Masini Pier Carlo, “Gli Internazionalisti. La Banda del Matese 1876-1878”

Edito da Franco Di Sabantanonio, Roma, Dicembre 2009, 166 p.

Prefazione
L’episodio che abbiamo ricostruito in queste pagine è presente nella storia del nostro paese ed in particolare nella storia del movimento operaio italiano. I cronisti, a suo tempo, annotarono il ca­so e i primi scrittori di cose socialiste in Italia lo segnalarono per il suo valore di esperienza po­litica attraverso cui erano passati gli uomini, le idee, le formule del nascente movimento socialista. A ottanta anni di distanza noi lo ricordiamo per la simpatia umana che ispirano i suoi perso­naggi, per la suggestione d’avventura che è nei fat­ti, perché in esso si risolve tutta una fase storica della Prima Internazionale in Italia.
L’argomento ha anche fermato la nostra atten­zione, perché ci è sembrato che a quanti hanno avuto occasione di occuparsene nella più recente produzione di studi storici sul movimento operaio italiano, abbia fatto difetto l’obiettività. Molti di questi studiosi sono stati traditi dalla generale e preconcetta avversione di tipo ideologico contro l’anarchismo in genere e il bakuninismo in specie, muovendosi sulla traccia di una polemica che vor­rebbe riportare nella storiografìa i termini del con­trasto fra Marx e Bakunin, il cui posto è ormai e soltanto nella storia.
La polemica ebbe l’avvio in uno scritto di Er­coli [Palmiro Togliatti] pubblicato sulla rivista Stato Operaio nel 1934, sotto il titolo Marxismo e bakunismo (Nel 70° anniversario della I Interna­zionale), in cui fra l’altro si legge: “In Italia il bakunismo (sic) aveva avuto occasione di dare solo qualche prova di sé, e la prova fu miserevole: di­sordinati, irresponsabili tentativi di rivolta di contadini e di braccianti, condannati a finire nel nulla, capaci soltanto di mostrare la vanità della tattica anarchica dei colpi di mano […]”
Sull’indicazione di Ercoli si muove tutto un gruppo di studiosi che in questo dopoguerra ha condotto una serie di nuove ricerche sulle origini del movimento operaio e socialista in Italia.
Le tesi dell’Ercoli sono immediatamente rie­cheggiate da Emilio Sereni che nei suoi saggi su Il capitalismo nelle campagne, pubblicati in vo­lume nel 1948, dedica alcune pagine ai fatti del beneventano e tratta del bakuninismo in tutta una parte del suo saggio su La politica della Destra.
Purtroppo in questa analisi si intrecciano le più artificiose deduzioni di un marxismo schema­tico, per cui il bakuninismo è ora il prodotto dell’e­sasperazione contadina contro il capitalismo in espansione e contro la « conquista regia », ora il de­rivato dello stesso contraddittorio ed insufficiente sviluppo del capitalismo, ora il riflesso della crisi della vecchia nobiltà borbonica (il Sereni forza la sua tesi fino a ricercare vedantemente i motivi dell’adesione del Cafiero, del Covelli e del Merli­no all’Internazionale nella appartenenza delle lo­ro famiglie all’aristocrazia borbonica o comunque alla vecchia classe dirigente e nella loro condizio­ne sociale di intellettuali declassés), ora infine il risultato della combinazione di tutti questi fatto­ri. Ma poiché il riconoscere al bakuninismo una ba­se sodale-popolare, sia pure contadina, sarebbe stata eccessiva, indulgenza, il Sereni soggiunge che «è proprio nel carattere elementare, ’spontaneo’, della ideologia e delle forme organizzative del bakuninismo che va ricercata una delle ragioni fondamentali della sua incapacità ad influenzare ed or­ganizzare le masse contadine stesse, di cui pure era obiettivamente l’espressione ».
Ed infine, stan­te il fatto che questo preteso miscuglio di borbonismo in ritardo e di avventurismo piccolo-borghe­se è, bene o male, il terreno su cui il movimento operaio italiano affonda le proprie radici, il Sere­ni cerca di spiegare il fenomeno, qualificando « l’in­fantilismo anarchico » come « espressione del gra­do arretrato di sviluppo » di questo movimento. Che significa? Che il movimento operaio italiano degli anni settanta era « arretrato» in rapporto a quello dei decenni successivi? Né poteva essere al­trimenti, ma resta il fatto che di quel movimento, arretrato e confuso, gli internazionalisti italiani furono l’avanguardia coraggiosa ed illuminata che apri ad esso la strada maestra del socialismo. Que­sto bisognava dire.
Altri studiosi, come il Manacorda e il Della Peruta, non riescono a sganciarsi da questa im­postazione polemica. Il primo, nel suo volume Il movimento operaio italiano attraverso i suoi con­gressi edito nel 1953 vede nel moto di San Lupo soltanto « l’ottima giustificazione » che gli inter­nazionalisti avrebbero offerto alla reazione per per­seguitare anche quelle correnti socialiste che per principio erano contrarie alla tattica insurrezio­nale. Si tratta di un motivo recriminatorio che ri­corre più o meno spiegabilmente sulla stampa so­cialdemocratica dell’epoca, ma che lo storico non può raccogliere cosi com’è. Il secondo, in un sag­gio pubblicato sulla rivista Movimento Operaio nel 1954 ed intitolato polemicamente La Banda del Matese e il fallimento della teoria anarchica della moderna ’Jacquerie’ in Italia si muove in due opposte direzioni: da una parte ravvisa il fal­limento di una teoria dov’è solo l’insuccesso di una tattica ed identifica addirittura in questo insuc­cesso «la liquidazione dell’anarchismo», dall’altra illustra l’episodio con tanti nuovi elementi e cosi interessanti osservazioni, da rivalutarlo storica­mente come un atto politico, trascendente i limi­ti di uno sterile gesto.
Un discorso a parte richiede il giudizio che dei fatti presenta Aldo Romano, nel 3° volume del­la sua Storia del movimento socialista in Italia, uscito nel 1956. Il Romano che si richiama an­ch’egli alle osservazioni dell’Ercoli, sviluppa in tutta la sua opera una violenta diatriba contro il bakuninismo, ma questa diatriba anziché rincrudi­re, si attenua proprio davanti ai fatti del Matese, cedendo il posto ad una valutazione pacatamente critica, che contrasta con il tono duramente re­quisitorio di molte altre pagine. Infatti il Romano rileva nell’impostazione politica dei moti del ’77 una «più sciolta e matura concezione del compito di un rivoluzionario», una « più approfondita co­scienza della funzione iniziatrice della pattuolia di punta del movimento popolare» e conclude con questo riconoscimento reso agli uomini della spe­dizione, più innanzi definiti come il « fior fiore del­la classe operaia di quei tempi»:
“Precorrevano generosamente i tempi, si mettevano fuori della loro realtà storica, perché (come abbiamo detto in altro luogo) è impossibile realizzare la rivoluzione socia­lista ove manca l’alleanza tra gli operai e i contadini Ma ciò che redime, ai nostri occhi, la temeraria impresa e rende pienamente degno di rispetto lo sfortunato e gene­roso tentativo di questi uomini, è lo spirito che li aveva animati. Erano convinti che, perché le masse acquistassero coscienza politica e propria capacità rivoluzionaria, occor­resse l’impulso degli iniziatori: e questo impulso essi ave­vano dato […]” (p. 295).
Su questo piano di rispetto morale si muovo­no due altri autori: Antonio Lucarelli nella biografia di Carlo Cafiero e Lilla Lipparini nella bio­grafia di Andrea Costa.
Un cenno infine deve essere fatto della lette­ratura anarchica che dal Guillaume al Nettlau, dal Fabbri al Borghi10 ha diffusamente trattato dell’argomento, non riuscendo peraltro a superare alcuni limiti: un limite documentaristico nel Guil­laume e nel Nettlau ed un livello illustrativo nel Fabbri e nel Borghi. Insomma in ogni caso è man­cata la critica, quella critica che gli stessi prota­gonisti, come vedremo, seppero invece sviluppare stilla propria stessa esperienza. Per finire, dobbiamo risolvere una questione. Molto spesso si sente parlare dei fatti del ’77 (e dei fatti del ’74) come di « moti bakuniniani ». Bisogna chiarire che Bakunin non c’entra, né direttamente né indirettamente perché le tattiche dei colpi di mano son fuori del bakuninismo ed appar­tengono piuttosto al mazzinianesimo. Bakunin po­lemizzò contro queste tattiche « mazziniane » ed esortò sempre i propri seguaci alle generali azioni di massa, anziché alle piccole congiure e alle ini­ziative individuali e settarie.
Nella famosa sua lettera al Ceretti si legge:
” Ciò che può e deve salvare l’Italia dallo stato di avvi­lente e rovinosa prostrazione in cui presentemente si trova, ciò che voi dovete preparare ed organizzare non è, m i sembra, una ridicola sommossa di giovani eroici ma ciechi; è una grande rivoluzione popolare. Per questo non basta far prendere le armi a qualche centinaio di giovanotti, non ba­sta neppure sollevare il proletariato delle città, bisogna che insorga la campagna, bisogna che insorgano anche i vostri venti milioni di contadini » Questo motivo ritorna molto spesso in altri scritti del Bakunin, che ci dispensiamo dal citare ulteriormente, sia come confutazione dei metodi conventicolari del Mazzini, sia come enunciazione dell’alleanza rivoluzionaria fra operai e contadini. ”
È chiarissimo comunque che la tattica dell’insurrezionismo sporadico non rientra nella concezione bakuniniana.
Con questo non diremo che nell’impresa del Matese, per alcuni aspetti secondari come il ruolo attribuito alle masse contadine meridionali e l’in­terpretazione sociale del brigantagqio, non sia pre­sente l’influenza del Bakunin, ma sarebbe un er­rore annettere al bakuninismo accadimenti che gli sono estranei e che vanno piuttosto imputati alla tradizione propriamente italiana delle imprese ri­sorgimentali (Mazzini, Garibaldi, Pisacane). Si obietterà che Bakunin partecipò di perso­na ai moti del ’74. Ma qnella partecipazione fu troppo lo sbocco di un dramma personale che il Bakunin cercò di risolvere nel fuoco di un’ultima disperata battaglia, per poterla assumere come at­to di responsabile ed impegnata adesione politica all’iniziativa.

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Note dell’Archivio
-Come riportato da questa nuova edizione, il libro di Pier Carlo Masini venne stampato la prima volta dalle Edizioni Avanti!, Milano-Roma, 1958.

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