Monteverdi Anna Maria, “Frankenstein del Living Theatre”

Edito da BFS, Pisa, 2002, 168 p.

Recensione di Oliviero Ponte di Pino
Alla fine degli anni Cinquanta, il Living Theatre di Julian Beck e Judith Malina inventa a New York il nuovo teatro e una nuova cultura. Nel 1968 il gruppo americano è esule in Francia con Paradise Now, uno spettacolo che non si limita a raccontare la rivoluzione ma cerca di provocarla – prima di tutto nei corpi degli attori e degli spettatori. Nel luglio del 2001 è a Genova, con il suo ultimo lavoro, Resistence, sempre fedele a un anarchismo militante e non violento, e alla necessità di un teatro politico.
Frankenstein, messinscena dello scontro tra il bene e il male, riflessione sulla violenza nella società, ideato e rappresentato poco dopo la metà degli anni Sessanta, resta il lavoro per certi aspetti più complesso e problematico del gruppo americano. Nell’offrire una personale versione di questo mito contemporaneo, ricchissimo di suggestioni e oggetto di infinite rivisitazioni soprattutto cinematografiche, il Living affronta i propri stessi fantasmi. Ricordando quell’esperienza, Judith Malina cita una vecchio detto: “Abbiamo conosciuto il nemico, e noi siamo lui”. Perché la Creatura è il mostro-robot figlio della violenza, ma al tempo stesso l’uomo nuovo, figlio della Rivoluzione (o delle buone intenzioni dello scienziato). Da questo punto di vista, l’ambiguo mito inventato da Mary Shelley non ha perso nulla della sua attualità. Lo sottolinea, nell’intervista che chiude il volume di Anna Maria Monteverdi dedicato allo spettacolo, la stessa Judith Malina: “Oggi il nemico sono le multinazionali e noi usiamo i loro prodotti, siamo coinvolti, siamo una parte del meccanismo, e anche quando protestiamo, protestiamo dentro la trappola del nemico”.
Anna Maria Monteverdi esplora e cerca di ricostruire nelle sue diverse stratificazioni (copioni, testimonianze, tracce video, interviste…) dunque un lavoro che coltiva e nutre le proprie ambiguità, e dunque si rivela assai complesso da studiare e ricostruire. Perché il Frankenstein non è mai stato la messinscena di un testo preesistente, ma un continuo processo. Non ebbe mai una forma stabile, ma una serie di versioni successive, sempre diverse: agli antipodi del teatro borghese (quello della finzione, del testo codificato), Frankenstein è una creazione collettiva costruita per azioni sceniche, centrate sul rapporto con il pubblico. Opera aperta, dunque, anche nel rapporto con lo spettatore e con lo spazio, secondo una teorizzazione allora in gran voga, ma al tempo stesso recupero della tradizione teatrale, quando le compagnie e gli autori adattavano il testo a seconda delle circostanze e delle reazioni del pubblico, consapevoli di creare a ogni rappresentazione un evento diverso e unico.
Quello che Anna Maria Monteverdi insegue e cerca di fissare nella pagina in quello che vuol essere un libro-film (e non un libro fotografia) è perciò un esempio di teatro vivente, di “living theatre”. E che in queste pagine resta sempre vivo: non tanto come freddo oggetto di studio, ma cercando di tenere vive le provocazioni di quello spettacolo. Da un lato ci interroga sul senso e sulla necessità del teatro – un teatro dove sia l’attore sia lo spettatore rischiano il loro corpo. Dall’altro ricordandoci che i temi intorno a cui ruotano le diverse versioni del Frankenstein sono gli stessi intorno a cui ancora oggi continuiamo a interrogarci.

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