Addio Lugano bella. Antologia della canzone anarchica in Italia

Edito da I dischi del Sole, Modena, 1996

Non si riceve, non si comprende l’autenticità storica ed umana della protesta anarchica se non la si restituisce all’ambiente sociale di cui essa uscì: l’Italia regia e borghese che toccò il suo apogeo con il regno di Umberto I, finito col secolo, sotto i colpi di Gaetano Bresci (dopo, nel Novecento, imperialismo aiutando, altre tensioni, altre proteste). I processi contro i “malfattori”, il domicilio coatto, gli esigli che portano i nuovi fuoriusciti a battere le orme dei grandi proscritti del Risorgimento: ecco i temi ricorrenti di queste canzoni. Sono i movimenti della lunga “guerra senza frontiere” fra gli anarchici e lo Stato italiano (o lo Stato semplicemente) che ci accende con l’esempio della Comune e si conclude provvisoriamente a Monza. La ferocia o la fierezza – a seconda dei punti di vista – con cui quella lotta venne condotta spiegando anche l’enfasi del canto e la veemenza delle parole. Ma sotto le parole c’è qui, più che in altri canzonieri di polemica sociale, un contenuto politico-programmatico, ci stanno delle idee. Questione Sociale, Internazionale, Libero Pensiero, Libero Amore, Rivoluzione, Anarchia, tutte gridate con la maiuscola, come nei manifesti e sulle testate dei giornali. La poesia e la musica addolciscono talvolta la spavalderia delle sfide. Gli anarchici vivono anche in queste canzoni, drammaticamente e nobilmente, le loro contraddizioni: occhi sognanti barricate dietro le sbarre di una prigione, pessimismo della denuncia e ottimismo della profezia, rabbia e amore, violenza e solidarietà. Ma le contraddizioni sono confuse e superate in quella luce libertaria che illumina un mondo ancora cerchiato dal comando e dalla servitù. In questa luce gli anarchici restano nostri contemporanei. Intrattabili, inassimilabili, refrattari salvano con il loro “no, noi non ci siamo”, con la loro obiezione di coscienza puntata contro il Potere, l’ultima spiaggia: una spiaggia che, per via della consunzione di tanti miti, potrebbe anche venir buona un giorno. “Nostra patria è il mondo intero/nostra legge è la libertà/ed un pensiero/ribelle in cor ci sta.”
Pier Carlo Masini

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Nota dell’Archivio
-Le tracce audio si trovano qui

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(a cura di) Zazzara Gilda, “Tra luoghi e mestieri Spazi e culture del lavoro nell’Italia del Novecento”

Edito da Edizioni Ca’ Foscari, Venezia, 2013, 165 p.

Lavoratrici precarie dell’industria bolognese, rammendatrici vicentine tra fabbrica e lavoro a domicilio, proletari ‘centomestieri’ delle borgate romane, muratori di Livorno, generazioni di pescatori di Torre del Greco. Sono i protagonisti di cinque saggi di storia del lavoro che affrontano il rapporto tra culture di mestiere, autorappresentazioni individuali e collettive, e dimensione dello spazio: la città, il paese, il quartiere, il porto, la casa.

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Deleuze Gilles, “Cinema”

Edito da Mimesis, Milano-Udine, 2010, 48 p.

Il cinema è un linguaggio fondamentale del nostro tempo. Gilles Deleuze scopre e scandisce la bellezza del suo alfabeto. Il regista è un pensatore che pensa attraverso immagini-movimento e immagini-tempo. Uno dei più grandi filosofi del Novecento mette in gioco la riflessione, le passioni dello spettacolo, il loro significato estetico profondo che sa essere e individuale e collettivo. Gli universali dell’estetica vengono riletti nella grande narrazione cinematografica. Il tempo e i suoi momenti si rivelano in immagini affezione, immagini azione e immagini pulsione. La guida affascinante e autorevole del grande filosofo ci sta seduta accanto nel buio della sala e ci fa vedere di più.                    

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(a cura di) Zanolli-Misèfari Pia, “Utopia? No! Scritti scelti di Bruno Misèfari”

Edito a Roma, [1975], 139 p.

Nota Introduttiva
La topografia stessa del paese ove Bruno Misèfari nacque, è il simbolo della secolare oppressione dei pochi sui più. In terra calabra, all’estrema punta dello stivale, tra mon­ti spazzati dai venti dell’Jonio, Palizzi Superiore ti si para innanzi in una forra sopra uno spuntone di roccia bianca. In cima domina, potente e prepotente, il castello feudale; in basso si ammucchiano, piccole povere e desolate, le case dei contadini, di quelli che da sempre hanno subito la violen­za prima del signore, poi dello stato dei signori. Bruno Misèfari, ancora ragazzo, studente a Reggio Ca­labria, cominciò a ribellarsi contro l’ingiustizia di quel mon­do, costruito secondo quell’immagine topografica che porta­va impressa nella memoria: sopra, chi comanda e non lavora, sotto, chi subisce e lavora. E, ancora ragazzo. Bruno Misèfari iniziò a sognare un mondo in cui quella gerarchia fosse sovvertita prima, distrut­ta poi. Ma, a quale forza ideale, a quale principio del pensiero ricorrere per unire gli oppressi, per trasformare il loro mil­lenario, sordo spirito di ribellione in una forza organizzata compatta, in una volontà collettiva cosciente della necessità di abbattere quella società e quello stato per fondare una so­cietà migliore e più giusta? Bruno Misèfari poteva scegliere tra socialismo marxi­stico e socialismo libertario. Apprezzava del socialismo marxistico l’analisi esatta dell’antagonismo fra le classi, la spiegazione chiara del mec­canismo secondo il quale i più lavorano e producono, ma solo pochi s’appropriano del frutto del lavoro dei più. Ma, già adolescente, mostrava perplessità circa i mezzi proposti dal­la diagnosi marxistico per fronteggiare, una volta abbattuto questo stato e questa società, il pericolo di un ritorno o di una rivincita dell’avversario di classe: lo Stato diretto dal proletariato, i cui strumenti repressivi si estinguono man ma­no che avanza e si consolida il modo di produzione sociali­stico, e gli uomini si abituano all’autogoverno. Questo stato diretto dal proletariato, o questa dittatu­ra del proletariato, poteva per Bruno Misèfari costituire la premessa per la ricostruzione del dominio dei pochi sui più. Inclinò, perciò, per il socialismo libertario. Questa scelta non significò rottura totale o rifiuto del socialismo marxistico. Con i socialisti marxisti Bruno Misèfari continuò a coltivare rapporti di amicizia sul piano personale, con i so­cialisti marxisti continuò a lottare per obiettivi comuni e contro comuni nemici. Prese soltanto una distanza ideale da­ gli approdi postrivoluzionari che il socialismo marxistico preconizzava. Poi venne quella che la retorica ufficiale chiamò e chia­ma grande guerra. Per Bruno Misèfari fu una riprova, una dimostrazione, una conferma del modo in cui la vile prepo­tenza dei pochi si consumasse a danno dei più, col ricorso ad una campagna di persuasione occulta, di lavaggio dei cer­velli, condotta da giornalisti prezzolati sulla base di sfacciate menzogne, di falsità clamorose, di incongruenze scoperte. Anche Bruno Misèfari fu chiamato alle armi. Giovane coscritto fu arruolato in una compagnia di fanteria di stan­za in quel di Benevento, in attesa di essere inviato al fronte. Per Bruno Misèfari, come per tanti altri giovani educati alla scuola del socialismo marxistico rivoluzionario e del sociali­smo libertario rivoluzionario, sottoporsi alla disciplina della caserma, alla gerarchia dell’esercito, era impossibile. Si poteva accettare o non accettare quella guerra; al li­mite, si poteva ritenerla anche giusta, come fecero pochi so­cialisti; ma assistere quotidianamente ai piccoli soprusi, alle meschine prepotenze dei vari colonnelli-medici, di coloro che si arrogavano il diritto di farsi chiamare superiori, contro po­veri soldati-contadini, inermi deboli indifesi, faceva insorgere la coscienza e sorgere irresistibile l’impulso alla rivolta contro quella istituzione, l’esercito, fatto ad immagine e somiglianza dell’istituzione che l’aveva prodotta: la società, lo stato. Certamente la diserzione non fu una scelta semplice, comportò lacerazioni interne, ma Bruno Misèfari ebbe il co­raggio di prenderla: il 14 maggi 1916 diventò un disertore: scelse non di fare la guerra degli stati, ma di combattere la guerra a fianco degli oppressi di tutto il mondo contro il lo­ro nemico in Italia e fuori dell’Italia. In anni oscuri, quando alcuni grossi nomi, alla prova dei fatti, diedero l’impressione che il socialismo fosse ridotto ad un vano nome, oscuri disertori, anarchici e socialisti, tennero alta la bandiera dell’internazionalismo. E trovarono subito solidarietà e appoggio nella molti­tudine che odiava la guerra: un contadino di Benevento aiutò Bruno Misèfari a svestire la divisa militare, a indossare panni civili e a trovare rifugio nei casolari nascosti tra i boschi del Monte Taburno; la solidarietà attiva e militante di altri sov­versivi gli consentì di giungere fino a Zurigo, in terra elve­tica. A Zurigo hanno trovato un asilo, a mala pena tollerato i superstiti internazionalisti di tutto il mondo. Vi sono uomini destinati a mutare il corso della storia; c’è anche un disertore come lui, Francesco Misiano: un ferroviere licen­ziato, perchè ha fatto il suo dovere di lavoratore in un episo­dio della lotta di classe, scioperando durante la Settimana Rossa nel giugno 1914; un dirigente socialista, che ha fatto il suo dovere di dirigente, spingendo il proletariato torinese a manifestare, nel maggio 1915, contro il crimine della guer­ra; un rivoluzionario, che ha fatto il suo dovere di rivoluzionario, rifiutando la guerra. I due disertori s’incontrano, vecchi ricordi ritornano alla memoria; sono entrambi calabresi, hanno un certo perio­do frequentato le stesse scuole, hanno amici comuni. Fran­cesco Misiano si rende partecipe del bisogno del suo amico di ritrovarsi con giovani delle stesse idee, ma di essere ammes­so anche in una famiglia che lo aiuti a ricostruire quella tra­ ma di affetti intimi, che sono tanta sostanza di un’esisten­za giovanile. Bruno Misèfari viene introdotto perciò in una famiglia anarchica di origine veneta, ma da molti anni residente a Zurigo, la famiglia Recati-Zanolli. Frequentandola, egli rafforza la sua fede nell’anarchia, perchè quella piccola comunità familiare traduce nella vita di tutti i giorni e fa diventare concreto e reale un ideale che altri definiscono astrazione e utopia. Ada Negri, che nel 1913 era ancora la poetessa dei po­veri, e non aveva, rosa dall’ambizione, imboccato quella via che la porterà a quel misero declino, fatto di invocazioni e di suppliche al capo del fascismo, aveva anch’essa frequentato quella comunità e ne aveva disegnato un quadro indimenti­cabile. Al centro di questo quadro campeggia una figura ma­terna, armonicamente fusa con le creature partorite dal suo seno, e con le altre figure femminili che da eguali collaborano con essa nella fatica quotidiana. A rifissare l’occhio su que­sto quadro, ancora oggi ne siamo conquistati ed incantati; e ci spieghiamo perchè Bruno Misèfari ne abbia sentito, imme­diato, il fascino, e proprio fra quelle creature, la prima par­torita da quella madre, abbia trovato il suo amore. A Zurigo Bruno Misèfari annodò i fili di quell’amore destato a durare vita e oltre la vita, e operò instancabilmente per guadagnare alla causa dell’anarchia e del­la rivoluzione sociale, gli operai perseguitati da tutti i paesi e i lavoratori. Come accade a coloro che tentano di migliorare la struttura sociale, si attirò l’avversione e l’odio della polizia zurighese, e fu arrestato con un’accusa, tutta inventata e tut­ta prefabbricata, di bombe e di attentati. E Bruno Misèfari, nel carcere di Zurigo, fece la prima vera esperienza di quell’internazionale poliziesca, accomunata in tutti gli angoli della terra dall’uso degli stessi espedienti e degli stessi sistemi, che sono, quanto meno, la perfidia, il mendacio, la provo­cazione. Nel 1919 il Parlamento italiano votò l’amnistia per i di­sertori e Bruno Misèfari tornò in Italia per portare il suo contributo alla rivoluzione socialista. Si pensava che l’Italia fosse un paese maturo per la ri­voluzione proletaria. Non ci sono elementi per affermare il contrario. E’ certo, però, che se il proletariato era per­corso da fremiti di rivolta, il governo 1920 (Giolitti) si era rafforzato, psicologicamente, con la cosiddetta vittoria, eco­nomicamente, con i sovrapprofitti di guerra, politicamente, conquistando alla sua causa tutti gli sbandati e gli spostati della minoranza, decisi a vivere non del loro lavoro, ma sul lavoro del proletariato. Nell’autunno 1917 si era presentata un’occasione da po­tere sfruttare per portare avanti con successo la rivoluzione del proletariato. Allora il Governo del 1918 era alle corde per i colpi ricevuti a Caporetto. Ma, solo in Russia Lenin ave­va saputo trasformare la guerra tra i popoli in guerra civile ed aveva fatto della disfatta militare la tomba della Russia zarista. In Italia, di Caporetto i socialisti rivoluzionari non avevano voluto o saputo approfittare, e, nel 1919, insieme agli studiosi dell’anarchismo, si trovavano a fronteggiare un du­plice apparato repressivo: quello legale dello Stato di classe e quello illegale formato dalle bande fasciste e parafasciste. Ed il problema non era solo di opporre violenza a violenza; c’era anche il compito difficile di reagire all’offensiva poli­tica del Governo di allora che, sotto la pressione del pro­letariato, si precipitava a fare delle concessioni da rimangiarsi a tempo opportuno. In questa difficile situazione il fronte rivoluzionario non seppe o non potè darsi gli opportuni strumenti politici, organizzativi, armati per realizzare il suo programma. Questa osservazione non ci autorizza a irridere o a stroncare – sareb­be troppo comodo! – l’attività di coloro che prodigarono tutte le loro energie per condurre alla vittoria il proletariato. Tra questi va annoverato Bruno Misefari, il quale, pur sottoposto senza tregua alla persecuzione della polizia e al­l’inquisizione della magistratura, fu sempre al suo posto accanto a quelli che lavorano e soffrono. Così lo troviamo a Taranto (ottobre 1920), per guidare la lotta degli operai metallurgici del cantiere Tosi in difesa dell’occupazione, a Napoli (ottobre 1921), per pronunciare un discorso per la salvezza di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ovunque il proletariato richiedesse la sua opera, sempre in concordia discorde con i socialisti di sinistra e i comunisti. Come tutti i rivoluzionari sinceri e coerenti pagò col carcere e col confino la sua fede in un ideale, e vide distrut­ta un’esistenza che poteva essere ricca di guadagni e succes­si professionali. Della sua attività, delle sue meditazioni al carcere e al confino, sono rimasti scritti e frammenti, che la donna della sua vita, Pia Zanolli, con amorosa cura e indi­struttibile devozione, raccoglie e ripresenta ancora una volta al pubblico. Già in massima parte riprodotti nell’Anarchico di Ca­labria e nel Diario di un disertore, questi scritti, riproposti sotto altra forma e riordinati con altri intenti, possono real­mente giovarne a quanti con fervore studiano l’anarchismo, e, forse, non a quelli soltanto.

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Terra e Libertà. Voce del Movimento Anarchico in Sicilia. Numeri unici 1946-1949

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Terra e Libertà. Voce del Movimento Anarchico in Sicilia. Numeri unici 1946-1949

Terra e libertà. Voce del movimento anarchico in Sicilia
Durata: 1 Maggio 1947
Luogo: Siracusa
Pagine: 2

Terra e libertà. Voce del movimento anarchico in Sicilia
Durata: 25 Maggio 1947
Luogo: Siracusa
Pagine: 2

Terra e libertà. Voce del movimento anarchico in Sicilia
Durata: 6 Luglio 1947
Luogo: Siracusa
Pagine: 2

La Conquista del pane. Voce del movimento anarchico in Sicilia, edito a cura del gruppo “Terra e libertà”
Durata: 10 Agosto 1947
Luogo: Siracusa
Pagine: 2

Libero accordo. Voce del movimento anarchico in Sicilia, edito a cura del gruppo “Terra e libertà”
Durata: 14 Settembre 1947
Luogo: Siracusa
Pagine: 2

Diana libertaria. Voce del movimento anarchico in Sicilia, numero unico del gruppo “Terra e libertà”
Durata: 30 Novembre 1947
Luogo: Siracusa
Pagine: 2

Terra e libertà. Voce del movimento anarchico in Sicilia
Durata: 22 Gennaio 1948
Luogo: Siracusa
Pagine: 2

Note dell’Archivio
-Nella cartella non sono presenti i seguenti numeri unici: La Diana. Numero unico a cura della Federazione anarchica Sicilia sud-orientale (19 Dicembre 1946), Terra a libertà (26 Ottobre 1947), Azione libertaria (16 Febbraio 1948), La Comune anarchica (5 Aprile 1948), Riscossa libertaria (26 Maggio 1948), Rinascita libertaria (10 Agosto 1948) e Terra e libertà (17 Aprile 1949)
-“Libero accordo. Voce del movimento anarchico in Sicilia, edito a cura del gruppo “Terra e libertà”” presenta degli strappi che rendono illeggibili alcuni articoli
-Il file “Terra e libertà. Voce del movimento anarchico in Sicilia” (1 Maggio-25 Maggio 1947) contiene due numeri unici.
-I numeri unici uscirono come tali per mancanza di autorizzazione ministeriale. L’idea redazionale era quello di far uscire regolarmente un periodico del Movimento Anarchico siciliano come critica alle logiche politiche post-guerra regionali (vedi Il problema dell’Autonomia siciliana in Terra e Libertà. Voce del Movimento Anarchico in Sicilia, 1 Maggio 1947) e nazionali.

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Cronaca Libertaria

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Durata: 3 Agosto 1917  — 1 Novembre 1917
Luogo: Milano
Periodicità: Settimanale
Pagine: 4

Note dell’Archivio
-Mancano i nn. 2, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 11 e 12
-Come riportato da Bettini nella “Bibliografia dell’anarchismo. Volume 1, tomo 1. Periodici e numeri unici anarchici in lingua italiana pubblicati in Italia. 1872-1971”, “Il 30 mag. 1917, Il Libertario di La Spezia venne soppresso, “fino a nuovo ordine” , per disposizione del Ministero della Marina e del Ministero degli Interni. Cf. Il Libertario, 20 febb. 1919. Come risulta da una “Comunicazione del Mi­nistero degli Interni. Direzione Generale della P.S.”, del 16 giu. 1917 (AS di Genova, Carte della Prefettura, 336; ora in G. Bianco e C. Costantini, in Volontà (Genova), dic. 1961, p. 713), la Commissione Esecutiva dell’Unione Sindacale Italiana, alla notizia della sospensione dell’organo spezzino, avrebbe immediatamente reagito con la decisione di riprendere a Milano le pubblicazioni del giornale. “Non ci demmo per vinti — scriverà, infatti, Il Libertario, ps. cit. — e sorse allora a Milano “Cronaca Libertaria”, che si pubblicò per 14 numeri tra difficoltà di ogni genere” . Redattori principali figuravano Leda Rafanelli e Carlo Molaschi, anche se l’amministrazione e la direzione del giornale, era rimasta di fatto a La Spezia, nelle mani di Pasquale Binazzi (AS di Genova, ibid., “Nota del Prefetto al Mi­nistero degli Interni” , 7 ott. 1917. Cf. G. Bianco e C. Costantini, ps. cit.). Collaborarono assiduamente a questa edizione milanese del foglio spezzino, oltre lo stesso Binazzi, Carlo Molaschi (“Charles l’Ermite” ); C. Berneri; Sante Ferrini (“Folgorite” ); Nella Giacomelli (“Petit Jardin” ); O. Oradei; G. Cetti e F. Rubia. In Appendice è pubblicato: F. D. Nieuwenhuis, Van Christen tot Anarchist (Come da cristiano divenni anarchico), nella traduzione italiana di C. Molaschi, condotta sulla versione francese di E. Armand.”

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L’Internazionale. Periodico Socialista-Anarchico

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Durata: 12 Gennaio 1901 — 5 Maggio 1901
Luogo: Londra
Periodicità: [Irregolare]
Pagine: 4

Note dell’Archivio
-Manca il n. 1
-Pagine cartacee strappate e rattoppate con del nastro adesivo
-Nell’originale cartaceo, per un errore tipografico le pagg. 2, 3 e 4 dei numeri presenti in archivio erano invertite. Come file elettronici sono stati riordinati.
-Come scrive Pietro Di Paola in “The Knights Errant of Anarchy. London and the Italian Anarchist Diaspora (1880-1917), “Silvio Corio, arrivato da Parigi all’inizio del 1901 dopo aver scontato due mesi di carcere per aver contravvenuto a un ordine di espulsione, è al centro de L’Internazionale. Il periodico doveva essere una piattaforma di dibattito costruttivo tra le varie tendenze del movimento anarchico. Gli anarchici dovevano “dotarsi di criteri coerenti e ben discussi perché si avvicina il momento dell’azione rivoluzionaria”. I collaboratori del giornale provenivano dalla colonia anarchica internazionale di Londra. Oltre ai pezzi scritti dagli italiani – Corio, Malatesta, Bacherini, D’Angiò, Cicognani e Pietraroja -, L’Internazionale riportava articoli di Louise Michel, dell’anarchico russo Cherkezov e dello spagnolo Tarrida del Mármol. Il risultato era una pubblicazione eterogenea. Le questioni riguardanti il movimento operaio e lo sciopero generale erano dominanti; L’Internazionale forniva informazioni sul movimento operaio in Europa e nelle Americhe e sul tentativo degli anarchici di organizzare i camerieri e i lavapiatti impiegati nei ristoranti di Londra. Con l’espansione dei servizi di ristorazione all’inizio del secolo, il numero di cuochi e camerieri italiani era aumentato costantemente. I dipendenti di ristoranti e alberghi non erano organizzati, accettavano il lavoro a qualsiasi condizione ed erano soggetti a un duro sistema di sudorazione: “il cameriere tedesco, svizzero o italiano di solito non riceveva alcun salario ma, al contrario, doveva pagare al suo datore di lavoro una percentuale di 6 d. o più sulla libbra dei suoi incassi lordi in mance”. Così, cuochi e camerieri divennero una fonte di potenziali reclute e, nel 1901, gli anarchici italiani presero l’iniziativa di creare associazioni di lavoratori dove non ce n’erano, annunciando la prima riunione della Lega di Resistenza fra i lavoratori in cucina a Londra, che si sarebbe tenuta presso la sede del Circolo Filodrammatico, al 38-40 di Hanway Street. Il Circolo Filodrammatico (chiamato anche Club Italia) era gestito dal sarto Isaia Pacini […] Secondo i suoi promotori, la Lega di Resistenza non voleva essere un’altra società amichevole, ma si concentrava sulle lotte economiche: sulla riduzione dell’orario di lavoro, sull’aumento dei salari e sulla lotta contro quei padroni italiani che si approfittavano delle condizioni miserevoli e dell’adattabilità dei loro connazionali per sfruttarli. Il 20 Gennaio 1901 diversi oratori parlarono a un folto pubblico al Circolo Filodrammatico Italiano, e un lavoratore britannico esortò il pubblico ad aderire alla Amalgamated Waiters’ Society; la riunione si concluse con l’approvazione di una risoluzione che esortava i camerieri a lottare per “l’abolizione delle mance e per un salario equo”. […] dal secondo numero L’Internazionale cominciò a soffrire di problemi finanziari e di gravi ritardi nella pubblicazione. Passarono circa due mesi prima dell’uscita del terzo numero. Per superare queste difficoltà Corio propose Malatesta come direttore del giornale, ma questi rifiutò […] L’impaginazione malriuscita dell’ultimo numero, con pagine e articoli confusi, illustrava le difficoltà che il gruppo editoriale stava affrontando. Infatti, il quarto numero de L’Internazionale fu anche l’ultimo.

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Haraway Donna, “Le promesse dei mostri. Una politica rigeneratrice per l’alterità inappropriata”

Edito da Derive Approdi, Roma, 2019, 171 p.

«La natura non è un luogo fisico in cui recarsi, non è un tesoro da custodire o conservare in banca, non è un’essenza da proteggere. La natura non è un testo da decifrarsi in base ai codici della matematica o della biomedicina. Non è l’alterità che offre origine, materie prime e servizi. Né madre né curatrice, né schiava né matrice, la natura non è risorsa o mezzo per la riproduzione dell’uomo. La natura è, strettamente, un luogo comune». Così esordisce Donna Haraway, tra le principali esponenti del pensiero ecologico e femminista contemporaneo, in questo testo illuminante sulla nostra condizione di umani, specie devastatrice che ancora non ha imparato a convivere con il resto del vivente senza danneggiarlo. Perché ciò che sembriamo dare per scontato – l’idea o l’esistenza di una natura – in realtà non lo è affatto. La natura è in tutto e per tutto un artificio umano: attraverso la quale gli umani pensano loro stessi e l’insieme delle relazioni con ciò che esiste. Passare per una critica di questo artificio significa immaginare che altri artifici sono possibili, a partire dai quali entità biologiche e tecnologiche in continua trasformazione troveranno uno spazio di coesistenza su questo pianeta.

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Nota dell’Archivio
-Traduzione del saggio “The Promises of Monsters: A Regenerative Politics for Inappropriate/d Others”, Routledge, New York, 1992, pp. 295-337

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Botta Luigi, “Sacco e Vanzetti. Giustiziata la verità”

Edito da Edizioni Gribaudo, Cavallermaggiore (Cn), 1978, 298 p.

Su Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti — i due anarchici italiani condannati alla sedia elettrica ed uccisi il 23 agosto 1927 nel carcere di Charlestown — sono state scritte numerose biografie che hanno ampiamente sviscerato le tragiche vicende di quel decennio agli inizi del secolo. Arrestati, condannali e mandati a morte per un delitto che gli atti hanno dimostrato attribuibile ad una banda di comuni malviventi, Nicola e Bartolomeo sono stati vittime dello strapotere americano che, colpendo loro, ha creduto di colpire gli anarchici, i socialisti, i comunisti ed i sovversivi in genere. Intorno ai due italiani, sin dall’epoca degli avvenimenti, si è creato un vasto movimento di opinione che ha alacremente combattuto la battaglia della liberazione, prima, e della riabilitazione, poi. Ad ormai cinquant’anni dalla tragica conclusione della vicenda, quando il mondo intero ha avuto la possibilità di verificare e riconsiderare il succedersi dei fatti con più obiettività, Luigi Botta raccoglie in questo volume tutti quei documenti, lettere e petizioni (nella maggior parte inediti), che possono contribuire attivamente ad una maggiore conoscenza della vicenda, anche e soprattutto nella lotta per la riabilitazione. L’autore — che ha seguito per conto della Gazzetta del Popolo lo svilupparsi degli avvenimenti intorno ai due anarchici nel corso degli ultimi dieci anni — ha aggiornato sino all’inizio del 1978 l’elenco dei documenti sul caso, analizzando compiutamente anche quanto reso noto negli Stati Uniti dopo l’apertura di un plico contenente oltre millecinquecento pagine inedite. Le figure di Sacco e Vanzetti, libertari e nonviolenti, emergono nella loro sincera natura, quale simbolo per tutti coloro che soffrono — come loro soffrirono cinquant’anni fa — a causa di ingiustizie sociali.

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Faure Sebastien, La putredine parlamentare. Kolakowsky Leszek, Che cosa non è il socialismo. Galleani Luigi, Viva l’anarchia

Edito da La Fiaccola Editrice, Ragusa, Aprile 1968, 50 p.

Prefazione
All’approssimarsi di una nuova gazzarra elettorale, gli anarchici sentivamo il bisogno di portare una loro parola chiari­ficatrice e suadente su tale argomento, per coloro che, promotori della ristampa del presente opuscolo del Faure, cercano since­ramente un orientamento migliore. Il gruppo ha trovato che la parola dell’illustre compagno francese poteva egregiamente ser­vire al loro scopo. Si è reso però necessario di sfrondarlo di quegli argomenti che si riferivano più strettamente alla situa­zione della Francia, di vari decenni passati. Sono stati scrupo­losamente annotati i punti dove si è operato il taglio e si è anche accennato in breve riassunto all’argomento scartato. Per rendere la lettura dell’opuscolo più aderente alla mentalità dei lettori italiani, sono stati anche generalizzati periodi, che ave­ vano un più stretto significato geografico, o nazionalistico. Co­munque il pensiero dell’autore è stato sempre rispettato e ri­portato integralmente nella traduzione. Lo stile, così efficace ed elegante nell’originale, si è cercato di lasciarlo il più possibile inalterato, tranne nei casi in cui la sintassi italiana reclamava altra sistemazione di periodo. Si prega gli amici ed i simpatizzanti di leggere, meditare e diffondere tate opuscolo, affinchè le nostre idee siano conosciu­te ed apprezzate in tutto il valore della loro bontà e ragionevolezza. Ci rivolgiamo particolarmente a quei dissidenti che, in que­st’ultimo periodo di tempo, vanno presentando argomentazioni contrarie e che, con scritti e posizioni di fatto, contrastano la tesi che il Faure difende con il presente scritto. Da un’attenta lettura, specialmente delle ultime pagine dell’opuscoletto, risul­ta chiaro che l’astensionismo elettorale è qualità essenziale e determinante dell’anarchismo. Oggi, come ai tempi del Faure, esso è il nocciolo stesso dell’azione rivoluzionaria di chi vuole essere anarchico. Coloro che comunque partecipano al regime parlamentare, collaborano con esso, e perciò stesso si privano di una delle più efficaci armi veramente rivoluzionarie, su cui l’anarchismo fon­ da anche attualmente la sua azione. Sebastian Faure tenne questa conferenza il 30 novembre 1920, nella grande sala dell’Unione dei Sindacati. Precedente- mente ne aveva tenute altre due, sul medesimo argomento e per lo stesso pubblico, e perciò inizia questa facendo un rias­sunto delle altre due. La traduzione che presentiamo è stata fatta, direttamente dal francese, dalla compagna Nadia Serano che ne ha curato le annotazioni e stilata la prefazione, si trova, con la presente ristampa, alla terza edizione: le prime due (la prima apparsa nella vecchia Collana Anteo e la seconda «a cura della Fede­ razione Anarchica Laziale») sono ormai esaurientissime. Questo dimostra, ci pare, che un largo pubblico trova interesse, se non consensi, per le tesi sull’astensionismo elettorale, l’antiparlamentarismo, la ripulsa di ogni delega di poteri e di qualsivo­glia intermediarismo propugnate dagli anarchici, e che Faure, in questa conferenza sviluppa in modo semplicemente magistra­ le. Come del resto avevano fatto dalla loro parte Malatesta, Galleani, Molinari e il Merlino (prima che abbandonasse il cam­po), anche con gli scritti che abbiamo riprodotti nel precedente opuscoletto di questa stessa Collana. Fatto è che noi anarchici siamo i soli ormai a propugnare l’astensionismo elettorale e l’antiparlamentarismo, e, per con­tro, l’azione diretta. F. questo è senza dubbio un merito, anche perchè trova un certo riscontro nell’astensionismo immotivato che sia pure timidamente si manifesta ad ogni tornata elettoralistica (senza contare tutti coloro che votano «scheda bianca» e gli altri che votano «scheda sporca», cioè con frasi denigra­torie e contestatarie). Ma ciò non toglie che abbiamo aperto un’altra grossa lacuna nella nostra propaganda e azione: quella cioè d’aver trascurato, proprio noi anarchici, quest’altro argo­ mento di capitale importanza e pregnanza per la lotta emanci­patrice, d’averlo sottovalutato o considerato con molto scetti­cismo e di volta in volta il modo del tutto superficiale e niente affatto impegnativo. Quando invece una miriade di fatti e di accadimenti politico-sociale, la crescente insoddisfazione in lar­ghissimi strati della popolazione (e non solo in Italia), la inef­ficienza e infunzionalità, l’inerzia, documentatissime, del Parla­mentarismo e della rappresentanza avrebbero dovuto spingerci ad una più attenta e circostanziata rivalutazione dell’astensio­nismo anarchico, sia come metodo di contestazione e di nega­zione, sia per poterci inserire validamente nel movimento reale, e sia per trarne, e proporre, quell’alternativa veramente e so­stanzialmente rivoluzionaria, al gioco autoritario democrazia-dit­tatura, dittatura-democrazia, paventata da moltissimi (padroni del vapore, gruppi di potere, direzioni decisionali, aspiranti al cadrechino senatoriale o ministeriale, arrampicatori sociali, ecc., ecc.) e da altri (specie i giovani) ricercata, ma che solo l’anar­chismo può compiutamente formulare e spingere fino alle sue conseguenze estreme: naturali, logiche, materiali; l’espropria­zione e la riappropriazione dei mezzi materiali e intellettuali, la distruzione del privilegio in tutte le sue forme, l’autogoverno nell’autonomia, l’emancipazione. Intanto, la ristampa di questi «vecchi» testi, può essere la buona indicazione provocatoria e stimolatrice, per gli anarchici e i non anarchici (giovani, s’intende).

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