Fournier-Finocchiaro Laura, “Anarchismo e femminismo nelle riviste La donna libertaria (1912-1913) e L’Alba libertaria (1915)”

da Laboratoire italien. Politique et societé, n. 26, 2021

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Pouget Emile, “Il sabotaggio”

Edito da Maldoror Press, Camerano, 2013, 91 p.

L’opuscolo seminale sul sabotaggio rivoluzionario, scritto oltre un secolo fa dal sindacalista anarchico Émile Pouget.
«Da quando un uomo ha avuto la criminale ingegnosità di trarre profitto dal lavoro di un suo simile, da quel giorno lo sfruttato ha cercato d’istinto di dare meno di quanto esigesse il suo padrone», É. Pouget

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Note dell’Archivio
-Traduzione di “Le Sabotage”, 1910
-Il libro di Pouget è stato tradotto e pubblicato una prima volta dalla Casa editrice di avanguardia, Milano, 1911. Successive pubblicazioni: La Fiaccola, Ragusa, 1973 (con introduzione di Alfredo Maria Bonanno); Massari, Bolsena, 2007; Ortica Editrce, Aprilia, 2024

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Fabbri Luigi, “L’organizzazione operaia e l’anarchia (A proposito di sindacalismo)”

Edito da Casa Editrice Libraria Il Pensiero, Roma, 1906, 48 p., Seconda Edizione

Spezzare ancora una lancia a favore dell’organizzazione, in linea generale, non sarà inutile in questo momento in cui una mania ingiustificabile di originalità spinge tanta gente a sostenere le cose più assurde, gettando una confusione enorme nelle idee e rendendo impossibile ogni lavoro ordinato e continuato di demolizione e di ricostruzione. C’era una volta un filosofo greco, un sofista, che s’era messo a sostenere che la nostra esistenza è una illusione, e che tutto ciò che noi vediamo esiste non di per sè ma soltanto nel nostro preconcetto e nella nostra fantasia.

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Libreria Sociologica, Paterson, 1906 : 48 p. Le successive edizioni sono di Crescita Politica, Firenze, 1975 e Andreani, Brembio, 2014

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Maximoff Grigori Petrovitch, “Gli anarcosindacalisti nella rivoluzione russa”

Edito da Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo, Chieti, 2003, 44 p.

Presentazione
Questo opuscolo contiene la traduzione di un estratto dal libro The guillotine at work pubblicato nel 1940 dall’esule anarco-sindacalista russo Gregori Petrovich Maximoff. Nato in un piccolo villaggio nella provincia di Smolensk nel 1893, laureatosi giovanissimo in agraria, Maximoff era già attivo nel movimento rivoluzionario all’epoca della rivoluzione russa del 1917; entrato nell’Armata Rossa, si rifiutò di obbedire agli ordini di disarmare i lavoratori e fu quindi condannato a morte. La solidarietà dei lavoratori del sindacato metalmeccanici gli salvò la vita e fu rimesso in libertà. Riprese subito a militare nel movimento anarco-sindacalista, del quale fu una figura di primo piano; fu nuovamente arrestato nel marzo del 1921, durante la rivolta di Kronstadt (che fu soffocata nel sangue dall’Armata Rossa), e trasferito nella prigione Taganka a Mosca dove rimase molti mesi. Solo in seguito ad un suo sciopero della fame ed al conseguente interessamento di alcuni sindacalisti europei allora a Mosca per un congresso, gli fu data la possibilità di chiedere asilo politico all’estero. Si recò a Berlino, quindi a Parigi e poi definitivamente negli Stati Uniti, continuando a collaborare alla stampa anarco-sindacalista edita dai profughi politici russi. È morto nel 1950.
La figura di Maximoff, come dimostra la sua biografia, è dunque quella comune a tanti anarchici ed anarco-sindacalisti russi, che dettero tutto se stessi per la causa della rivoluzione, e furono poi le prime vittime delle persecuzioni politiche contro-rivoluzionarie del regime bolscevico, che impose un ferreo centralismo ad una rivoluzione nata spontanea- mente federalista e decentrata, come afferma Maximoff. L’opuscolo è breve, diviso in molti capitoletti, di facile lettura. Innanzitutto viene sottolineata la vastità e l’importanza politica del movimento anarcosindacalista, che all’indomani della “rivoluzione d’ottobre” si andava sempre più estendendo, influenzando molte categorie di lavoratori. Maximoff ricorda i principali giornali anarchici e anarco-sindacalisti, alcuni dei quali erano quotidiani, e la contemporanea febbrile attività rivoluzionaria promossa in polemica con i bolscevichi che, dopo essersi serviti in un primissimo tempo di parole d’ordine libertarie, ormai chiara- mente parlavano della necessità di rafforzare il potere del partito e dello stato bolscevico: “arrivare al centralismo attraverso il federalismo”, questo l’obiettivo dei bolscevichi come lo formulò Stalin in un suo articolo dell’aprile 1918. Particolare attenzione dedica Maximoff alla questione dei consigli di fabbrica e del loro forzato controllo da parte dei sindacati ufficiali: è questo un problema oggi tornato d’attualità, ed anche in questa luce l’opuscolo merita di essere letto. (da «A» Rivista Anarchica 1974)

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Nota dell’Archivio
-Come riportato dall’opuscolo, “Il presente volume riproduce integralmente il libro che con uguale titolo venne pubblicato da Crescita Politica a Firenze nel 1973”

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Senta Antonio, “Il sindacalismo anarchico a Bologna. 1893-1923”

Edito da Edizioni Atemporali, 2013, 40 p.

Gli studi di storia della conflittualità e del rivendicazionismo di classe che si sono sviluppati nell’ultimo quindicennio danno la conferma del fatto che non si possa davvero fare la storia delle forme di organizzazione dei ceti subalterni, quali furono le Camere del Lavoro, non tenendone in de­bito conto le radici e le caratteristiche libertarie. Questo pare ancora più vero se si analizzano gli avvenimenti del movimen­to operaio nell’arco temporale che va dall’ultimo decennio dell’Ottocento all’avvento del fascismo, e in una regione, l’Emilia-Romagna, che da una parte vede sommarsi alle problematiche sociali della dimensione contadina quelle tutte moderne dello sviluppo industriale, dall’altra è luogo centrale della nascita e dello sviluppo del sindacalismo rivoluzionario e anarchico. In via preliminare è necessario chiarire i rapporti tra i due termini sindaca­lismo rivoluzionario e sindacalismo anarchico. Per quanto riguarda la città e la provincia di Bologna, territorio privilegiato di questa mia ricerca, si può affermare che essi coesistono, e spesso coincidono, trovandosi in per­ fetta unità di intenti, nel periodo che va dai primi anni del Novecento fino alla prima guerra mondiale. D al 1915 in avanti sindacalismo anarchico e sindacalismo rivoluzionario sono due universi distinti a causa dell’opposto giudizio politico sull’intervento nel conflitto mondiale. In particolare, dal 1917 al 1923 a essere nuovamente attivo in città è il sindacalismo anarchico e non quello rivoluzionario. Ora, il termine sindacalismo anarchico sta a indicare, ancor prima che una pratica politica e sociale, una dimensione antropologica dell’anarchico di inizio Novecento. Il movimento libertario infatti, lungi dall’essere carat­terizzato da una composizione sociale “ piccolo borghese” , come spesso sostenuto da una certa storiografia marxista, è invece largamente composto da “ lavoratori del braccio” che si gettano con generosità unica nelle lotte sociali dei primi due decenni del secolo scorso, consapevoli di avere poco da perdere nell’agone. Lo spoglio delle schede biografiche dei sovversivi sia su scala nazionale sia su quella locale emiliano-romagnola, a partire tanto dall’utilizzo delle fonti di polizia quanto dalla storiografia specialistica che si è cimentata nella compilazione di diverse raccolte di profili biografici, conferma come gli anarchici siano in stragrande maggioranza di estrazione proletaria (Antonioli et a l, 2003; Pirondini, 2012; Careri, 2012). Questo fa sì che il legame tra anarchici e lavoro sia indissolubile e che l ’azione anar­chica si sviluppi “ naturalmente” nelle questioni del lavoro. Proprio tale natura spiega perché l ’azione sindacalista anarchica si caratte­rizzi per il suo radicamento territoriale e abbia una particolare predilezio­ne per l ’autonomia federalista rispetto alle dinamiche accentratrici: ecco quindi che i lavoratori di idee libertarie sono presenti nelle associazioni di settore, in particolare nelle leghe e contribuiscono fin dal loro sorgere a quelle forme di organizzazione operaia territoriali che sono le Camere del Lavoro. La dimensione locale, in un’ottica federalista, corre parallelamente a un’al­tra peculiarità, cioè il ricorso alla conflittualità permanente e alle diverse forme dell’azione diretta, dallo sciopero al boicottaggio. A ciò si aggiunge un terzo fattore dirimente nel definire il sindacalismo anarchico: il rifiuto del parlamentarismo e della politica, intesa come po­ litica di partito. Cosa questo significhi nella pratica, lo vedremo più avanti. Questa triplice accezione, di radicamento territoriale, di radicalismo nelle lotte sociali e di accettazione dello scontro sul piano sociale e non politico, non è tanto figlia di un’elaborazione tattica di alcuni tra gli agitatori liber­tari più in vista, né tanto meno di intellettuali, quanto piuttosto è intrec­ciata ai processi, a sbalzo e tutt’altro che lineari, di emancipazione attraver­so il lavoro che i proletari italiani mettono in atto in maniera autonoma. In altre parole i lavoratori del braccio che fanno dell’azione diretta la cifra del proprio agire non seguono pedissequamente le elaborazioni tattiche dei teorici del sindacalismo o dell’anarchismo, ma vanno sviluppando i propri mezzi di lotta sul terreno pratico. Certo per il sindacalismo anarchico italiano il modello francese ha la sua importanza. Al di là delle Alpi infatti, dall’inizio degli anni Novanta dell’Ottocento, si va presentando sulla scena un nuovo orientamento tatti­co, all’insegna dell’entrata negli organi di rappresentanza dei lavoratori, primis le Bourses du travail. La stessa idea delle Camere del Lavoro è, come è noto, francese. Essa pare sia stata posta già nel 1790, ma la prima du travail in Bourse nasce a Parigi nel 1887 con il doppio intento di organizzare ed educare i lavoratori di diversi settori. Negli anni Novanta Bourses federa­ te tra loro vengono fondate in diverse parti del paese. Hanno un rapido successo, tanto da essere circa settanta a inizio secolo e danno vita a tutto un complesso di attività, lotta per maggiore salario, per minori tempi di lavoro, contro l’aumento del costo della vita, e a diversi servizi: di mutuo appoggio, di istruzione e formazione, di propaganda. Esse diventano presto la base sociale su cui si innesta l ’azione anarchica, in particolare dopo la repressione seguita al periodo degli attentati (1892-1894) quando diversi militanti vivono sulla propria pelle le conseguenze del vicolo cieco cui la propaganda del fatto individuale li aveva costretti. La tattica di entrata negli organi dei lavoratori come “ minoranza agente” viene fatta propria dall’insieme del movimento francese al Congresso di Amiens del 1906 ma era già una realtà da alcuni anni. A dare voce a tale orientamento sono militanti quali Fernand Pelloutier, segretario della Fédération du bourses de travail dal 1895 al 1901, Émile Pouget e successivamente Pierre Monatte, i quali considerano la lotta sindacale una scuola pratica di anarchismo e vedono nel sindacato l’embrione della società futura, arrivando a ritenere che l ’anarchismo debba essere compreso entro il sindacalismo rivoluziona­ rio, coincidendo così di fatto con esso (Maitron, 1992). Tale rimodulazione tattica sintetizzabile nell’espressione “ andare al popo­lo ” è in parte condivisa dallo stesso Errico Malatesta, in una dinamica di reciproca influenza tra il rivoluzionario italiano e i suoi compagni francesi. Malatesta matura questa posizione nel periodo passato in Argentina (1885— 1889), dove dà un contributo essenziale all’affermarsi del movimento sin­dacale, e successivamente a Londra dove è positivamente impressionato dallo sciopero dei dockers del 1889 e dai movimenti di lotta operaia che nel decennio successivo attraversano l ’Europa. Negli anni successivi all’esilio londinese, e in particolare nell’importante periodo in cui redige L’Agitazione di Ancona (1897-1898), continua a propagandare l’entrata degli anarchici nelle leghe operaie. U n approccio di tal guisa è fatto proprio da larga parte del movimento anarchico, che nei primissimi anni del Nove­cento si trova a operare in un quadro di condizioni oggettive maggior­mente favorevoli. Nonostante la perdurante repressione, i nuovi equilibri politici sanciti dall’indirizzo liberale della stagione giolittiana lasciano in ­ fatti maggiori spazi di azione e i libertari possono intensificare la propria attività nelle organizzazioni operaie e aprire una nuova stagione di lotte collettive (Giulietti 2012). Tale visione della lotta sociale tutta interna al movimento operaio non è vista di buon grado dalla totalità degli anarchici, alcuni dei quali continua­ no a temere che l ’idea anarchica si corrompa a contatto con le organizzazioni sindacali stabili, le loro strutture e burocrazie: non a caso anche in Emilia-Romagna gli anarchici si dividono ovunque quando c’è da deci­dere se partecipare o meno alle Camere del Lavoro e se accettare di ricoprirvi cariche elettive. A differenza di quanto avviene in Francia, in Italia l’identificazione tra sindacalismo rivoluzionario e anarchismo ha vita breve. Infatti tanto Malatesta, dopo il suo ritorno in Italia nell’estate del 1913, quanto Luigi Fabbri maturano via via una posizione secondo cui l’identificazione completa tra organizzazione operaia e anarchismo è di danno a quest’ultimo. In particolare è criticato il fatto che, come invece sostiene l ’altro “ grande” dell’anarchismo di lingua italiana Armando Borghi, il conflitto sul terreno economico crei automaticamente la coscienza di classe e il bisogno della rivoluzione, ma è contestata anche la riduzione della rivoluzione sociale al momento dello sciopero generale espropriatore, vero “mito” del sindaca­lismo rivoluzionario (Antonioli, 1990). Mentre provano quindi a favorire l ’attività anarchica nelle organizzazione operaie, si preoccupano così anche di preservare l ’autonomia d’azione e l ’organizzazione specifica degli anar­chici. Per questi militanti la dimensione sindacale deve rimanere strumen­tale alla rivoluzione anarchica, è cioè luogo della propaganda per la lotta a ogni autorità, iv i compreso il potere politico, in vista dell’obiettivo ultimo: l’insurrezione e la distruzione di qualsivoglia governo. Quindi, a differenza dai sindacalisti rivoluzionari di lingua francese, il sindacalismo è qui solo una modalità d’azione, un mezzo, e non un fine.Tali sfumature di pensiero e di azione si confrontano al congresso di Amsterdam del 1907, dove pro­prio sul rapporto tra anarchici e movimento operaio sono presentate due diverse risoluzioni, una da Malatesta e una da Monatte (Antonioli, 1979; Antonioli, Masini, 1999; Berti 2003). Non bisogna però pensare che la pratica del movim ento reale, operaio e libertario, modifichi il proprio agire in conseguenza di una deliberazione congressuale o di un dibattito che alla maggior parte dei militanti del tem­po appare probabilmente solo come una fine questione teorica. Tanto più che in Italia, nello stesso anno del congresso di Amsterdam, i sindacalisti rivoluzionari escono dal Partito Socialista, creando, di fatto, le condizioni per una azione concorde con gli anarchici. A stabilire i termini reali di tale intesa e a darne concretezza organizzativa ci pensa, tra gli altri, Armando Borghi, protagonista assoluto del sindacalismo anarchico almeno dal 1908 e leader dell’Unione Sindacale Italiana dal 1914 al 1922. Il suo ruolo nell’organizzazione operaia di azione diretta in Emilia-Romagna è fondamentale per quanto riguarda tre grandi snodi temporali: il periodo che va dal 1908 alla settimana rossa del 1914; la guerra mondiale, momento lacerante per le leghe e le organizzazioni della regione; gli anni del dopo­ guerra e il biennio rosso (Antonioli, 1990; Landi, 2012). Al di là di Borghi, altri sono i militanti anarcosindacalisti che hanno un importante ruolo in regione (e non solo) nel trentennio che andiamo a considerare, tra questi Giuseppe Sartini, Clodoveo Bonazzi, Giovanni Lenzi, Guglielmo Guberti, Sigismondo Campagnoli, Attilio Sassi (Antonioli et al, 2003; Marabini et al 2008). Costoro sono davvero lavoratori tra i lavoratori, rappresentano cioè una moltitudine di operai di idee libertarie attiva nelle lotte sociali in regione, spesso all’interno di leghe a loro volte afferenti a Camere del Lavoro. Di seguito mi concentro sulla storia degli istituti camerali a Bologna, met­tendo in evidenza il ruolo che vi ha giocato il sindacalismo rivoluzionario e anarchico.

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Nota dell’Archivio
-Come riportato nell’opuscolo, “Il saggio è tratto dal volume curato da Carlo De Maria, Le camere del Lavoro in Emilia-Romagna: ieri e domani, Bologna, 2013”

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Torza Federico, “Il sindacalismo rivoluzionario di Armando Borghi”

Università degli studi di Milano, Facoltà di Scienze Politiche, 2009/2010, 85 p.

Introduzione
Il fenomeno del sindacalismo rivoluzionario di matrice anarchica in Italia, poco studiato e ritenuto da molti una parentesi storicamente marginale, ebbe nell’Unione Sindacale Italiana e nella figura di Armando Borghi la sua espressione più significativa. Per capire l’U.S.I. e Borghi è necessario delineare il contesto storico, economico e sociale nel quale si sviluppò questa esperienza e, ancora prima, il quadro teorico che portò all’incontro di anarchismo e sindacalismo. Il frastagliato percorso, che porta all’avvicinamento della dottrina libertaria alla pratica sindacalista, affonda le sue radici nella Prima Internazionale e nello scontro tra anarchici e marxisti. Il motto originario dell’Internazionale londinese “L’emancipazione dei lavoratori deve essere opera dei lavoratori stessi” sintetizza in modo efficace le due diverse visioni: per i marxisti, l’azione politica della classe operaia avrebbe dovuto essere guidata dal partito, unico attore rivoluzionario capace di muovere le masse per giungere al crollo dello stato borghese e del sistema economico capitalista; l’ala dell’Internazionale legata a Bakunin, invece, considerava questa impostazione liberticida ed auspicava ad una radicale distribuzione di ogni potere: solo in questo modo, secondo la dottrina anarchica, la classe operaia avrebbe potuto realmente essere soggetto della propria emancipazione. Com’è noto, la spaccatura tra marxisti e bakunisti portò all’espulsione di questi ultimi e alla creazione, con il Congresso di Berlino del 1922, della Federazione Internazionale degli Anarchici. La nascita del sindacalismo rivoluzionario è da ricercarsi in Francia, nell’ultimo decennio del XIX secolo. Una serie di congressi operai, da quello di Lione del 1886 a quello di Saint-Etienne del 1892, portarono alla luce una corrente sindacalista, portata avanti da esponenti legati all’anarchismo come Pelloutier, Pouget e Delesalle, che criticava fortemente l’impostazione rivendicazionista del sindacato, considerato invece come struttura rivoluzionaria. Secondo questa visione, sindacalista e operaista, solo il sindacato avrebbe portato all’emancipazione di classe, tramite un percorso rivoluzionario in cui il proletariato potesse davvero essere soggetto e non oggetto del cambiamento. In tale contesto ideologico-politico, si colloca la figura di Armando Borghi, noto agitatore e sindacalista anarchico italiano. La sua figura non può essere analizzata senza fare riferimento all’U.S.I. e, biunivocamente, non si può studiare l’U.S.I. senza approfondire la sua influenza e ciò che Borghi rappresentò per il sindacato; tuttavia, come osserva Antonioli, Borghi non è l’USI e l’USI non può sintetizzarsi con la vicenda umana e politica del suo segretario storico. In questa analisi cercherò di presentare la vicenda dell’anarchico di Castelbolognese e dell’Unione Sindacale Italiana dal 1900 fino all’espatrio e al conseguente esilio del 1922, cercando di contestualizzare il fenomeno nella crisi dello stato liberale in Italia, analizzando i rapporti della galassia anarchica con quella socialista e comunista, dei contrasti con il bolscevismo e l’avversione verso il modello della “dittatura del proletariato”. Verrà sottolineata con particolare attenzione la natura “ibrida” del personaggio Borghi, leader carismatico, provvisto di ottima oratoria e di un buon senso pratico; anarchico ma fortemente criticato da molti compagni libertari (e dall’amico Malatesta, in primis); sindacalista atipico, dotato di una visione politico- rivoluzionaria di ampio respiro; organizzatore e anima politico- ideologica dell’USI durante tutto il suo segretariato. In ultima analisi, proporrò un punto di vista diverso rispetto a quegli storici che, come già espresso in precedenza, giudicano non essenziale l’esperienza anarchica e sindacalista rivoluzionaria nell’Italia pre-fascista: l’U.S.I., con Borghi segretario, riuscì a presentare nel paese un metodo nuovo di fare sindacalismo, partecipò alla diffusione in Italia dell’ “azione diretta” da parte della classe operaia, collaborò sul piano internazionale con sindacalisti dei principali paesi europei, fu prima sostenitore e poi contestatore – dopo il viaggio in Russia – del bolscevismo sovietico, contribuì a fare uscire (anche se parzialmente) il movimento anarchico dall’isolamento individualista di fine ‘800, conquistò – sia dal punto di vista politico che sindacale – una percentuale rilevante della classe operaia in molte regioni italiane, tra le più importanti l’Emilia-Romagna, la Toscana, la Liguria e la Puglia. Difficile risulta quindi, dal mio punto di vista, considerare l’esperienza dell’U.S.I. e la figura di Armando Borghi come marginali nel panorama politico e sindacale italiano, almeno dalla sua fondazione fino all’avvento del fascismo. Un’attenta critica sarà rivolta, in fine, a quel metodo di analisi storica – emerso con chiarezza in alcuni saggi utilizzati per la stesura di questo elaborato – che ricerca le colpe degli insuccessi operai ed anarchici nei primi vent’anni del ‘900, le responsabilità della mancata unità sindacale, gli errori che contribuirono al crollo dello stato liberale e all’avvento del fascismo. A mio modesto parere, questo metodo di analisi inficia anche valide ricostruzioni; sarebbe forse più efficace un metodo che analizzi le relazioni tra le diverse parti (sindacati, partiti e movimenti), i diversi metodi e le differenti visioni politiche, i diversi approcci alle masse operaie, senza omettere – cosa fondamentale – il contesto politico e dottrinario. Un criterio di questo tipo sarebbe forse più utile ai fini di una analisi storica depurata, per quanto possibile, da ogni dogmatismo ideologico.

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Toninello Alberto, “Sindacalismo rivoluzionario, anarco-sindacalismo, anarchismo. Marxismo e anarchismo a confronto sul terreno dei fatti”

Edito da La Rivolta, Ragusa, Maggio 1978, 85 p.

Punto di partenza e filo conduttore di questo lavoro era l’analisi dei rapporti tra marxismo e anarchismo così come si sono confi­gurati sin dalle origini del movimento operaio e si sono svilup­pati lungo l’intero arco della storia. Rispetto a questo problema abbiamo ritenuto che il sindacalismo rivoluzionario presentasse particolari motivi di interesse, come fenomeno che si colloca a metà strada tra marxismo ed anarchismo. A partire dagli anni ’60, le lotte studentesche e operaie hanno riproposto questo incontro che ha portato, nel campo marxista, ad un rifiuto definitivo dello stalinismo e ad un ripensamento sullo stesso leninismo con la proposta di un Marx libertario. Molti hanno voluto vedere in questo un superamento dell’anarchismo tradizionale verso una nuova teoria « marxista libertaria ». Nei confronti di questa posi­zione noi abbiamo voluto rivalutare l’anarchismo. Un anarchismo, naturalmente, che abbiamo preteso « reinterpretare » rispetto all’esperienza pratica contemporanea, cui i problemi trattati in questo lavoro e gli interessi generali ad essi connessi sono strettamente legati, in larga misura nuovo rispetto alla tradizione, anche se recupera gli elementi essenziali dell’anarchismo storico.

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Sacchi Marco, “Il sindacalismo rivoluzionario in Francia, Italia, Spagna e USA”

Autoprodotto, Milano, Gennaio 2012, 75 p.

Premessa
La crescente integrazione delle organizzazioni politiche e sindacali del movimento operaio tagliava fuori, in misura diversa da paese a paese, quote più o meno consistenti (per quanto eterogenee) di lavoratori: un esteso comparto dell’artigianato francese minacciato dal procedere dell’industrializzazione, fette consistenti di lavoro dequalificato e marginale, britannico e nordamericano, stuoli di contadini senza terra. Un insieme, come si vede, di frazioni di classe accomunanti dalla perifericità. Il mentore del sindacalismo rivoluzionario fu G. Sorel che aggiunse profondità e spessore al progetto sindacalista, ma intrattenne rapporti sporadici col movimento sindacalista e non vi ebbe mai un’influenza reale, anche perché la sua avversione assoluta per la società borghese lo rendeva insofferente e ostile verso le conquiste e i miglioramenti parziali perseguiti invece dalle organizzazioni operaie. Il sindacalismo rivoluzionario fece leva sulla profonda, radicale insoddisfazione nei confronti dei tratti fondamentali della società borghese, in primo luogo verso la democrazia politica. A essa era imputata il suo inconfessabile conservatorismo, lo pseudo egualitarismo e la narcotizzazione delle masse dovuto all’emergere di una casta professionalizzata di professionisti della politica, cresciuta con il sistema parlamentare e le sue compagini partitiche. Ciò che i sindacalisti rivoluzionari mettevano soprattutto in discussione era la capacità di queste istituzioni a rappresentare i reali bisogni dei lavoratori, alle quali era contrapposta l’azione diretta, cioè il rifiuto di qualsiasi forma di delega e l’impegno individuale nella trasformazione della società. All’artificialità dei rapporti politici, opponevano la naturalità dei rapporti economici, al cittadino il produttore, al partito la classe operaia organizzata nel sindacato. Lungi però dall’adagiarsi o rianimare i sindacati esistenti, i sindacalisti rivoluzionari si dedicarono all’edificazione di organizzazioni operaie alternative a quelle esistenti. L’esautorazione della politica a vantaggio dei rapporti produttivi rendeva, ai loro occhi, superflua l’elaborazione di una linea strategica. A essa era contrapposta la capacità di individuare il momento più propizio all’attuazione dello sciopero generale, bloccando così l’intera attività produttiva fino al collasso definitivo del capitalismo. Poiché il lavoro era considerato l’unico elemento vitale dell’ordinamento sociale e lo Stato borghese non sarebbe stato in grado di fronteggiare una paralisi totale del sistema produttivo, lo sciopero generale s’identificava con la rivoluzione. L’obiettivo primario del movimento era quindi l’abbattimento della società capitalista e la sua sostituzione con la società dei produttori ma erano avversari acerrimi del socialismo della Seconda Internazionale e delle organizzazioni sindacali legalitarie. Il sindacalismo rivoluzionario non vedeva il problema del centralismo della classe: le lotte locali, di azienda o di categoria andavano bene, purché ne fosse tolto il veleno della collaborazione di classe per arrivare al rovesciamento del potere borghese e all’espropriazione dei padroni. Questa visione dello sciopero generale espropriatore riduceva alla fine la conquista della società alla conquista della fabbrica. Le divergenze teoriche tra quello che era definito “marxismo ortodosso” e sindacalismo rivoluzionario era profondo. I teorici del sindacalismo rivoluzionario respingevano l’impianto teorico della Seconda Internazionale che era identificato in Kautskj. Essi (e sotto certi aspetti non avevano torto) lo consideravano l’ideologo di un determinismo storico, che teoricamente portava al fatalismo e nella pratica al riformismo. Quello che gli intellettuali sindacalisti rivoluzionari respingevano, non era tanto il marxismo in sé, quanto contro l’evoluzionismo automatico della socialdemocrazia quella strana miscela di Marx e Darwin, Spencer e degli altri pensatori positivisti, che era spacciato per marxismo. A dire il vero nell’Occidente, la prima generazione di intellettuali che dichiarò di utilizzare l’analisi marxista, in massima era nata attorno al 1890, fusero in maniera naturale Marx con le influenze culturali prevalenti all’epoca. Per molti di loro il marxismo, per quanto teoria nuova e originale, apparteneva alla sfera generale del pensiero progressista, sebbene politicamente più radicale e connesso specificamente al proletariato.

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Lehning Arthur, “L’anarcosindacalismo. Scritti scelti”

Edito da BFS, Pisa, 1994, 96 p.

Premessa di Maurizio Antonioli
Lo scritto che qui riproponiamo è il testo di una conferenza tenuta da Arthur Lehning il 17 novembre 1926 all’ assemblea costitutiva della Gemengd Syndicalistische Vereeniging (As­ sociazione sindacalista mista) affiliata al Nederlands Syndicalistisch Vakverbond (NSV). Il NSV era sorto il 24 giugno 1923, quando la minoranza anarcosindacalista contraria all’adesione all’Internazionale dei sindacati rossi e favorevole invece all’AIT berlinese, era uscita dal Nationaal Arbeids Secretariaat (NAS). Il NAS era stata la prima centrale sindacale olandese di ispirazione classista, fondata nel 1893 sotto l’impulso di Chri­stiaan Cornelissen. Il NAS, che nel 1894 contava quasi 16.000 iscritti, funzionava inizialmente da segretariato di tutte le organizzazioni, sia sindacali che politiche, compresi il Socialdemocratische Bond (Lega socialdemocratica) di F. Domela Nieuwenhuis, spostatosi poi su posizioni libertarie e, dal 1894, il Sociaaldemocratische Arbeiders Partij in Nederland (SDAF), costituitosi sul modello della socialdemocrazia tedesca. L’evoluzione del NAS verso posizioni sindacaliste rivoluzionarie affini a quelle della CGT francese provocava il contra­sto con i sindacati socialisti e il SDAF. Dopo il fallimento dei grandi scioperi del 1903, che avevano ridotto il NAS a poche migliaia di iscritti, il dissidio con i socialdemocratici si acuiva. Nel 1906 i sindacati legati al SDAF abbandonavano il NAS e costituivano una nuova centrale, Nederlandsch Verbondan Vakvereenigingen (NVV). All’atto della sua fondazione il NVV sfiorava i 19.000 iscritti, mentre il NAS in grave crisi superava di poco i 3.000. Prima della guerra il NAS, che non raggiungeva le 10.000 unità contro le oltre 80.000 del NVV, era tra i promotori del Congresso sindacalista di Londra, che dava vita, nonostante l’opposizione dei francesi de « la Vie ouvrière» (Monatte e Rosmer in primo luogo) a una effimera internazionale sinda­calista rivoluzionaria. La guerra e la rivoluzione russa ingrossavano le file del NAS, in cui confluivano numerosi elementi della sinistra socia­lista, che già prima del conflitto si erano staccati dal SDAF per dar vita al Socialdemocratische Partij (SDP), futuro partito comunista. Nel 1920, infatti, il NAS superava i 50.000 iscritti, ma continuava a costituire una minoranza dei lavoratori organizzati. Il NVV raggiungeva quasi i 250.000 soci, mentre i sindacati cattolici (NKV) oltrepassavano i 140.000 e quelli protestanti (CNV) i 66.000. L’orientarsi di alcuni gruppi anarchici, come il De Toekomst (Il Futuro), verso il comunismo sovietico e l’entusiasmo susci­tato negli ambienti rivoluzionari dalla rivoluzione russa dava vita, all’ interno del NAS, a due correnti contrapposte: l’una, maggioritaria, favorevole al Profintern; l’altra, minoritaria, contraria. Al congresso di Berlino della fine del 1922, in cui nasceva l’AIT, la delegazione del NAS si opponeva al distacco dall’ Internazionale dei sindacati rossi. Il contrasto tra le due componenti, come già detto, portava nel 1923 alla scissione. Il NAS, già in crisi, scendeva nel 1924 a meno di 14.000 soci, mentre la nuova organizzazione non raggiungeva gli 8.000. E se il NAS, negli anni trenta, aveva una debole ripresa, la NSV subiva una graduale ma inarrestabile emorragia di iscritti. Nel 1940 quest’ultima era ridotta a 1.600 soci circa e il NAS a poco più di 10.000, mentre il NVV superava quota 300.000, oltrepassando di poco quanto riuscivano a totalizzare insieme i sindacati cattolici e protestanti. M. A.

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Note dell’Archivio
-Volume curato da Maurizio Antonioli
-Traduzioni dei titoli Anarchosyndicalisme Gemengd Syndicalistische Vereeniging Secretariaat, James Cookstraat 28a, Amsterdam, 1927; Du Syndicalisme révolutionnaire à l’Anarchosyndicalisme. La naissance de l’Association Internationale des Travailleurs à Berlin.

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Landi Gianpiero, “Armando Borghi. Protagonista e critico del sindacalismo anarchico”

Edito da Edizioni Bruno Alpini, 6 Aprile 2012, 78 p.

Pochi personaggi hanno inciso come Armando Borghi sulla storia – in Italia e non solo – dell’anarchismo e del sindacalismo anarchico, eppure ancora oggi il giudizio sul ruolo da lui esercitato è ben lungi dall’essere unanime. Le sue scelte sono tuttora oggetto di dibattito e la sua figura resta controversa. La vita e la attività politica di Borghi hanno attraversato quasi interamente i primi sette decenni del Novecento, interrompendosi solo con la morte nel 1968, alla vigilia della fiammata rivoluzionario del maggio parigino. Gli studi le ricerche e le interpretazioni su di lui non mancano, resta però la sensazione che ci sia ancora da scavare — perlomeno su alcune fasi della sua vita — e da riflettere. Certamente non ci possiamo accontentare degli scritti autobiografici che ci ha lasciato lo stesso Borghi, a partire dal più noto e più importante di essi, Mezzo secolo di anarchia (1898-1945), peraltro molto utile e di lettura godibilissima. Ma neanche possiamo ritenere che le ricerche degli storici che si sono occupati della sua figura, con contributi peraltro di alterno valore e affiancando testi storiografici in senso proprio a interventi di carattere più divulgativo, abbiano portato alla luce tutto quello che c’era nascosto e abbiano pronunciato una parola definitiva sui vari temi sul tappeto. Qualcuno potrebbe pensare che, nel panorama ancora piuttosto carente degli studi sull’anarchismo italiano (nonostante i progressi compiuti soprattutto nell’arco degli ultimi tre decenni), Borghi abbia avuto un trattamento privilegiato da parte sia degli storici di professione che dei militanti libertari. Alla sua figura sono stati dedicati ben due Convegni di studi, il primo a Bologna nel 1978 e il secondo a Castel Bolognese nel 1988. Sono state pubblicate monografie di un certo impegno da parte di Maurizio Antonioli (Armando Borghi e l’Unione Sindacale Italiana) e di Emilio Falco (Armando Borghi e gli anarchici italiani (1900-1922). Vittorio Emiliani gli ha dedicato un profilo nel suo libro Gli anarchici. Giampietro “Nico” Berti lo ha inserito, con un intero capitolo, nella sua monumentale opera su II pensiero anarchico promuovendolo così implicitamente al rango di teorico. Esistono numerosi altri saggi, articoli, interventi, schede in dizionari biografici dedicati specificamente a Borghi. Senza dimenticare che riferimenti più o meno ampi all’attività da lui svolta si trovano in molti lavori sulla storia del movimento operaio e socialista italiano e internazionale. A Castel Bolognese, suo paese natale, esiste fin dal 1973 una Biblioteca Libertaria “Armando Borghi” che ha contribuito a mantenere vivo l’interesse nei suoi confronti e ha promosso iniziative e ricerche. La Biblioteca conserva tra i propri fondi documentari un “Archivio Armando Borghi”, creato nel 1982 e poi sempre arricchito, allo scopo di salvaguardare dalla dispersione la documentazione che lo riguarda (libri e opuscoli, giornali, manoscritti, lettere, articoli, ritagli, fotografie, registrazioni foniche). L’Archivio ormai da tempo costituisce una raccolta di fonti di primaria importanza per ricerche sul personaggio e sul contesto in cui si è svolta la sua attività politica e sindacale. Merita di essere ricordato che nel centro storico di Castel Bolognese esistono anche una Piazza Armando Borghi e un Giardino Armando Borghi, quest’ultimo con un monumento al centro — ideato e realizzato dallo scultore Angelo Biancini — che riporta la dedica, per la verità anodina e sibillina “Ad Armando Borghi un galantuomo che ha onorato l’Italia”. Si tratta in questo caso di iniziative istituzionali, dovute alla sensibilità e alla volontà di amministratori comunali e privati cittadini, che gli anarchici locali non hanno sollecitato ma hanno accolto con favore. Iniziative che dimostrano, in ogni caso, come la figura di Borghi trovi apprezzamento anche in ambiti molto più vasti, e talvolta idealmente e politicamente distanti, rispetto al mondo libertario. Eppure, anche di fronte a una tale messe di iniziative e di studi, non si può non notare che non esiste a tutt’oggi una completa biografìa scientifica di Borghi, come quella ormai classica di Pier Carlo Masini su Carlo Cafiero o le monografie che ci ha dato più recentemente Giampietro Berti su Francesco Saverio Merlino e su Errico Malatesta n. Questo saggio non pretende certo di essere esaustivo e neanche di dire una parola definitiva sui molti nodi problematici tuttora irrisolti. Più modestamente, esso si propone di ricostruire le concezioni teoriche e fattività politica di Borghi — lungo l’intero arco della sua esistenza — da un’ottica particolare ma in certo modo privilegiata, vale a dire quella del suo rapporto con il movimento operaio e del suo atteggiamento nei confronti del sindacalismo, così come è venuto configurandosi nelle varie fasi della sua esistenza.. Schematizzando notevolmente si può suddividere la biografia politica di Borghi in almeno quattro grandi periodi. Il primo inizia nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e si conclude nel 1907. Sono gli anni della prima formazione e dell’inizio di un’attività politica sempre più incessante e frenetica, che lo mette presto in evidenza e attira su di lui le prime persecuzioni poliziesche, che continueranno negli anni successivi fino a renderlo uno dei “sovversivi” più colpiti dell’Italia giolittiana. Sul piano teorico in quegli anni Borghi, pur sensibile ai temi della propaganda di Malatesta a favore dell’organizzazione, si avvicina piuttosto alle posizioni prevalenti negli ambienti comunisti anarchici antiorganizzatori, mostrandosi critico sia degli individualisti puri (di cui condanna le estremizzazioni amoraliste e borghesi), sia nei confronti di quegli anarchici organizzatori che portavano alle estreme conseguenze il metodo organizzativo, sfociando a suo avviso in forme dogmatiche e autoritarie. Lo attestano in particolare gli articoli pubblicati in qualità di redattore del settimanale “L’Aurora” di Ravenna (1906-1907) e l’opuscolo — di fondamentale importanza per stabilire le posizioni politiche di Borghi in quel periodo — Il nostro e l’altrui individualismo (1907). Per tutta questa fase Borghi manifesta un limitato interesse per il sindacalismo, sia da un punto di vista teorico che pratico, e non partecipa direttamente alla vita delle organizzazioni operaie. Il secondo periodo va dal 1908 all’avvento del fascismo, ed è contrassegnato da un avvicinamento al sindacalismo rivoluzionario e dall’impegno a tempo pieno nelle organizzazioni sindacali. Sul piano storico rappresenta sicuramente la fase più rilevante dell’attività di Borghi, per il ruolo di primo piano da lui esercitato all’interno delle lotte sociali e per la sua influenza nelle dinamiche politiche generali dell’epoca. Per anni Borghi dedica la maggior parte delle proprie energie all’organizzazione operaia, vista come strumento principale, anche se non esclusivo, per creare la coscienza di classe, giungere alla rivoluzione sociale e instaurare il comunismo libertario. In particolare Borghi, pur non essendo presente al Congresso di fondazione a Modena nel novembre 1912, si impegna a favore dell’Unione Sindacale Italiana e ne regge le sorti, in qualità di Segretario generale, per un lungo periodo che va dal settembre 1914 fino al 1921. Per l’USI il periodo che va dalla sua fondazione all’avvento del fascismo rappresenta – fuori di ogni dubbio e senza possibilità di smentita – il più importante della propria storia, e quella fase è indissolubilmente legata alla figura di Armando Borghi. Nessun altro potrebbe realmente pretendere di avere esercitato un ruolo altrettanto importante all’interno dell’USI nel suo primo decennio di vita. E’ un periodo di attività frenetica e di eventi di enorme portata che si succedono con grande velocità. Lo si può suddividere a sua volta in tre sottoperiodi: a) dal 1908 alla settimana rossa; b) la battaglia contro gli interventisti e la Prima guerra mondiale; c) il primo dopoguerra fino al fascismo. Il terzo periodo è quello dell’emigrazione antifascista, prima brevemente in Germania e Francia, e poi definitivamente negli Stati Uniti. L’affermarsi della reazione fascista in Italia costringe Borghi – e la sua compagna Virgilia d’Andrea – a trovare rifugio all’estero. Segue, a distanza di qualche tempo, la messa fuori legge dell’USI. I venti anni circa trascorsi in America si rivelano determinanti per una nuova evoluzione di Borghi, che rivisita criticamente la precedente esperienza sindacalista e se ne allontana definitivamente, per avvicinarsi alle posizioni antiorganizzatrici molto diffuse tra gli anarchici italo- americani, efficacemente espresse in quegli anni dalle colonne del periodico “L’Adunata dei Refrattari”. Sotto un certo profilo questa evoluzione può essere vista come un ritorno alle origini, alla matrice dell’anarchismo antiorganizzatore degli anni di apprendistato politico. Il quarto e ultimo periodo è rappresentato dal secondo dopoguerra, col ritorno di Borghi in Italia e l’assunzione da parte sua, dopo la morte di Errico Malatesta, Luigi Fabbri e Camillo Berneri, di un ruolo di assoluta preminenza all’interno dell’anarchismo italiano. Con l’autorità morale derivante dal suo passato e facendo leva sulle indubbie sue notevoli capacità di oratore, giornalista e scrittore, Borghi esercita un influsso determinante sul movimento anarchico di lingua italiana degli anni che vanno dal 1945 alla sua morte, contribuendo in maniera notevole a farlo evolvere e sviluppare secondo linee congrue con le posizioni teoriche da lui maturate durante l’esilio. Particolarmente rilevante — e ancora oggi molto discussa — è la sua posizione nei confronti dell’USI e dell’attività sindacale in genere da parte degli anarchici, in quegli anni per molti versi decisivi per le sorti successive del movimento libertario. Dopo la fine della II guerra mondiale, Borghi si schiera infatti contro ogni tentativo di ridare vita all’USI, ritenendo l’esperienza sindacalista criticabile dal punto di vista teorico e ormai anacronistica. La idiosincrasia da lui maturata nei confronti del sindacalismo lo spinge a criticare e ad ostacolare addirittura i tentativi di alcuni compagni di creare una corrente sindacale libertaria all’interno della C G IL . Riguardo l’organizzazione anarchica specifica, si batte contro ogni tentativo di dare alla Federazione Anarchica Italiana, costituitasi al Congresso di Carrara del 1945, una struttura organizzativa non puramente formale. Sul piano teorico sostiene posizioni puriste, e insorge contro ogni deviazionismo vero e presunto. Dal 1953 dirige “Umanità Nova”, l’organo settimanale della FAI in cui si identifica all’epoca pressoché tutto l’anarchismo italiano, e lo fa lasciando una forte impronta personale nel giornale e nel movimento. Lascia l’incarico solo nel 1965, pochi anni prima della morte, a seguito del Congresso di Carrara in cui prevale la corrente favorevole a una svolta accentuatamente organizzatrice della FAI, da lui sempre osteggiata. Si tratta per lui di una sconfitta, giunta proprio al termine della sua esistenza, e poco lo consola il fatto di continuare a rappresentare un punto di riferimento ideale per i compagni che, condividendo le sue critiche al nuovo corso, lasciano polemicamente la FAI e fondano i Gruppi di Iniziativa Anarchica (GIÀ). Le concezioni e il comportamento di Borghi nel periodo successivo alla fine della II guerra mondiale hanno suscitato spesso critiche anche aspre in settori del movimento anarchico, e anche dopo la sua scomparsa sono stati oggetto di contrastanti valutazioni. E’ questo sicuramente il periodo più discusso e discutibile della sua pluridecennale attività, intorno al quale fino a tempi relativamente recenti si sono accese vivaci e appassionate polemiche. Se questo è il quadro complessivo, per ora piuttosto schematizzato, dell’evoluzione politica di Borghi — che è bene sottolinearlo, aldilà di ogni oscillazione rimase sempre un anarchico convinto e si mosse sempre all’interno del solco dell’anarchismo, pagando sul piano personale dei prezzi non indifferenti per questa sua ostinata coerenza — problemi non indifferenti sorgono allorché si passa a ricostruire e a mettere a fuoco maggiormente i diversi periodi, e a cercare di interpretare le motivazioni e le conseguenze dei vari passaggi. Ancor più difficoltoso si presenta poi ogni tentativo di interpretazione complessiva del personaggio. A differenza di altre figure di rilievo dell’anarchismo, l’evoluzione di Borghi si è mossa in modi spesso non lineari, ed è comunque difficilmente riconducibile a linee di sviluppo univoche e facilmente individuabili. In alcune delle fasi salienti della vita di Borghi si può assistere a un passaggio talora rapido — e fino a poco tempo prima imprevedibile – da determinate posizioni politiche ad altre anche piuttosto distanti, e non è sempre agevole rendere conto delle reali motivazioni. D’altra parte — come già si è accennato – non è possibile limitarsi ad accettare le versioni fornite dallo stesso Borghi nei propri libri, che restano comunque di utilissima consultazione. Se è vero che gli scritti autobiografici, per quanto importanti, devono sempre essere utilizzati con cautela dallo storico e messi a confronto con altre fonti, questo vale a maggior ragione con Borghi. Non tanto perché sia riscontrabile in lui una più spiccata tendenza alla mistificazione – accusarlo di questo sarebbe del tutto ingiusto – , quanto piuttosto per una certa sua approssimazione e trascuratezza (riscontrabile, ad esempio, nei frequenti errori a proposito delle date) e soprattutto per una sua spiccata tendenza a rileggere il proprio passato come un tutto unitario, nel corso del quale si sarebbero prodotti cambiamenti minimi. Già nel 1930 del resto, presentando una propria raccolta di scritti, egli stesso affermava: “Il lettore confronti le prime colle ultime pagine e […] se vi trova eguaglianza, forse ripetizione, di pensiero la metta nel conto del fatto che io non progredii che in un tempo in mia vita: quando mi occupai di politica la prima volta, adolescente e divenni anarchico”.

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