Edito da Franco Di Sabantanonio, Roma, Dicembre 2009, 166 p.
Prefazione
L’episodio che abbiamo ricostruito in queste pagine è presente nella storia del nostro paese ed in particolare nella storia del movimento operaio italiano. I cronisti, a suo tempo, annotarono il caso e i primi scrittori di cose socialiste in Italia lo segnalarono per il suo valore di esperienza politica attraverso cui erano passati gli uomini, le idee, le formule del nascente movimento socialista. A ottanta anni di distanza noi lo ricordiamo per la simpatia umana che ispirano i suoi personaggi, per la suggestione d’avventura che è nei fatti, perché in esso si risolve tutta una fase storica della Prima Internazionale in Italia.
L’argomento ha anche fermato la nostra attenzione, perché ci è sembrato che a quanti hanno avuto occasione di occuparsene nella più recente produzione di studi storici sul movimento operaio italiano, abbia fatto difetto l’obiettività. Molti di questi studiosi sono stati traditi dalla generale e preconcetta avversione di tipo ideologico contro l’anarchismo in genere e il bakuninismo in specie, muovendosi sulla traccia di una polemica che vorrebbe riportare nella storiografìa i termini del contrasto fra Marx e Bakunin, il cui posto è ormai e soltanto nella storia.
La polemica ebbe l’avvio in uno scritto di Ercoli [Palmiro Togliatti] pubblicato sulla rivista Stato Operaio nel 1934, sotto il titolo Marxismo e bakunismo (Nel 70° anniversario della I Internazionale), in cui fra l’altro si legge: “In Italia il bakunismo (sic) aveva avuto occasione di dare solo qualche prova di sé, e la prova fu miserevole: disordinati, irresponsabili tentativi di rivolta di contadini e di braccianti, condannati a finire nel nulla, capaci soltanto di mostrare la vanità della tattica anarchica dei colpi di mano […]”
Sull’indicazione di Ercoli si muove tutto un gruppo di studiosi che in questo dopoguerra ha condotto una serie di nuove ricerche sulle origini del movimento operaio e socialista in Italia.
Le tesi dell’Ercoli sono immediatamente riecheggiate da Emilio Sereni che nei suoi saggi su Il capitalismo nelle campagne, pubblicati in volume nel 1948, dedica alcune pagine ai fatti del beneventano e tratta del bakuninismo in tutta una parte del suo saggio su La politica della Destra.
Purtroppo in questa analisi si intrecciano le più artificiose deduzioni di un marxismo schematico, per cui il bakuninismo è ora il prodotto dell’esasperazione contadina contro il capitalismo in espansione e contro la « conquista regia », ora il derivato dello stesso contraddittorio ed insufficiente sviluppo del capitalismo, ora il riflesso della crisi della vecchia nobiltà borbonica (il Sereni forza la sua tesi fino a ricercare vedantemente i motivi dell’adesione del Cafiero, del Covelli e del Merlino all’Internazionale nella appartenenza delle loro famiglie all’aristocrazia borbonica o comunque alla vecchia classe dirigente e nella loro condizione sociale di intellettuali declassés), ora infine il risultato della combinazione di tutti questi fattori. Ma poiché il riconoscere al bakuninismo una base sodale-popolare, sia pure contadina, sarebbe stata eccessiva, indulgenza, il Sereni soggiunge che «è proprio nel carattere elementare, ’spontaneo’, della ideologia e delle forme organizzative del bakuninismo che va ricercata una delle ragioni fondamentali della sua incapacità ad influenzare ed organizzare le masse contadine stesse, di cui pure era obiettivamente l’espressione ».
Ed infine, stante il fatto che questo preteso miscuglio di borbonismo in ritardo e di avventurismo piccolo-borghese è, bene o male, il terreno su cui il movimento operaio italiano affonda le proprie radici, il Sereni cerca di spiegare il fenomeno, qualificando « l’infantilismo anarchico » come « espressione del grado arretrato di sviluppo » di questo movimento. Che significa? Che il movimento operaio italiano degli anni settanta era « arretrato» in rapporto a quello dei decenni successivi? Né poteva essere altrimenti, ma resta il fatto che di quel movimento, arretrato e confuso, gli internazionalisti italiani furono l’avanguardia coraggiosa ed illuminata che apri ad esso la strada maestra del socialismo. Questo bisognava dire.
Altri studiosi, come il Manacorda e il Della Peruta, non riescono a sganciarsi da questa impostazione polemica. Il primo, nel suo volume Il movimento operaio italiano attraverso i suoi congressi edito nel 1953 vede nel moto di San Lupo soltanto « l’ottima giustificazione » che gli internazionalisti avrebbero offerto alla reazione per perseguitare anche quelle correnti socialiste che per principio erano contrarie alla tattica insurrezionale. Si tratta di un motivo recriminatorio che ricorre più o meno spiegabilmente sulla stampa socialdemocratica dell’epoca, ma che lo storico non può raccogliere cosi com’è. Il secondo, in un saggio pubblicato sulla rivista Movimento Operaio nel 1954 ed intitolato polemicamente La Banda del Matese e il fallimento della teoria anarchica della moderna ’Jacquerie’ in Italia si muove in due opposte direzioni: da una parte ravvisa il fallimento di una teoria dov’è solo l’insuccesso di una tattica ed identifica addirittura in questo insuccesso «la liquidazione dell’anarchismo», dall’altra illustra l’episodio con tanti nuovi elementi e cosi interessanti osservazioni, da rivalutarlo storicamente come un atto politico, trascendente i limiti di uno sterile gesto.
Un discorso a parte richiede il giudizio che dei fatti presenta Aldo Romano, nel 3° volume della sua Storia del movimento socialista in Italia, uscito nel 1956. Il Romano che si richiama anch’egli alle osservazioni dell’Ercoli, sviluppa in tutta la sua opera una violenta diatriba contro il bakuninismo, ma questa diatriba anziché rincrudire, si attenua proprio davanti ai fatti del Matese, cedendo il posto ad una valutazione pacatamente critica, che contrasta con il tono duramente requisitorio di molte altre pagine. Infatti il Romano rileva nell’impostazione politica dei moti del ’77 una «più sciolta e matura concezione del compito di un rivoluzionario», una « più approfondita coscienza della funzione iniziatrice della pattuolia di punta del movimento popolare» e conclude con questo riconoscimento reso agli uomini della spedizione, più innanzi definiti come il « fior fiore della classe operaia di quei tempi»:
“Precorrevano generosamente i tempi, si mettevano fuori della loro realtà storica, perché (come abbiamo detto in altro luogo) è impossibile realizzare la rivoluzione socialista ove manca l’alleanza tra gli operai e i contadini Ma ciò che redime, ai nostri occhi, la temeraria impresa e rende pienamente degno di rispetto lo sfortunato e generoso tentativo di questi uomini, è lo spirito che li aveva animati. Erano convinti che, perché le masse acquistassero coscienza politica e propria capacità rivoluzionaria, occorresse l’impulso degli iniziatori: e questo impulso essi avevano dato […]” (p. 295).
Su questo piano di rispetto morale si muovono due altri autori: Antonio Lucarelli nella biografia di Carlo Cafiero e Lilla Lipparini nella biografia di Andrea Costa.
Un cenno infine deve essere fatto della letteratura anarchica che dal Guillaume al Nettlau, dal Fabbri al Borghi10 ha diffusamente trattato dell’argomento, non riuscendo peraltro a superare alcuni limiti: un limite documentaristico nel Guillaume e nel Nettlau ed un livello illustrativo nel Fabbri e nel Borghi. Insomma in ogni caso è mancata la critica, quella critica che gli stessi protagonisti, come vedremo, seppero invece sviluppare stilla propria stessa esperienza. Per finire, dobbiamo risolvere una questione. Molto spesso si sente parlare dei fatti del ’77 (e dei fatti del ’74) come di « moti bakuniniani ». Bisogna chiarire che Bakunin non c’entra, né direttamente né indirettamente perché le tattiche dei colpi di mano son fuori del bakuninismo ed appartengono piuttosto al mazzinianesimo. Bakunin polemizzò contro queste tattiche « mazziniane » ed esortò sempre i propri seguaci alle generali azioni di massa, anziché alle piccole congiure e alle iniziative individuali e settarie.
Nella famosa sua lettera al Ceretti si legge:
” Ciò che può e deve salvare l’Italia dallo stato di avvilente e rovinosa prostrazione in cui presentemente si trova, ciò che voi dovete preparare ed organizzare non è, m i sembra, una ridicola sommossa di giovani eroici ma ciechi; è una grande rivoluzione popolare. Per questo non basta far prendere le armi a qualche centinaio di giovanotti, non basta neppure sollevare il proletariato delle città, bisogna che insorga la campagna, bisogna che insorgano anche i vostri venti milioni di contadini » Questo motivo ritorna molto spesso in altri scritti del Bakunin, che ci dispensiamo dal citare ulteriormente, sia come confutazione dei metodi conventicolari del Mazzini, sia come enunciazione dell’alleanza rivoluzionaria fra operai e contadini. ”
È chiarissimo comunque che la tattica dell’insurrezionismo sporadico non rientra nella concezione bakuniniana.
Con questo non diremo che nell’impresa del Matese, per alcuni aspetti secondari come il ruolo attribuito alle masse contadine meridionali e l’interpretazione sociale del brigantagqio, non sia presente l’influenza del Bakunin, ma sarebbe un errore annettere al bakuninismo accadimenti che gli sono estranei e che vanno piuttosto imputati alla tradizione propriamente italiana delle imprese risorgimentali (Mazzini, Garibaldi, Pisacane). Si obietterà che Bakunin partecipò di persona ai moti del ’74. Ma qnella partecipazione fu troppo lo sbocco di un dramma personale che il Bakunin cercò di risolvere nel fuoco di un’ultima disperata battaglia, per poterla assumere come atto di responsabile ed impegnata adesione politica all’iniziativa.
Link Download: https://mega.nz/file/KcAlyICL#BM7BVZIL6R7lccVhoWPGyfIxP7Lv_mwey68cZRvQhi4
Note dell’Archivio
-Come riportato da questa nuova edizione, il libro di Pier Carlo Masini venne stampato la prima volta dalle Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1958.