Haywood William D., “La storia di Big Bill”

Edito da: Iskra
Luogo di pubblicazione: Milano
Anno: Dicembre 1977
Pagine: 376
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Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:

Questa è la storia personale di William D. Haywood, scritta durante l’ultimo anno della sua vita. Gigante eroico del movimento sindacale americano durante i suoi anni più turbolenti, “Big Bill” era un socialista, fondatore e leader dell’Industrial Workers of the World (IWW). Nato a Salt Lake City, all’età di 15 anni iniziò a lavorare nelle miniere del Nevada e nel 1896, a 25 anni, entrò a far parte della Western Federation of Miners (WFM). A 31 anni fu segretario-tesoriere della WFM e si oppose contro i trust minerari. Divenne il fulcro di molte altre grandi lotte sindacali alla vigilia della prima guerra mondiale, tra cui gli scioperi dei lavoratori tessili a Lawrence, nel Massachusetts, e a Paterson, nel New Jersey. Guidò anche le lotte dei Wobbly per la “libertà di parola” e fu perseguitato per la sua opposizione all’entrata degli Stati Uniti nella prima guerra mondiale. La sua storia, un racconto avvincente e coinvolgente come un romanzo, dovrebbe essere conosciuta dalla generazione attuale.

Note dell’Archivio

– Traduzione del libro “The Autobiography of Big Bill Haywood”, International Publishers Co., 1929

– Alla fine del capitolo XXIV, il traduttore scrive: “qui s’interrompe l’autobiografia di William Haywood. Tralasciamo il capitolo XXV apparso nell’edizione americana che riferisce in breve come l’autore fosse giunto in Russia ormai malato e provato dall’ultimo periodo di prigionia, e per questo non potè completare le sue memorie.” A questo link vi è il capitolo mancante insieme all’Appendice.

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Lanza Aldo, “Operai e sindacati negli Stati Uniti”

Edito da: Editori Riuniti
Luogo di pubblicazione: Roma
Anno: 1983
Pagine: 140
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Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:

Durante un corso per lavoratori sul sindacato americano dissi che sarebbe stato interessante distribuire un questionario per tentare di stabilire qual era l’immagine che i lavoratori avevano del sindacato di quel paese. «Tutto lavoro inutile, mi rispose sorridendo un sindacalista, tutti sanno che i sindacati americani sono venduti». Questa affermazione era cosi definitiva da far dubitare della necessità stessa del corso da me proposto. Se quel sindacato era «venduto», se la situazione sociale ed economica negli Stati Uniti era cosi diversa dalla nostra, perché affannarsi a imparare delle cose di scarsissima utilità pratica? Erano semmai loro, gli americani, che avrebbero dovuto studiare i nostri sindacati e imparare il significato della lotta di classe.

Questo libro vuol provare a vedere quanto c’è di vero nell’affermazione di quel dirigente sindacale, opinione che forse non è isolata.

Ma cosa s’intende quando si dice che i sindacati americani sono «venduti»? Che la dirigenza sindacale tradisce le aspirazioni della base? Che con la propria azione blocca le lotte dei lavoratori o le indirizza verso obiettivi secondari (come nel film Fronte del porto)? Che si allea con i gangsters o con la mafia? Nella storia del sindacalismo americano ci sono fatti ed episodi che spingono a dare risposte affermative a queste domande. Ma ciò che deve essere respinto è la pretesa che essi siano in grado di fornire delle risposte assolute e definitive. Com’è infatti possibile che il sindacato continui a tradire i propri iscritti da più di cento anni? Come mai i lavoratori non eleggono una diversa dirigenza o non costituiscono un altro sindacato? Perché la maggioranza dei lavoratori ritiene l’iscrizione al sindacato un «buon investimento»? La risposta sta nel fatto che il sindacato americano non si considera come rappresentante di tutta la classe Operaia, ma solo dei propri iscritti. Il sindacato rifiuta di svolgere un ruolo politico e ideale di forza di rinnovamento e di mutamento della società. Ritiene che il suo compito sia quello di assicurare le migliori condizioni di esistenza per i propri iscritti.

«Noi non abbiamo degli obiettivi finali» sosteneva nel 1885 uno dei fondatori dell’American Federation of Labor (Afl). «Noi procediamo alla giornata. Combattiamo solo per degli scopi immediati, per scopi che possono essere realizzati in pochi anni (…). Vogliamo vestire e vivere meglio. Siamo contrari a tutti i teorici (…) siamo tutti uomini pratici».

Con questa filosofia l’Afl rigettava tutte le precedenti esperienze sindacali americane che avevano sempre unito le rivendicazioni ideali e politiche a quelle economiche. Ancora più importante, questo nuovo sindacalismo (variamente detto «puro e semplice», «d’affari», «del pane e burro») faceva piazza pulita del concetto e della pratica della solidarietà operaia. Il sindacato dei Cavalieri del lavoro, la National Labor Union avevano in precedenza sostenuto la necessità di costruire un sindacato solo per tutta la classe operaia. L’Afl invece si limitava all’organizzazione degli operai di mestiere qualificati. Questa scelta veniva giustificata in base al fatto che solo questi operai erano sufficientemente indipendenti da essere in grado di organizzarsi in sindacato e di fronteggiare il padronato. Le conseguenze di questa scelta furono disastrose per il movimento operaio americano. Da quel momento in avanti l’Afl si sentì responsabile solo nei confronti dei propri iscritti. Non solo: ogni sindacato di mestiere s’interessava solo a difendere le rivendicazioni particolari del proprio gruppo senza interessarsi delle conseguenze che esse potevano avere sugli altri gruppi di lavoratori.

Ci vollero cinquant’anni perché questo modello di sindacato venisse sfidato. In questo periodo l’Afl si adattò sempre di più al ruolo che le veniva assegnato dal padronato. Ogni volta che il sindacato cercava di uscire da questi binari si scontrava con l’azione combinata della repressione pubblica e privata. L’estrema violenza con cui il padronato americano rispose a ogni tentativo del sindacato di aumentare la propria influenza convinse l’Afl, e il mondo del lavoro in generale, che negli Usa era possibile solo un sindacalismo «puro e semplice». Questa regola sembrò confermata anche nel caso del sindacato Iww (Industrial Workers of the World, Lavoratori dell’industria del mondo) che, a partire dal 1905, tento di costituire un sindacato rivoluzionario di tutti i lavoratori dell’industria. Dopo alcuni successi iniziali ogni lotta di questo sindacato diventò una battaglia. La repressione più brutale, insieme ad alcune debolezze ed errori degli Iww, ridusse in breve anche quest’organizzazione al silenzio.
Neanche la grande crisi del 1925 scosse le convinzioni dei dirigenti dell’Afl. Con milioni di operai disoccupati essi continuarono a difendere gl’interessi particolari di gruppi sempre più ristretti di lavoratori. Anche quando l’amministrazione di Franklin Delano Roosevelt (1882-1945) approvo nel 1933 una nuova legge che garantiva ai lavoratori il diritto di organizzarsi in sindacati di loro libera scelta, l’Afl non cambiò sostanzialmente la propria politica e continuò a disinteressarsi degli operai non qualificati. Nel 1936 John L. Lewis (1880-1955), presidente del sindacato dei minatori, giunse alla conclusione che non si poteva continuare a lasciare milioni di lavoratori senza protezione sindacale e che questo compito poteva essere svolto solo uscendo dalla Afl. Nacque così un nuovo sindacato, il Congress of Industria! Organization (Cio), che si proponeva di organizzare tutti i lavoratori secondo l’industria di appartenenza, senza divisioni di mestiere. Ciò non comportava un’organizzazione per settore industriale, com’è per esempio oggi in Italia. Significava solo che tutti i lavoratori di una fabbrica o di un’azienda erano organizzati in un solo sindacato indipendentemente dalla qualifica professionale. La trattativa sindacale restava però a livello aziendale.

I primi anni del Cio furono entusiasmanti. Nel 1945 questo sindacato aveva già circa sei milioni d’iscritti. Il Cio si distingueva per la sua democrazia interna e per la fermezza con cui affrontava le lotte. Ma lo spirito iniziale sembrò esaurirsi una volta che i lavoratori delle grandi fabbriche furono sindacalizzati. La repressione e l’anticomunismo che si scatenarono dopo la fine della seconda guerra mondiale (l’epoca detta del maccartismo) facilitarono il ritorno del Cio alla «normalità».

La violenta campagna anticomunista del senatore repubblicano dei Wisconsin, Joe McCarthy, diventò così rappresentativa di una diffusa interpretazione del mondo come scontro fra democrazia e comunismo che il periodo a cavallo fra la fine del 1940 e l’inizio del 1950 viene appunto definito come maccartismo.

Vale la pena di aggiungere che il senatore McCarthy non guidò un vero movimento politico e ideologico ma si limitò a sfruttare e a drammatizzare quell’anticomunismo, spesso superficiale ma molto diffuso, che caratterizzava la società americana dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Ancora una volta di fronte alla minaccia della repressione e alla difficoltà di organizzare in sindacato i lavoratori delle zone povere del Sud o delle aziende di piccole dimensioni, il sindacato decise di ritirarsi a coltivare il proprio orticello. La decisione di chiudersi a difesa dei gruppi operai più forti non fu però un «tradimento». Negli anni del dopoguerra la classe operaia americana non chiedeva riforme e tanto meno rivoluzione ma solo pane e, soprattutto, burro. Gli operai volevano partecipare ai vantaggi e al benessere che l’economia americana in espansione prometteva. Il sindacato era visto come lo strumento più adatto per raggiungere questo benessere, come gli stessi sindacati avevano sempre sostenuto.
Il contrasto fra Afl e Cio era sostanzialmente sui mezzi più adatti per difendere gli interessi così definiti dei lavoratori. Nessuno dei due sindacati riteneva che questi interessi potessero uscire dal ristretto campo economico. È difficile d’altronde pensare a un ruolo diverso del sindacato in un paese in cui l’unica opposizione politica era rappresentata da un gruppo di comunisti, valutato attorno alle 400.000 unità. I due sindacati si trovarono cosi d’accordo sul fatto che gl’interessi dei lavoratori potevano essere difesi con efficacia solo se essi si mostravano responsabili e comprensivi delle esigenze produttive dell’azienda. In cambio di questo essi potevano avanzare delle richieste di livelli salariali sempre più alti.

Nel 1955 Afl e Cio si riunificarono, dimostrando nei fatti che ormai i due sindacati erano sempre più simili. Nel preambolo allo statuto della nuova Afl-Cio si legge:

«C’impegnamo a costruire un’organizzazione più efficace dei lavoratori; ad assicurare loro il pieno riconoscimento e l’uso dei loro diritti; al raggiungimento di livelli di vita e di lavoro sempre migliori; a far si che il loro lavoro permetta di godere il tempo libero; al rafforzamento e diffusione del nostro modo di vita e delle libertà fondamentali che sono la base della nostra società democratica»

Il nuovo sindacato s’impegnava quindi a riconoscere le regole del gioco in cambio di una serie di vantaggi per i propri iscritti. Che tre quarti dei lavoratori americani restassero al di fuori di questo patto sembrava un fatto secondario. Ancora una volta quei lavoratori che non dimostravano la capacità di organizzarsi in sindacato non venivano ritenuti degni di protezione. Molti di questi esclusi s’impegnarono allora a ricercare una via individuale al benessere. In fondo l’immagine dell’uomo che si fa da sé è una caratteristica tradizionale della società americana. In molti casi i lavoratori finirono per convincersi, a torto o a ragione, che l’appartenenza sindacale avrebbe frenato le loro possibilità di scalata economica.

Milioni di lavoratori restarono invece esclusi da quella che sarebbe stata definita in seguito come la «corsa dei topi». Essi erano principalmente donne, neri e giovani che nel linguaggio dell’economia venivano definiti come gruppi di lavoratori «deboli». Essi restarono intrappolati fra un tipo di sindacato che non aveva interesse a investire in loro e un modello di sviluppo che non poteva eliminare la discriminazione, né in campo sociale né in campo economico. A coloro che non trovavano una collocazione funzionale veniva offerta, nel migliore dei casi, l’assistenza pubblica. Una gabbia, insomma, dentro cui tentare di racchiudere e di controllare le spinte alla protesta sociale.

Fino a oggi nessuno è riuscito a organizzare sindacalmente o politicamente i bisogni, le speranze, la disperazione di questi gruppi di lavoratori spinti al margine della società. Essi sono coloro che sono stati venduti dalia classe operaia forte e dalle sue organizzazioni sindacali che hanno solo e sempre difeso gl’interessi limitati di gruppo. Per questa ragione i lavoratori americani finiscono per non dare troppa importanza alla gestione clientelare e burocratica del loro sindacato. Finché quest’ultimo è in grado di assicurare il benessere economico si ritiene che faccia un buon lavoro. Le pagine che seguono, che descrivono le attività del sindacato sia verso i lavoratori che verso il padronato, devono essere lette avendo presente qual è il tipo di funzione che il sindacato è chiamato a compiere negli Stati Uniti. Il giudizio e la critica devono riguardare quindi il funzionamento della società americana nel suo complesso e non si possono limitare alle attività del sindacato.


Nota dell’Archivio: ///

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Car G. Lepori, Nicole Braida, “Poliamore. Riflessioni transfemministe queer per una critica al sistema monogamo”

Edito da: Eris
Luogo di pubblicazione: Torino
Anno: Aprile 2023
Pagine: 64
File: PDF
Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:

Il poliamore è la possibilità di intraprendere più relazioni affettive contemporaneamente con il consenso di tutte le persone coinvolte. Lə due autorə, da una chiara prospettiva transfemminista e queer, spiegano come le non monogamie abbiano il potenziale di mettere in discussione l’organizzazione del nostro sistema relazionale, per “norma” monogamo, che si interseca con gli altri sistemi normativi che dominano la nostra vita, come quello economico, politico, di sesso/genere. Il modello di poliamore che sostengono è centrato sulla cura reciproca, in opposizione ai sistemi di competizione pervasivi nella nostra società. Questo saggio è frutto di un percorso collettivo di confronto e di lotta dal basso, contro la stigmatizzazione sociale e la polyfobia e contro una visione assimilazionista del poliamore che vada a depotenziarne il suo valore radicale.


Nota dell’Archivio: ///


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Senta Antonio, “Utopia e azione per una storia dell’anarchismo in Italia (1848-1984)”

Edito da: Eleuthera
Luogo di pubblicazione: Milano
Anno: 2015
Pagine: 255
File: PDF
Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:

Dai moti del 1848 al neo-anarchismo post-1968, Senta delinea un’originale storia dell’anarchismo italiano che intreccia la grande Storia con le innumerevoli piccole storie di donne e uomini che hanno dato consistenza reale a quel cocktail unico di libertà e uguaglianza che è l’idea anarchica. Grazie a una narrazione serrata e avvincente, partecipiamo in diretta al fluire tumultuoso degli eventi che attraversano, influenzano e spesso modificano la storia d’Italia. Se non mancano i personaggi più noti, questa è soprattutto la storia corale dei tanti anonimi protagonisti che sono stati la carne viva del movimento italiano, la storia degli ideali politici e delle passioni umane che hanno messo in moto generazioni di militanti. Ne viene fuori la ricchezza di un’idea intrinsecamente plurale, sperimentale e antidogmatica che attraverso la storia si fa movimento concreto, in una dimensione che lungi dall’essere solo politica è anche e soprattutto sociale ed etica.


Nota dell’Archivio: ///


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Umanità Nova. Numeri Speciali

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Durata: 1953-1954
Luogo: Roma
Periodicità: Numeri Unici
Pagine: 16 p. (Numero dedicato a Luigi Fabbri); 20 p. (Numero dedicato alle occupazioni delle fabbriche); 20 p. (Numero dedicato ad Errico Malatesta)

Note dell’Archivio

-I tre numeri speciali uscirono come supplementi per il settimanale di Umanità Nova. Il primo numero fu quello su Malatesta, il secondo su Fabbri e l’ultimo sulle occupazioni delle fabbriche.

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Unione Donne Italiane, “Archivio Centrale. Gruppi di Difesa della Donna 1943-1945”

Edito da: Unione Donne Italiane-Archivio Centrale
Luogo di pubblicazione: Roma
Anno: 1995
Pagine: 140
File: PDF
Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:
Presso l’Archivio Centrale dell’Udi sono conservati documenti relativi ai Gruppi di difesa della donna, dal momento della loro costituzione – novembre 1943 – fi­no alla fusione con l’Unione donne italiane realizzatasi al I Congresso nazionale (Firenze, 20-23 ottobre 1945).
Si tratta di un «fondo» particolare di 150 documenti di natura molto diversa: ver­bali di riunioni, relazioni di attività, programmi di lavoro, testi di volantini, numeri ciclostilati o fotocopiati del giornale «Noi donne», corrispondenza, ecc. Sono fogli destinati ad essere trasmessi e fatti circolare clandestinamente e quindi omettono riferimenti a persone e luoghi specifici. Solo qualche volta appaiono nomi «di bat­taglia».
Nell’Inventario ogni pezzo è stato classificato attribuendo a ciascuno un indice numerico, una data, un titolo e, quasi sempre, una brevissima nota illustrativa. L’indice numerico, il primo a sinistra nella pagina, ordina i documenti dal nu­mero 1 al numero 150. La data viene indicata, ogni volta che è possibile, completa di giorno, mese e anno. Nei casi in cui manca l’indicazione del giorno, i documen­ti vengono ordinati in calce a ciascun mese di riferimento. Per alcuni di questi do­cumenti, la data è presunta. I titoli dei documenti sono in gran parte redazionali; sono indicati invece tra virgolette, quelli originali. I corsivi sottostanti ciascun tito­lo sono redazionali.
I documenti riportati integralmente sono in tutto 62. Essi recano lo stesso nu­mero d’ordine dell’Inventario, collocato però non a sinistra ma a destra della data. Maria Michetti, Marisa Ombra e Luciana Viviani, che hanno curato questa pub­blicazione, si sono assunte la responsabilità e l’onere di operare la scelta dei docu­menti da riprodurre nella loro interezza, di dare loro una titolazione e di sopperire alle carenze di alcuni testi con qualche modestissimo intervento. Sono stati corretti refusi, errori di stampa e di battitura, si sono indicate con la voce sic, posta tra parentesi quadra, espressioni poco chiare e imprecise che ricor­rono nel testo. Nel documento n. 75, che è manoscritto, e in alcuni altri che pre­sentano errori e difficoltà di scrittura, ma sono prodotti di indubbia autenticità, si è rispettato il testo originale.
Questo lavoro è stato certamente non facile e di non poco impegno, se si con­sidera che i documenti sono stati prodotti a suo tempo in regime di clandestinità, di estrema povertà di mezzi a disposizione, con tecniche di fortuna, con carte e in­chiostri di pessima qualità, con macchinari in cattivo stato. A questo si aggiunga che i 50 anni trascorsi hanno ulteriormente aggravato lo stato di conservazione e quindi la difficoltà della lettura.


Nota dell’Archivio: ///

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Micheli Lorenzo, “Los olvidados. Di anarchici e di anarchia. Fatti e storie che ci riguardano”

Edito da: La Fiaccola
Luogo di pubblicazione: Ragusa
Anno: Aprile 2011
Pagine: 80
File: PDF
Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:
Olvivados è il nome spagnolo dal suono solenne, difficilmente traducibile in italiano, con cui gli spagnoli chiamano i “dimenticati”, o meglio sarebbe definirli come i “nascosti”, i “cancellati”, “i rimossi”.
Questi uomini e quelle donne i cui nomi non trovi mai nei libri di storia, o negli archivi degli istituti più prestigiosi, che rintracci a fatica, o per caso, in qualche fotografia ingiallita, dove stanno sullo sfondo, quasi fuori dall’inquadratura, sempre lontani da quelli che contano, o irrompono loro malgrado in qualche nota di libri scritti per tutt’altro motivo.
Uomini e donne sopravvissuti per decenni, praticamente soltanto nei personali ricordi dei pochi ancora in vita che un tempo li co­nobbero,’ e che, per nostra fortuna, sono sempre fermamente convinti che se essi non fossero esistiti, il mondo sarebbe un po­sto ancora peggiore di quanto già oggi non sia.
Uomini e donne sempre definiti dai loro compagni ‘ufficiali’ co­me: «sognatori», «utopisti», «moralisti» o «poeti», o magari «av­venturieri», parole che soltanto nel paese del più vieto conformi­smo, quale oggi è l’Italia, vengono pronunciate con tanto ed evi­dente fastidio.
Uomini e donne che compirono l’imperdonabile errore di dire quello che pensavano e di fare quello che dicevano, e che, errore ancora più grande, volevano vivere da liberi qui ed ora, senza aspettare i tempi ragionevoli della storia. Che per questo motivo patirono le più cocenti delle delusioni, le sconfitte più devastanti e a cui, ironia della sorte, soltanto gli archivi delle tante polizie che li perseguitarono e li mandarono a morte, rendono un invo­lontario e postumo omaggio. Questo libro parla di loro, degli ‘olvidados’ della Barcellona degli anni venti, che spesero le loro vite per rimuovere tutto ciò che ostacolava la costruzione, che si andava facendo, di una società di liberi e di uguali.

Nota dell’Archivio: ////

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Dilemmi Andrea, “”Si inscriva, assicurando.” Polizia e sorveglianza del dissenso politico. Verona 1894-1963″

Università degli studi di Verona, Dipartimento di tempo, spazio, immagine, società, 2010, 2450 p.

Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:
Nel corso di precedenti ricerche che hanno avuto come oggetto la ricostruzione delle vicende degli anarchici, l’analisi della conflittualità sociale nella provincia di Verona e il nodo della memoria del carcere e del confino in epoca fascista a partire dalla curatela dei diari clandestini di Giovanni Domaschi, un anarchico veronese attivo dai primi del Novecento fino alla Resistenza, le fonti di polizia si sono rivelate strumenti preziosi, e a tratti indispensabili, per ricostruire le vicende biografiche di una serie di attivisti politici e in particolare di quelli meno noti, che non hanno lasciato tracce significative in altre fonti. D’altronde, i tratti che le caratterizzano, cioè il peculiare punto di vista del soggetto produttore, la loro funzione e le circostanze in cui sono state prodotte, ne hanno anche messo in evidenza, soprattutto nel confronto con la memorialistica, i limiti intrinseci: «Spesso, le carte di polizia si fermano alla soglia della comprensione della realtà, soprattutto quando non si tratta di decifrare scelte e opzioni politiche e si sondano le profondità poco note dei comportamenti collettivi degli italiani».
Le fonti di polizia presentano un aspetto duplice: descrittivo da un lato, ermeneutico dall’altro. Quest’ultimo, più che facilitare la ricostruzione del profilo dei sorvegliati, risulta adatto in particolare a rivelare la mentalità che informa i soggetti e le istituzioni preposte al controllo e ad analizzare il loro concreto funzionamento a partire dalla scelta dei soggetti da sottoporvi, dagli obiettivi e dalle modalità della sorveglianza, dal flusso delle informazioni e dei documenti prodotti, dall’eventuale passaggio dalla sorveglianza alla sanzione e viceversa. In sintesi, le fonti di polizia sono innanzitutto strumenti per scrivere la storia degli stessi apparati di controllo. L’aspetto descrittivo contiene, ad ogni modo, una ricca mole di informazioni, sia di ordine quantitativo che qualitativo. Non solo, quindi, elementi atti a ricostruire la biografia del soggetto sottoposto a sorveglianza (il suo agire nel tempo e nello spazio), ma anche dati utili a formulare serie da valutare complessivamente: genere, età, estrazione sociale, livello di istruzione, mestiere esercitato, convinzioni politiche, periodo in cui viene esercitata la sorveglianza, distribuzione sul territorio, eventuale immigrazione o emigrazione, eventualità che il sorvegliato sia stato diffidato, ammonito, inserito nella «Rubrica di frontiera», sottoposto al giudizio della magistratura ordinaria, confinato, internato, detenuto, processato dal Tribunale speciale oppure, infine, radiato dal Casellario.
Dai fascicoli personali emergono le storie di vita degli uomini e delle donne protagonisti del dissenso politico e del conflitto sociale e tra questi, in particolare, degli attivisti di base e dei quadri intermedi delle organizzazioni sindacali, dei movimenti e dei partiti di sinistra:
Per una evidente ironia del destino interi strati di popolazione e, singolarmente presi, un numero consistente d’individui altrimenti condannati al più assoluto anonimato o destinati tutt’al più a transitare nei libri di storia per meri tramiti statistici e quantitativi, recuperano, grazie al controllo “occhiuto” esercitato ai loro danni dalle autorità e dal potere, una minima chance di visibilità postuma.
Le fonti di polizia sono dunque in grado di apportare un rilevante contributo alla storia politica e sociale, in particolare per quanto concerne i comportamenti, i quadri mentali, le forme di acculturazione e di politicizzazione in specifici contesti territoriali.

Nota dell’Archivio: ////

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Cernigoi Claudia, “Gli altri mondi di Almerigo Grilz”

Edito da: Supplemento “La Nuova Alabarda e la Coda del Diavolo”
Luogo di pubblicazione: Trieste
Anno: n. 442, 4 Dicembre 2023
Pagine: 15
File: PDF
Introduzione/Premessa/Presentazione/Sinossi/Quarta di Copertina/Sintesi:
Almerigo Grilz è stato tanto “dimenticato” dai media e dalle istituzioni che nel 2002 l’amministrazione comunale di Trieste gli intitolò una via nel rione di Barcola; che nel 2007 gli è stata dedicata una puntata monografica della trasmissione Terra! di Toni Capuozzo su Canale 5; che l’amministrazione provinciale di Pordenone ha dato il suo nome alla propria sala stampa; che nel 2017 la casa editrice di estrema destra Ferrogallico ha pubblicato un fumetto con la storia della sua vita (in una collana che propone anche le biografie di Yukio Mishima, Nino Benvenuti, Louis-Ferdinand Celine e persino Benito Mussolini, in arte “duce”). Inoltre a Trieste il giornalista “dimenticato” è stato protagonista di svariate mostre: nel dicembre 2010 “Gli occhi della guerra” (con foto di Grilz e dei suoi ex camerati nel Fronte della Gioventù triestino, con lui fondatori dell’Agenzia di stampa Albatross, Fausto Biloslavo e Gian Micalessin) nella sala della chiesa di Santa Maria Maggiore; è stata replicata nel maggio 2017 al Civico Museo “Diego de Henriquez” in contemporanea con la mostra “I mondi di Almerigo”, allestita nella sala comunale di piazza Piccola dall’associazione Spazio InAttuale con il contributo del Comune di Trieste.
Oltre alle commemorazioni e conferenze a lui dedicate dai suoi “camerati” di un tempo, è stato anche oggetto di ricordi ufficiali nelle sedi istituzionali, e nella primavera 2023 è stata annunciata l’istituzione di un premio giornalistico con il suo nome, “per i 1 giornalisti under 40 che rischiano sul campo”.
Infine, nei giorni in cui scriviamo queste righe è stato annunciato che la vita di Grilz avrebbe dato l’ispirazione per un film (di tutta fantasia, a quanto è dato sapere, che vede la presenza anche di un inesistente Vito che si sarebbe “scontrato” con Grilz negli anni
’70, ma divenuto un affermato giornalista “di sinistra”, avrebbe deciso di riabilitare la memoria dell’antico avversario), e nel dare la notizia Biloslavo ha scritto che «Almerigo è stato dimenticato per decenni dalla casta giornalistica e ancora oggi per tanti benpensanti e detrattori, che guardano sempre indietro, rimane l’uomo nero e un caduto sul fronte dell’informazione di serie B» . Pensiamo quindi opportuno proporre una biografia (ancorché probabilmente “non autorizzata”) di Almerigo Grilz, fascista triestino, al quale avevamo già dedicato un articolo sei anni fa , nel quale scrivevamo che nel mese di maggio 2017 a Trieste ci eravamo trovati di fronte ad un bombardamento mediatico degno di miglior causa finalizzato a glorificare la figura del fu militante neofascista Almerigo Grilz, definito «il primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine del Secondo conflitto mondiale».
Erano infatti i giorni in cui venivano esposte le mostre di cui s’è parlato sopra e nell’aula del Consiglio comunale si era svolta una commemorazione istituzionale della «figura e la vicenda umana, politica e professionale di Almerigo Grilz» . Prima di parlare del Grilz “militante” pensiamo opportuno però parlare del Grilz “cronista”, morto in Mozambico nel 1987 mentre fungeva da press-agent ai guerriglieri antigovernativi della Renamo, partendo proprio dalle parole pronunciate dall’assessore regionale alla cultura Gianni Torrenti l’11/4/17 durante l’inaugurazione della mostra, quando sostenne che al defunto neofascista «va riconosciuto il valore nel voler diffondere la verità, a ogni costo». Ma la verità su cosa, assessore?

Nota dell’Archivio: ///

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La Questione Affricana

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Durata: Marzo 1896
Luogo: San Paolo (Brasile)
Periodicità: Numero Unico
Pagine: 4

Note dell’Archivio

– Numero unico polemico contro la guerra italo-etiopica (Dicembre 1895-Ottobre 1896) e le velleità coloniali di Francesco Crispi. Il direttore responsabile fu Galileo Botti. Il giornale venne pubblicato a San Paolo del Brasile, città “dove massimamente affluirono i settori politicamente più emancipati dell’emigrazione italiana, rifuggendo le proibitive condizioni di lavoro delle aziende agricole” (Leonardo Bettini, Bibliografia dell’anarchismo : periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana, 1872-1971, Appendici documentarie. 1) Appunti per una storia dell’anarchismo italiano in Brasile). Botti, prima di questo numero unico, aveva fondato il primo giornale di lingua italiana in Brasile, “Gli schiavi bianchi” (1892). Alessandro D’Atri, nel suo libro “Uomini e cose del Brasile (descrizione dei viaggi compiuti negli anni 1894 e 1895)” del 1895 scrive che Botti, in quel periodo, “vive pacificamente, conducendo una caffetteria alla traversa del Seminario” (pag. 282). Nello stesso libro viene riportato un documento pubblicato sul giornale O Paiz riguardante le azioni anti-anarchiche del console italiano Edoardo Compans De Brichanteau tra gli italiani emigrati in Brasile. Il documento, firmato dal capo della polizia Cavalcante de Alburqueque, riporta quanto segue: “mi raccomandaste di fornire a cotesto Supremo Tribunale i necessarii schiarimenti circa i motivi per cui vennero arrestati gl’individui di nome Felice Vezzani, Andrea Albernazzi, Arturo Campagnoli, Antonio Maffucci, Francesco Patelli e Galileo Botti […] Compiendo quell’ordine, posso informarvi che questi individui ed altri quattro, tutti italiani, furono additati dallo stesso console di loro nazionalità al dott. capo di polizia dello Stato di San Paolo come anarchici dinamitardi, in seguito a che quell’autorità, per le prove risultate dalla istruttoria, li arrestava e li rimetteva alla polizia di Rio, perchè venissero deportati, conforme quanto è determinato dal decreto del 4 Giugno ultimo […]“(pag. 284). Gli altri giornali fondati da Botti sono La Birichina : poco politica e meno letteraria, XX Settembre e Ribattiamo il chiodo.

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