia e, in parte, in Argentina.
Se Seattle aveva avuto un valore per il carattere di novità che la protesta sociale aveva avuto dopo decenni di apatia totale, tutte le tappe seguenti dell’antiglobal tour avevano costituito un rapido e progressivo scadimento nella rappresentazione spettacolare della protesta. Nonostante in molti abbiano voluto fare di Genova una tappa simile a quelle di Praga, Nizza e Goteborg, semplicemente aumentata nella quantità dei suoi effetti (maggior numero di manifestanti, di vetrine distrutte e di botte della polizia), essa è stata invece ben altro, un salto di qualità. L’azione diretta sfugge alla trappola dell’estetica del nichilismo e si trasforma in occasione di costruzione di situazioni di rivolta e di libertà reali quando scavalca il muro della militanza per aprirsi alla partecipazione gioiosa di altri manifestanti, di abitanti, di passanti e di curiosi nella costruzione di spazi e di momenti di vita collettivi. Questo è esattamente quanto è successo a Genova il venerdì 20 luglio (e non il giovedì né il sabato). I pochi black bloc che credono alla propria esistenza in quanto organizzazione e stabiliscono la relativa ortodossia militante si sono lamentati o se ne sono addirittura andati da Genova alla fine della giornata perché troppi cani sciolti non vestiti di nero hanno disertato la contestazione dei “simboli” del capitalismo. Questi perfetti progettisti di quel “rifiuto dello spettacolo” di cui lo spettacolo stesso fa richiesta non hanno capito che ciò che attrae le persone in una situazione di rivolta è una contestazione reale e immanente della vita quotidiana.
A Genova l’azione devastatrice non è mai stata fine a se stessa ma parte integrante di un movimento di appropriazione e godimento dello spazio urbano da parte di migliaia di persone in un clima tutt’altro che violento e parossistico (e chi non c’era lo può verificare da molti resoconti e filmati). In realtà, come è stato fatto notare da più parti, il black bloc non è una organizzazione ma una tattica di strada, ed in quanto tale ha avuto un ruolo decisivo durante il venerdì 20: scegliendo volontariamente di disertare la trappola mediatica della zona rossa e lo scontro diretto con la polizia, e inoltrandosi in quartieri popolari affollati non solo di manifestanti ma anche di curiosi, lo spezzone “nero” ha funzionato da detonatore per la liberazione di quegli spazi. Dalle 12 alle 19 di venerdì 20 luglio, ovvero dalle prime azioni all’incrocio tra Corso Torino e Corso Buenos Aires fino agli ultimi focolai di scontro in via Donghi, buona parte della Genova centro-orientale è stata in mano ai rivoltosi, che hanno costretto la polizia ad azioni di contenimento e hanno attaccato i dispositivi di oppressione della vita quotidiana. Nell’arco di quelle lunghissime sette ore del venerdì non solo gli spezzoni di corteo antagonisti – quello più corposo che da Piazza Paolo da Novi è arrivato a Manin, via carceri di Marassi, e quello più piccolo ed avventuroso che ha raggiunto Piazzale Kennedy per poi percorrere tutto il lungomare fino a Boccadasse e ricongiungersi, attraversando Albaro, alla coda del corteo delle tute bianche – ma migliaia di persone hanno attraversato un territorio improvvisamente trasfigurato, dove tutti i segnali che quotidianamente ci ricordano il nostro dovere di sottomissione non avevano più senso (insegne commerciali, carreggiate automobilistiche, segnali stradali, ecc.) e le strade, vissute normalmente come percorsi obbligati di una vita preconfezionata, sono divenuti lo spazio di possibili avventure, i luoghi dove si costruiva la storia individuale e collettiva di quei momenti. Da tempo una città dell’occidente capitalistico pacificato non veniva liberata per così grandi spazi e per così lungo tempo da una canaglia di facinorosi.
Nonostante sia ormai da cinquant’anni al fedele servizio del capitalismo, l’urbanistica – organizzazione degli spazi urbani come funzione dei bisogni dell’economia – viene costantemente sottovalutata e trascurata tra gli obiettivi del mondo da contestare. Ma chi pensa che la globalizzazione non sia solo un sistema che aumenta la disparità economica tra una parte del mondo ricca e felice ed un’altra povera e triste, bensì un altro nome per definire quel totalitarismo dell’Economia sull’uomo che rende insopportabile la vita quotidiana di tutti, anche e soprattutto di noi “ricchi”, dovrebbe ricordarsi di quanta frustrazione, alienazione e oppressione passino attraverso l’organizzazione capitalista dello spazio urbano. La sistematica distruzione di ogni possibilità di aggregazione sociale e di piacere reale (non quello alienato indotto dal consumo), financo quello di circolare liberamente per le vie, è la causa principale della rassegnazione e della tristezza di milioni di persone, nonché dell’incapacità di saper creare quotidianamente forme di pensiero politico e di azioni di conflitto contro il dominio. Quando l’orizzonte della nostra vita quotidiana è fisicamente rinchiuso in una gabbia senza uscite – una città dove si esce di casa e ci si sposta solo per lavorare e consumare – la trappola capitalista ha successo. Lì finisce ogni possibilità di riscatto rivoluzionario perché “tutte le chiacchiere sulle rivendicazioni parziali non bastano a cancellare un attimo di libertà vissuta”. Quello che spesso neanche la sinistra radicale capisce è appunto che qualsiasi pretesa rivoluzionaria – per quanto fine – non può prescindere dalla sperimentazione concreta della libertà e solo la dimensione intrinsecamente sociale della città, la condivisione dello spazio, può permettere di superare l’impasse della libertà individuale non condivisa, per rilanciarla su un piano politicamente sovversivo.
Per tutti questi motivi, venerdì 20 luglio è stato un giorno di rivolta. Aver condiviso con migliaia di persone l’esperienza fisica e mentale di una nuova dimensione dello spazio urbano; aver respirato, sia pure per poche ore, l’atmosfera di un potenziale mondo alla rovescia, le cui strade non sono più i binari che portano sempre negli stessi posti, ma i terreni di avventure e di sorprese: tutto ciò è benzina sul fuoco che brucia coloro che non si rassegnano alla sopravvivenza. L’aver esperito la libertà nelle strade diventa automaticamente la base di una rivendicazione politica senza compromessi: la rivoluzione della vita quotidiana. Per le persone che sentono queste cose, il venerdì di un anno fa a Genova rimane un dies signanda albo lapillo, non un lutto da celebrare, ma una festa da rinnovare. Soltanto un’inflazione di situazioni simili, e mai nessun tribunale, potrà rendere giustizia alla lotta e alla morte di Carlo Giuliani.
Luglio 2002

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