Edito da Altreconomia, 2011, 593 p.
Ravvivare la memoria con il racconto è la cosa più importante, attraverso la quale, come in un trattamento psicoanalitico, ogni cosa va al suo posto ed ogni cosa trova la sua logica spiegazione. Anche la bestialità. [Francesco Trapani, operatore sanitario presente a Genova] Anche stanotte ho sognato Genova. Ormai dovrei smetterla di ossessionarmi per quello che è successo, ma anche a distanza di anni da quel fatidico 20 luglio, quando la paura e il nonsenso mi hanno sorpreso per le strade di Genova, non posso smettere di pensarci. Mi sono scontrato con varie forme di violenza organizzata di cui avevo solamente intuito l’esistenza, e ancora oggi fatico molto per togliermi di dosso un terrore e una rabbia mai provati. Non riesco ancora a cacciare via dalla mia mente quei perchè che si sono impadroniti dei miei pensieri come parassiti, e ormai utilizzano il mio corpo come un semplice strumento per soddisfare la loro sete di risposte, spingendomi a setacciare edicole, librerie, siti internet e redazioni di riviste alla ricerca disperata di ogni singola riga scritta sui fatti di Genova, accatastando videocassette con un collezionismo maniacale che fa diventare inaccettabile la produzione di un libro su Genova senza la visione di ogni singolo metro di pellicola disponibile, sfogliando pagina dopo pagina tutti i documenti del Comitato parlamentare d’indagine, cercando incontri, colloqui e scambi di idee con altre persone, anche con gli amici che il destino ha portato ad indossare le divise della Polizia, dei Carabinieri o della Guardia di Finanza. Nei secoli passati gli alchimisti hanno dedicato intere vite alla ricerca della “pietra filosofale” capace di trasformare in oro i metalli volgari, con un atteggiamento ossessivo simile a quello con cui io, attraverso l’alchimia della scrittura, ho cercato il “libro perfetto”, talmente documentato da risultare incontestabile, capace di convincere allo stesso tempo il manifestante più radicale e il poliziotto più intransigente. In questa ricerca, ovviamente, il libro perfetto è rimasto solamente un desiderio, e quello che sono riuscito a produrre è un’inchiesta documentata e approfondita, ma inevitabilmente parziale, che racchiude solo in parte la complessità e le contraddizioni delle esperienze vissute da migliaia di persone a Genova, ognuno nella sua via e nella sua piazza, in divisa e non, con prospettive, storie ed emozioni diverse.
Un libro parziale ma non “di parte”: è quanto mi sono sforzato di realizzare ricostruendo e documentando i fatti, confrontandoli con tutte le fonti disponibili – i testimoni, le foto, i filmati, le deposizioni, gli atti del Comitato parlamentare d’indagine, le interviste e tutto quanto è stato prodotto su Genova – utilizzando il più possibile le parole degli stessi protagonisti, attraverso le loro dichiarazioni e testimonianze. Senza contare che, in quei giorni, a Genova c’ero anch’io per seguire i lavori e i fatti di cronaca con un gruppo di colleghi delle redazioni di “Altreconomia”, “Nigrizia”, “Redattore sociale” e altri ancora. Per giorni abbiamo lavorato insieme, collegati praticamente in tempo reale, e questo ci ha consentito di seguire e documentare gli stessi avvenimenti da più punti di osservazione. La struttura del libro comprende una parte iniziale che serve per inquadrare le iniziative di critica alla globalizzazione nella loro cornice storica e culturale, riportando l’attenzione sui contenuti delle iniziative di protesta anzichè sui disordini che le hanno accompagnate. Il cuore del testo è la cronaca, fatta giorno per giorno e piazza per piazza, di quei sette giorni che hanno segnato la vita di molti e la storia del Paese. A questo racconto cronologico fa seguito una raccolta di testimonianze e contributi che da diverse prospettive cercano di aggiungere il calore del racconto diretto alla semplice cronaca degli eventi. A differenza di molti altri testi realizzati sull’argomento, lo scopo che mi sono prefisso non è quello di denunciare o condannare, ma di capire che cosa e perchè è successo in quelle giornate di luglio. La parola scritta dovrebbe essere il regno della razionalità, dei pensieri meditati, masticati, criticati e verificati prima ancora di farli arrivare sul foglio, delle analisi fatte a mente fredda, dell’onestà, della lucidità, della calma. Raccontando Genova il condizionale è d’obbligo, perchè l’esperienza diretta vissuta per le strade di quella bellissima città devastata è stata talmente intensa da rendere praticamente impossibile una riflessione serena e distaccata per chi ha ancora negli occhi e nella mente l’impotenza, la rabbia, la violenza e la paura che hanno segnato per sempre chi si è trovato per strada durante gli scontri.
è per questo che non è facile parlare di Genova senza trasformarsi improvvisamente in un giustizialista accanito o in un integralista del garantismo, sposando una delle due tesi su cui si sono polarizzati i mezzi d’informazione e la maggior parte dell’opinione pubblica che, come ai tempi di Coppi e Bartali è chiamata a scegliere tra due squadre, con una fazione in cui le forze dell’ordine sono dipinte come un branco violento di fascisti e un opposto schieramento in cui i manifestanti sono descritti come dei veterocomunisti che invece di cambiare il mondo tirando sassi farebbero meglio a zappare la terra. Guardando due ragazzi, uno in canottiera l’altro in divisa, che impugnano un estintore e una pistola è difficile chiedere semplicemente giustizia e verità senza farsi trascinare nel tribunale della rabbia, dove alcuni applaudono per la condanna a morte di un giovane mentre altri (e tra questi mi pare significativo sottolineare che non c’è la famiglia Giuliani) maturano odio e voglia di vendetta verso colui che ha sparato. Chi ha subito senza colpa la violenza dei lacrimogeni e dei manganelli farà fatica a continuare a distinguere tra la Polizia e i singoli poliziotti, tra le istituzioni in quanto tali e le responsabilità personali di ciascuno degli agenti. Chi ha visto i gruppi di devastatori che in nome della lotta ai simboli del capitalismo hanno messo a repentaglio la sicurezza di centinaia di migliaia di persone sarà difficilmente indulgente con i leader di un movimento che non ha saputo abbracciare la nonviolenza con sufficiente coraggio e fermezza, abbandonandosi a “dichiarazioni di guerra” e a “rappresentazioni mediatiche” dello scontro ideologico.
È per questo che raccontare Genova invocando i miti giornalistici dell’obiettività e della separazione dei fatti dalle opinioni è un’impresa maledettamente difficile. Tuttavia, proprio perchè la capacità di analisi critica è ormai diventata un bene scarsissimo, è necessario aggrapparsi ad essa con tutte le energie che abbiamo a disposizione, per non ripetere gli errori del passato e impedire che tre giorni di violenza si trasformino nelle prove tecniche di una guerra civile. Le ferite fanno ancora troppo male, e non è facile parlare di Genova, ma è tremendamente necessario continuare a documentare fatti e circostanze per cercare la “verità”, pur nella consapevolezza di non poterla mai afferrare, camminando in bilico tra diversi estremismi e continuando ad affermare che le forze dell’ordine rappresentano una garanzia di sicurezza e tutela per i cittadini, che i movimenti di critica alla globalizzazione e i loro attivisti sono una risorsa sociale e culturale a disposizione di tutti, che il mondo della politica è ancora l’ambito privilegiato in cui costruire la società di domani. Proprio per la fiducia che va riposta verso chi combatte quotidianamente il crimine c’è bisogno di distinguere tra la Polizia e le azioni dei singoli poliziotti, tra le istituzioni in quanto tali e le scelte individuali, affermando il principio della responsabilità personale contro le generalizzazioni che esasperano il conflitto sociale e favoriscono l’impunità di chi ha effettivamente commesso degli abusi ed è agevolato sia dalle accuse generiche fatte senza nomi e cognomi, sia dalla reazione corporativa che ne è la logica conseguenza. è proprio il rispetto verso i tutori della legge che deve spingere le istituzioni, gli operatori dell’informazione e i singoli cittadini a denunciare con fermezza tutte quelle circostanze in cui le forze dell’ordine hanno abbandonato il loro ruolo di rappresentanti dello Stato, cedendo alla rabbia e scegliendo di agire in base alla legge del più forte imposta dai gruppi violenti, anzichè rispettare per primi e far rispettare agli altri le leggi della Repubblica. è proprio per salvare e valorizzare la bellezza e la ricchezza culturale di tantissimi movimenti e associazioni presenti nelle strade di Genova che bisogna essere pronti a criticare il “movimento”, quando punta tutte le sue energie solamente sull’ “invasione” della zona rossa senza raggiungere e invadere la coscienza di chi non ha ancora capito i perchè della protesta, quando la violenza delle allegorie utilizzate per impressionare i mezzi di informazione rischia di essere fraintesa evocando altre violenze molto più concrete.
È proprio il valore dell’impegno istituzionale che vanno criticate quelle forze politiche che cavalcano la contestazione e strumentalizzano la piazza, trasformando un insieme di persone variegato ed eterogeneo in un gruppo di delinquenti o in un gruppo di martiri a seconda dei propri interessi particolari e della propria convenienza, e utilizzando strumentalmente i manifestanti o i poliziotti come un potente ariete politico con cui sfondare il fronte opposto. In questo particolare contesto storico, con questo clima di forte conflitto sociale e con un altissimo livello di tensione nella società civile, mantenere un’equidistanza che non degeneri nel qualunquismo e nell’indifferenza è un’impresa non banale, soprattutto quando si cerca di produrre informazione senza blandire o esacerbare la rabbia. Per questo e per molti altri motivi non è affatto facile raccontare Genova, ma ciò nonostante penso che sia doveroso almeno provarci, con la consapevolezza che non possiamo più delegare la nostra conoscenza dei fatti al quotidiano “di fiducia” o al giornalista di riferimento, e che dobbiamo cercare in prima persona buone domande anzichè risposte troppo facili, domande che ci aiutino a capire una situazione molto complessa senza sovrastrutture ideologiche, verità preconfezionate o teoremi costruiti su misura di ciò che si vuol pensare. Camminando per le strade di Genova trasformate in zone di guerriglia urbana, tra posti di blocco, nuvole di lacrimogeni e macchine bruciate, per la prima volta in vita mia mi sono sentito braccato, totalmente insicuro, e molte certezze maturate fino a quel momento si sono sciolte come neve al sole. Il mio senso critico e la mia capacità di valutazione serena sono stati messi a dura prova dalla violenza (che ha colpito anche persone a me vicine) dalle decine di racconti delle persone coinvolte loro malgrado negli scontri di piazza, dall’ingresso nella scuola Pertini/Diaz dopo la “perquisizione” del sabato notte, dalle immagini agghiaccianti trasmesse dalla televisione e su internet.
Nei momenti di maggiore sconforto, quando lo sforzo di capire mi sommergeva sotto quintali di carta e le idee si accavallavano in testa rendendo possibile ogni ipotesi e il suo contrario, mi sono chiesto come sarebbe cambiata la mia vita se in quella settimana di luglio avessi preferito andare in vacanza. Ciò che mi ha guidato a Genova non è stata la voglia di manifestare, o la sensazione di trovarmi di fronte ad un appuntamento “storico”, ma semplicemente il “dovere di cronaca” che mi ha spinto a raccontare i contenuti seri della protesta, i momenti di gioia e di festa, i dibattiti, le riflessioni e le proposte espresse durante i “public forum”. Assieme agli altri giornalisti di “Altreconomia” e “Nigrizia” ho fatto parte di un gruppo che per sette giorni ha prodotto in rete informazioni e approfondimenti sulle questioni che hanno portato in piazza centinaia di migliaia di persone, nella consapevolezza che la forma della protesta avrebbe potuto oscurare la sua sostanza, e che un dibattito attorno ad un tavolo (noi ne abbiamo descritti e raccontati tanti) non avrebbe fatto gola ai mezzi d’informazione tradizionali, attirati solamente da quello che distrugge con rumore anzichè da ciò che si costruisce in silenzio. Questo libro è stato costruito aggiungendo alle esperienze del gruppo di “giornalisti di strada” di cui ho fatto parte e agli scritti prodotti direttamente a Genova tutti i documenti attendibili di cui sono entrato in possesso. Chi era presente si è sentito accecato dall’incapacità di capire, dalla rabbia o dallo sdegno, chi non c’era è stato condizionato dalla mancata conoscenza dei fatti o dal pregiudizio. Con i colleghi di “Altreconomia” e “Nigrizia” ho condiviso il bisogno di raccontare il più lucidamente possibile i fatti di Genova, con oggettività ma con passione giornalistica, conservando le sensazioni che abbiamo provato a Genova senza farci influenzare da esse.
Le fonti utilizzate, in ordine di priorità e di attendibilità, hanno come primo riferimento la mia esperienza diretta e quella degli altri colleghi presenti a Genova. La seconda fonte “qualificata” impiegata in questo tentativo di ricostruzione dei fatti è rappresentata dalle dichiarazioni contenute nei resoconti stenografici delle audizioni del ‘Comitato paritetico per l’indagine conoscitiva sui fatti accaduti in occasione del vertice G8 tenutosi a Genova” istituito dalle commissioni Affari Costituzionali di Camera e Senato il 3 agosto 2001, che nel corso del libro verrà indicato per brevità come “Comitato parlamentare d’indagine”. Un’altra fonte diretta è costituita dalle testimonianze raccolte da chi è stato direttamente coinvolto negli scontri. Ho scelto di non prendere in considerazione la grandissima quantità di testimonianze anonime pubblicate sui giornali, per concentrarmi su testimonianze più qualificate, o quantomeno attendibili con maggiore probabilità, rilasciate da persone che hanno reso noto il loro nome e cognome, tra cui molti giornalisti, gli operatori sanitari che hanno prestato servizio a Genova, qualche operatore di polizia, moltissimi manifestanti. Le uniche testimonianze riportate in forma anonima, solamente con le iniziali del nome e del cognome, sono state quelle che mi sono state inviate direttamente. Per questi racconti sono io stesso a garantire l’attendibilità delle fonti, dopo aver verificato personalmente, attraverso contatti diretti, l’identità e la credibilità delle persone che mi hanno affidato i loro racconti richiedendo però di apparire solamente con le loro iniziali. In questa categoria di documenti rientrano le testimonianze riportate in appendice, che a pochi giorni di distanza dai fatti di Genova mi sono state inviate in qualità di segretario dell’associazione pacifista PeaceLink, per la costruzione di una raccolta già consegnata ad Amnesty International. L’insieme di questi racconti contribuisce in modo attendibile alla comprensione della prospettiva dei manifestanti pacifici, persone molto diverse tra loro per la città di provenienza e il gruppo di appartenenza.
Il libro è dedicato a varie persone. Innanzitutto a Carlo Giuliani e alla sua famiglia, che in quei giorni hanno pagato il prezzo più alto di tutti. Un pensiero è rivolto anche a tutte le altre vittime della violenza che ha segnato le giornate di Genova e che continua a segnare la vita di molte persone che, soprattutto nel Sud del mondo, subiscono le conseguenze negative della globalizzazione. A questa lista aggiungo anche Luca C., che ho ritrovato a Genova ferito e traumatizzato a soli 17 anni, catapultato in una “giungla metropolitana” ben diversa dai boschi dove abbiamo giocato insieme quando era ancora un “lupetto” del mio gruppo scout. Scrivendo questo libro ho pensato molto anche a mamma Anna Maria e zia Elena, sperando di aiutarle a capire un po’ di più la storia del mio tempo e le esperienze dirette che ho vissuto a Genova.
— Carlo Gubitosa
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