Edito da Mondadori, Milano, 1969, 134 p.
Questa autobiografia di Joan Baez è come le sue canzoni: altrettanto serena e poeticamente suggestiva nel ripercorrere il cammino della sua giovane vita, dall’infanzia vagabonda vissuta accanto alla forza tranquilla del padre – un contadino messicano divenuto professore di fisica a Harvard e poi pacifista – sino agli anni dell’indipendenza, della ricerca personale, privata e « civile », di un atteggiamento che non concedesse nulla all’opportunismo, alla chiusura settaria verso il prossimo. In tutto il libro, come nel mormorato « understatement » delle sue canzoni più belle, in primo piano non ci sono né i razzisti né coloro che le gridano insulti quando parla о canta contro la guerra: ci sono le persone che ama, i ragazzi fuggiti e vagabondi, le ragazze negre incontrate nei ghetti e nelle prigioni, gli esclusi e gli sbandati che si cercano e si uniscono per sopravvivere, e una esperienza d’amore chiusa, intimidita, delicata, ma anche rigorosa, senza precauzioni e senza riguardi. Intorno a questo mondo giovane e inquieto si stringe un cerchio di sospetto, rabbia, paura, violenza, premono i gelidi meccanismi della società organizzata. Se il sospetto cadesse, se l’aggressività si placasse (è il « messaggio » per cui si battono Joan Baez e i giovani che lei rappresenta), si scoprirebbe una nuova fraternità primordiale, un amore incondizionato, profondo, in cui oggi sembra impossibile credere.
Nota dell’Archivio
-Traduzione del libro “Daybreak”, Dial Press Inc., New York, 1966