Edito da Rivista Il Pensiero, Bologna, 1911, 28 p.
Estratto dall’inizio dell’opuscolo
Per molta gente la parola Anarchia suona così male, che i lettori volgari si allontaneranno probabilmente da queste pagine con avversione, meravigliandosi che qualcuno abbia avuto l’audacia di scriverle. Della moltitudine di ciarlatani noi non ci curiamo; in bocca loro nessun rimprovero ci suona troppo amaro, nessun epiteto troppo insultante. Coloro che si occupano di argomenti sociali e politici, trovano che sparlando degli anarchici si acquista un infallibile passaporto al favore popolare. Ogni delitto concepibile ci viene addebitato, e l’opinione pubblica, troppo indolente per informarsi della verità, viene facilmente persuasa che l’anarchia è sinonimo di cattiveria e di disordine. Coperti di obbrobrio, additati all’odio del pubblico, noi siamo trattati secondo la massima che il mezzo più sicuro per far impiccare un cane, è quello di dargli un brutto nome. Nulla di stupefacente in tutto questo. Il coro di imprecazioni, con cui noi siamo assaliti, è nella natura delle cose, perchè noi parliamo un linguaggio non permesso dall’uso, e non apparteniamo a nessuno dei partiti che si disputano il potere. Come tutti gli innovatori, siano essi violenti o pacifici, noi non veniamo con un ramoscello d’ulivo in mano, ma con una spada; non portiamo la pace, ma la guerra; non siamo quindi per nulla stupefatti d’essere accolti come nemici. Purtuttavia, non senza dolore constatiamo tanta malevolezza; nè ci basta la sola persuasione di non meritarla. Correre incontro alla perdita di un così prezioso vantaggio qual è la simpatia popolare, senza prima pazientemente cercare la verità ed esaminare attentamente quale sia il nostro dovere, sarebbe un atto di strana follia.
Note dell’Archivio
-Traduzione dell’articolo “Anarchy: By an Anarchist, pubblicato nella rivista “Contemporary Review” nel 1884
-Pubblicato inizialmente a puntate ne “Il Pensiero” nel 1910