Edito da La Fiaccola, Ragusa, 2007, 171 p.
Premessa
«Se il militarismo rappresenta il primato delle armi sulle ragioni di una politica civile, se il militare imprime un controllo “armato” della società e del suo sviluppo, se il militare ha una forza di espansione intimamente correlata a legami solidali tra medesime professioni oltre i limiti dei confini statali, se il militare condensa, in ultima analisi, l’estremizzazione di una arrogante volontà di potenza, che oltrepassa il ruolo specifico e strutturato delle forze armate all’interno di un ordinamento politico per configurarsi come “guerriero” che informa di sé totalmente gli ambiti della società, l’antimilitarismo anarchico è il puntuale contrappeso critico di ciascun vettore del primato militare».
Ritornare sulle ragioni dell’antimilitarismo anarchico e libertario non è mai un’operazione superflua: cambiano i contesti, i ruoli, le funzioni dei soggetti di controllo, di repressione e belligeranti, ma la profondità con cui l’antimilitarismo anarchico individua le ragioni prime del bellicismo non mutano. Al centro, comunque, c’è l’essere umano nella sua pienezza e le sue ragioni dell’agire politico e sociale: ogni volta che parliamo di eserciti e di guerre in realtà stiamo parlando di noi.
La guerra, forse per qualcuno, è più semplice da denunciare: la sua evidenza distruttiva, anche se sempre più celata sotto vuote immagini di bombardamenti “chirurgici”, lontani dagli occhi e lontani dal cuore, è palese, chiara, esperibile. Prima o dopo le immagini arrivano, prima o dopo qualcuno la può provare, altri ancora, in tempi passati, l’hanno saggiata (i campi di concentramento, la seconda guerra mondiale, il Vietnam, l’Afghanistan…). Ben più difficile è invece andare a trovare i perché: per molti, che lo ammettano o meno, è la natura prima ed ultima ad essere “corrotta” e la deterrenza militare non è altro che una misura spiacevole, ma necessaria, per garantire una coesistenza pacificata delle nostre società, al proprio interno, e delle società, organizzate in Stati, tra loro. Per questo tribunali, carceri, polizie, codici repressivi… trovano una loro giustificazione naturale così come all’esterno la produzione di morte, di armi, gli eserciti e da ultimo le guerre trovano ragione d’essere sulla base delle stesse logiche di caratteristiche innate.
Allo stesso modo la libera concorrenza, ovvero il Mercato viene considerata dai più come condizione umana ancestrale e quindi immodificabile, tale da renderla consustanziale agli stessi diritti umani, essi stessi ascrivibili, infatti, non a dinamiche sociali e politiche, ma a ragioni “ontologiche”: per i più il Capitalismo è naturale come il mangiare, il bere e la stessa riproduzione.
Anche noi partiamo dalla varia umanità e senza farci illusioni alcune, pensiamo che ogni dinamica relazionale, anche quelle economiche siano, di fatto, modificabili, addirittura capovolgibili. Fondamentalmente è una questione di scelta. Niente dimostra che una società totalmente smilitarizzata e comunistica non possa funzionare meglio di quella in cui stiamo vivendo. Questo non significa che una società altra sia una società immobile ed a-conflittuale: tutt’altro. Niente di più lontano da un determinismo pseudo-marxista o da un totalitarismo sovietizzante.
Società smilitarizzata, quindi ha per noi l’accezione della scomparsa dei confini, tutti i confini, le carceri, i tribunali, le polizie, ma anche di ogni forma di dominio e di discriminazione. Società comunistica, ovvero una società che nel momento in cui socializza i mezzi di produzione, li mette contemporaneamente in critica radicale. Mette in critica radicale la produzione sia nella sua tipologia che nella sua forma che nelle sue quantità, mette in critica radicale il lavoro in ognuna delle sue forme di espressione (tempi, luoghi, subordinazione, mansioni…), annulla ogni forma di concorrenza e di monetarizzazione delle attività umane..
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