a cura di Venturini Ernesto, “Il giardino dei gelsi. Dieci anni di antipsichiatria italiana”

Edito da Einaudi, Torino, 1979, XIII+304 p.

Prefazione di Franco Basaglia
Al momento della pubblicazione del materiale raccolto in questo libro ci siamo interrogati sulla sua attualità. Es­ so si riferisce, infatti, a un periodo ben preciso – tra gli anni 1977 e 1978 – durante i quali i temi ricorrenti nei di­ battiti degli operatori psichiatrici, qui intervistati, riguar­davano sia il tipo di organizzazione dei servizi, incentrata prevalentemente nell’ospedale о sul territorio, sia il peso teorico-pratico delle esperienze esemplari per l’afferma­zione di un modello generalizzabile di «nuova» psichia­tria. Oggi, dopo l’entrata in vigore della legge 180 sull’as­sistenza psichiatrica e dopo l’istituzione del Servizio Sani­tario Nazionale, la situazione della psichiatria in Italia e le sue problematiche sembrano radicalmente mutate. È na­turale domandarsi allora se il libro mantenga, accanto a un valore di documentazione, anche una qualche validità in riferimento alla mutata situazione. Per rispondere a questa domanda sembra opportuno fare alcune conside­razioni. A più di un anno dall’entrata in vigore della legge, il numero degli internati negli ospedali psichiatrici si è note­volmente ridotto, i trattamenti sanitari obbligatori sono molto contenuti e tuttora persiste un certo dibattito sulla qualità e le caratteristiche delle nuove strutture interme­die di assistenza e di degenza ospedaliera che, tuttavia, continuano a mancare. Pur tra molte critiche e con una strumentale enfatizzazione dei pericoli che questa legge comporta, si sta quindi assistendo ai primi passi della dif­fusione di un modo di fare psichiatria che differisce dal recente passato e che va al di là della esemplarità di poche esperienze: anche se non si sa ancora – ed è troppo presto per saperlo – in che cosa consista questo mutamento «ob­bligato». Basta comunque rileggere la legge sull’assistenza psi­chiatrica per convincersi che ciò che passa, agli occhi di molti, come un’avventura rischiosa e piena di minacce, è soltanto l’inserimento nella normativa sanitaria di un ele­mento civile e costituzionale che sarebbe dovuto esservi implicito e non lo era: il riconoscimento dei diritti del­ l’uomo, sano e malato. La novità della legge si incentra, infatti, soprattutto sulla scomparsa del concetto giuridico di «pericolosità» del malato mentale, da cui si deduceva la necessità di custodirlo e quindi di violentarlo e repri­merlo; sull’opposizione — che da questa scomparsa deri­va – alla creazione di nuove strutture segreganti; sul capo­volgimento dell’ottica tradizionale della psichiatria che si trova per la prima volta in condizione di affrontare colui che soffre di disturbi psichici, senza lo schermo della pe­ricolosità e della custodia. In caso di ricovero ospedaliero, infatti, la discriminante circa la qualità dell’intervento non risulta più il « malato » in base alla gravità e alla peri­colosità della sua «malattia», ma l’organizzazione sociale in base alla sua capacità о meno di rispondere ai bisogni e ai diritti del cittadino, nella salute e nella malattia. Ma se, da un lato, la nuova legge è facilmente attaccata dalla parte più retriva del paese come rischiosa e poco ga­rante della tutela del sano e del malato, essa è contempo­raneamente bersaglio dei troppo facili attacchi di chi ritie­ne questi cambiamenti e le premesse a questi cambiamenti soltanto interventi normativi e razionalizzanti, volti a raf­forzare le stesse istituzioni che tendono a negare. Ma se essi si iscrivono nella tensione teorico-pratica che ha sti­molato, negli ultimi anni, significative lotte contro i meccanismi di oppressione ed emarginazione, questi cambia­ menti non possono non riproporre, spostandoli in avanti, i contenuti di queste lotte. Mettere in crisi, come nella pratica sta avvenendo, un servizio rigidamente custodialistico come quello psichiatrico, vuole dire infatti mettere in crisi una tra le più significative valvole di sicurezza di questa organizzazione sociale, perché significa rompere la certezza della netta separazione qualitativa fra salute e malattia, fra norma e abnorme, su cui essa fonda il proprio ordine. Se crisi c’è stata, questa è stata provocata dal­ la volontà chiaramente espressa di «negare» le istituzioni della repressione e della violenza e non di rifondarle: è il manicomio praticamente negato, distrutto, smontato, sconvolto nella rigidità delle sue certezze scientifiche e delle sue regole punitive, che ha prodotto una frattura al­ l’interno della logica che lo informa, senza le ambiguità di un riciclaggio di modelli culturali capaci di colmare i vuo­ti creati da questa crisi. È dunque la rottura pratica della logica dell’emargina­zione di classe implicita nell’esistenza stessa del manico­ mio, che ha portato in Italia a una legge che proibisce la costruzione di nuovi ospedali psichiatrici e prevede la graduale eliminazione di quelli attualmente in uso: rottura pratica che impedisce di rinchiudere con una nuova teoria interpretativa о con una nuova ideologia la crisi aperta, lasciando inalterata la realtà diversamente interpretata. Si tratta di un’operazione inversa a quella già attuata in altri paesi, dove il problema è stato apparentemente affrontato dilatando sul territorio i servizi di controllo della devian­za, senza intaccare la logica e la realtà manicomiali: il per­manere dell’emarginazione sociale, mistificata sotto l’alibi della malattia e della cura, non può che riprodurre la con­ ferma della medesima logica sul territorio e nei nuovi ser­vizi e, di rimando, il contemporaneo rafforzamento, conse­guente a questa conferma, del manicomio e della sua logi­ca. Ciò che ha prodotto la nuova legge sull’assistenza psi­chiatrica è la lotta per la rivendicazione dell’esistenza di una soggettività, presente in un terreno scientifico rigo­rosamente positivista, per svelare che l’esistente non è «natura» immodificabile, ma che è ciò che di esso si può fare che deve essere la realtà e il progetto della nostra vi­ta; cosi come l’esistente è stato precedentemente «pro­ dotto». Anche se frutto di una lotta, una legge può essere solo il risultato della razionalizzazione di una rivolta, ma può anche riuscire a diffondere il messaggio di una pratica ren­dendolo patrimonio collettivo. Anche se frutto di una lot­ta, una legge può provocare un appiattimento del livello raggiunto dalle esperienze esemplari, ma può anche dif­fondere e omogeneizzare un discorso creando le basi co­muni per un’azione successiva. Perché questa legge con­ sente ciò che più volte era stato auspicato: la possibilità di trasferire i contenuti di una lotta dalle mani di pochi in quelle di un numero di persone sempre maggiore, anche se questo comporta il lento abbandono delle esperienze esemplari, come punto di riferimento pratico. In questo senso essa ha teso a modificare, о almeno a sminuire l’eroismo, il romanticismo, forse la retorica di cui – nel nostro giacobinismo — eravamo e siamo tutti un po’ malati e ci ha costretti a confrontarci in modo più pun­tuale con quanto è stato fatto in questi anni, frutto anche del nostro «furore» pratico contro l’istituzione. Questa legge ha dunque in qualche modo violentato lo stesso ope­ratore psichiatrico alternativo, cambiandone la coscienza verso se stesso e verso il suo lavoro. Ed ora è come se si rendesse manifesta la perdita della «fede» che ci ha sor­ retto in questi anni, fino all’avvento della nuova legge, senza che si siano ancora definiti i caratteri della nuova emergente laicità. Noi tutti dunque – e il libro sembra preannunciarlo in quell’atmosfera di ricerca e di attesa di qualcosa, che ca­ratterizza ogni singolo intervento – ci troviamo oggi, a partire dalla legge, tra cose finite e altre non ancora defi­nite. Le persone intervistate in questo libro intravedono questa situazione ed esprimono la preoccupazione di col­ mare questo vuoto, che è vuoto di identità e carenza di una dimensione storica nel nostro operare. La psichiatria tradizionale offriva, infatti, all’operatore un’identità precisa solo di garante del controllo sociale; così come il processo di superamento del manicomio of­friva una possibilità di identificazione nel rifiuto di tale controllo. Ma, una volta attuato questo superamento e una volta approdati a una legge che lo sancisca, si riduce la possibilità di far coesistere la qualità del ruolo libera­ torio chiaramente identificabile nella lotta contro il mani­comio, con la necessità, più volte affermata, di superare la funzione normalizzatrice implicita di ogni operatore psi­chiatrico.
Lo psichiatra continua ad avere a che fare con la soffe­renza dell’individuo che continua però a rimanere inserita in una definizione precisa di ciò che è la norma. I limiti di norma si spostano, si allargano e si restringono a seconda delle necessità e del mutare dei valori sociali, ma nella lo­gica dominante ciò che occorre mantenere è sempre la chiara definizione del limite. Il modo di esprimersi della sofferenza continua tuttora a essere rigido e chiuso nei parametri classici della malattia mentale, perché questa è ancora la cultura da cui è determinato, per primo, chi sof­fre di disturbi psichici e sente di essere sull’orlo, sul pun­to di superare il limite della norma, oltre il quale sa che esistono la punizione e la sanzione. Una volta rotta la logica manicomiale – appunto la san­zione per il mondo abnorme – l’operatore psichiatrico si trova disarmato davanti a un malato che si muove ancora secondo i vecchi parametri della «malattia» e che dietro a questi parametri si nasconde e si difende. L’identifica­zione con l’istituzione non è più possibile, perché il mani­comio ha rivelato la sua funzione di pura difesa del sano rispetto al malato; l’identificazione nella psichiatria non è più possibile perché essa si è rivelata lo strumento che ha consentito questa difesa del mondo sano attraverso la crea­zione del luogo «malato»; né è più possibile l’identifica­zione nel ruolo di colui che lotta contro il manicomio, per­ ché esiste una legge che ne ha ormai decretata la morte. Ma ciononostante lo psichiatra continua ad avere a che fa­ re con una sofferenza che deve affrontare – senza strumen­ti, senza difese – per cogliere il mondo di bisogni dal quale proviene e per riportarla nella storia da cui è stata bandi­ta nel momento stesso in cui è stata definita come «malattia». È in questa mancanza di identità che consiste attual­mente la sfida implicita in ciò che potrà essere un modo diverso di fare «psichiatria». Perché è in questo vuoto ideologico e istituzionale che saremo costretti ad avvici­nare il disturbo psichico al di fuori dei parametri e degli strumenti che ci hanno finora impedito di avvicinarlo. Riempire questo vuoto, colmare questo momento di so­spensione, di perplessità, di incertezza con altre ideologie di ricambio, può impedirci di approdare a un nuovo modo di capire, al di fuori degli schemi culturali che ci imprigio­nano. Sarebbe facile colmare questo vuoto con teorie in­terpretative già collaudate che razionalizzino le nostre in­ certezze. L’Italia, in ritardo sul piano culturale rispetto agli altri paesi, è ora pronta – e ce lo dimostrano le richie­ste e le esigenze di rassicurazione ideologica e scientifica – ad accogliere psicanalisi, behaviorismo, terapie relazionali ecc. che — altrove – hanno tuttavia lasciato intatto sia il processo di emarginazione sociale sia la logica manicomia­le che lo giustifica. Ma il punto focale che tende a spez­zare la nuova legge italiana è la logica dell’emarginazione di classe, consentita dal manicomio e dalla psichiatria, senza richiudere la crisi aperta con nuove teorie. Il che ci consente di vedere direttamente di quali bisogni insoddi­sfatti si alimenta il disturbo psichico, di quali frustrazioni concrete; quali impotenze reali fanno esplodere la malat­tia, quando si è decisi a non vedere che cosa si vuol co­prire con quei simboli. Ciò non significa affermare che la sofferenza psichica ha origine solo dalla miseria materiale (che certo ha il suo peso, sia nel nascere del disturbo sia nel tipo di risposte che esso riceve), ma che esiste una mi­ seria sociale che ci impedisce di esprimere i nostri stessi bisogni e ci costringe a trovare strade anomale e tortuose che passano attraverso la mediazione della «malattia», perché ci è impedito di esprimerci in modo immediato. Il bisogno di una nuova « scienza » e di una nuova « teo­ria» si inserisce in quello che impropriamente viene definito «vuoto ideologico» e che, in realtà, è il momento felice in cui si potrebbe incominciare ad affrontare i proble­mi in modo diverso. Momento felice in cui, disarmati co­me siamo, privi di strumenti che non siano un’esplicita difesa nostra di fronte all’angoscia e alla sofferenza, siamo costretti a rapportarci con questa angoscia e questa soffe­renza senza oggettivarle automaticamente negli schemi della «malattia», e senza disporre ancora di un nuovo co­dice interpretativo che ricreerebbe l’antica distanza fra chi comprende e chi ignora, fra chi soffre e chi assiste. È solo in questo incontro diretto, senza la mediazione della ma­lattia e della sua interpretazione, che può emergere la sog­gettività di chi soffre di disturbi psichici: soggettività che può affiorare solo in un rapporto che, uscito finalmente dalle categorie oggettivanti della psichiatria positivistica il cui risultato più concreto è stato il manicomio, riesca a non rinchiudere in una ulteriore oggettivazione l’esperien­za abnorme, conservandola legata e strettamente connessa alla storia individuale e sociale.

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