(a cura di) Zanolli-Misèfari Pia, “Utopia? No! Scritti scelti di Bruno Misèfari”

Edito a Roma, [1975], 139 p.

Nota Introduttiva
La topografia stessa del paese ove Bruno Misèfari nacque, è il simbolo della secolare oppressione dei pochi sui più. In terra calabra, all’estrema punta dello stivale, tra mon­ti spazzati dai venti dell’Jonio, Palizzi Superiore ti si para innanzi in una forra sopra uno spuntone di roccia bianca. In cima domina, potente e prepotente, il castello feudale; in basso si ammucchiano, piccole povere e desolate, le case dei contadini, di quelli che da sempre hanno subito la violen­za prima del signore, poi dello stato dei signori. Bruno Misèfari, ancora ragazzo, studente a Reggio Ca­labria, cominciò a ribellarsi contro l’ingiustizia di quel mon­do, costruito secondo quell’immagine topografica che porta­va impressa nella memoria: sopra, chi comanda e non lavora, sotto, chi subisce e lavora. E, ancora ragazzo. Bruno Misèfari iniziò a sognare un mondo in cui quella gerarchia fosse sovvertita prima, distrut­ta poi. Ma, a quale forza ideale, a quale principio del pensiero ricorrere per unire gli oppressi, per trasformare il loro mil­lenario, sordo spirito di ribellione in una forza organizzata compatta, in una volontà collettiva cosciente della necessità di abbattere quella società e quello stato per fondare una so­cietà migliore e più giusta? Bruno Misèfari poteva scegliere tra socialismo marxi­stico e socialismo libertario. Apprezzava del socialismo marxistico l’analisi esatta dell’antagonismo fra le classi, la spiegazione chiara del mec­canismo secondo il quale i più lavorano e producono, ma solo pochi s’appropriano del frutto del lavoro dei più. Ma, già adolescente, mostrava perplessità circa i mezzi proposti dal­la diagnosi marxistico per fronteggiare, una volta abbattuto questo stato e questa società, il pericolo di un ritorno o di una rivincita dell’avversario di classe: lo Stato diretto dal proletariato, i cui strumenti repressivi si estinguono man ma­no che avanza e si consolida il modo di produzione sociali­stico, e gli uomini si abituano all’autogoverno. Questo stato diretto dal proletariato, o questa dittatu­ra del proletariato, poteva per Bruno Misèfari costituire la premessa per la ricostruzione del dominio dei pochi sui più. Inclinò, perciò, per il socialismo libertario. Questa scelta non significò rottura totale o rifiuto del socialismo marxistico. Con i socialisti marxisti Bruno Misèfari continuò a coltivare rapporti di amicizia sul piano personale, con i so­cialisti marxisti continuò a lottare per obiettivi comuni e contro comuni nemici. Prese soltanto una distanza ideale da­ gli approdi postrivoluzionari che il socialismo marxistico preconizzava. Poi venne quella che la retorica ufficiale chiamò e chia­ma grande guerra. Per Bruno Misèfari fu una riprova, una dimostrazione, una conferma del modo in cui la vile prepo­tenza dei pochi si consumasse a danno dei più, col ricorso ad una campagna di persuasione occulta, di lavaggio dei cer­velli, condotta da giornalisti prezzolati sulla base di sfacciate menzogne, di falsità clamorose, di incongruenze scoperte. Anche Bruno Misèfari fu chiamato alle armi. Giovane coscritto fu arruolato in una compagnia di fanteria di stan­za in quel di Benevento, in attesa di essere inviato al fronte. Per Bruno Misèfari, come per tanti altri giovani educati alla scuola del socialismo marxistico rivoluzionario e del sociali­smo libertario rivoluzionario, sottoporsi alla disciplina della caserma, alla gerarchia dell’esercito, era impossibile. Si poteva accettare o non accettare quella guerra; al li­mite, si poteva ritenerla anche giusta, come fecero pochi so­cialisti; ma assistere quotidianamente ai piccoli soprusi, alle meschine prepotenze dei vari colonnelli-medici, di coloro che si arrogavano il diritto di farsi chiamare superiori, contro po­veri soldati-contadini, inermi deboli indifesi, faceva insorgere la coscienza e sorgere irresistibile l’impulso alla rivolta contro quella istituzione, l’esercito, fatto ad immagine e somiglianza dell’istituzione che l’aveva prodotta: la società, lo stato. Certamente la diserzione non fu una scelta semplice, comportò lacerazioni interne, ma Bruno Misèfari ebbe il co­raggio di prenderla: il 14 maggi 1916 diventò un disertore: scelse non di fare la guerra degli stati, ma di combattere la guerra a fianco degli oppressi di tutto il mondo contro il lo­ro nemico in Italia e fuori dell’Italia. In anni oscuri, quando alcuni grossi nomi, alla prova dei fatti, diedero l’impressione che il socialismo fosse ridotto ad un vano nome, oscuri disertori, anarchici e socialisti, tennero alta la bandiera dell’internazionalismo. E trovarono subito solidarietà e appoggio nella molti­tudine che odiava la guerra: un contadino di Benevento aiutò Bruno Misèfari a svestire la divisa militare, a indossare panni civili e a trovare rifugio nei casolari nascosti tra i boschi del Monte Taburno; la solidarietà attiva e militante di altri sov­versivi gli consentì di giungere fino a Zurigo, in terra elve­tica. A Zurigo hanno trovato un asilo, a mala pena tollerato i superstiti internazionalisti di tutto il mondo. Vi sono uomini destinati a mutare il corso della storia; c’è anche un disertore come lui, Francesco Misiano: un ferroviere licen­ziato, perchè ha fatto il suo dovere di lavoratore in un episo­dio della lotta di classe, scioperando durante la Settimana Rossa nel giugno 1914; un dirigente socialista, che ha fatto il suo dovere di dirigente, spingendo il proletariato torinese a manifestare, nel maggio 1915, contro il crimine della guer­ra; un rivoluzionario, che ha fatto il suo dovere di rivoluzionario, rifiutando la guerra. I due disertori s’incontrano, vecchi ricordi ritornano alla memoria; sono entrambi calabresi, hanno un certo perio­do frequentato le stesse scuole, hanno amici comuni. Fran­cesco Misiano si rende partecipe del bisogno del suo amico di ritrovarsi con giovani delle stesse idee, ma di essere ammes­so anche in una famiglia che lo aiuti a ricostruire quella tra­ ma di affetti intimi, che sono tanta sostanza di un’esisten­za giovanile. Bruno Misèfari viene introdotto perciò in una famiglia anarchica di origine veneta, ma da molti anni residente a Zurigo, la famiglia Recati-Zanolli. Frequentandola, egli rafforza la sua fede nell’anarchia, perchè quella piccola comunità familiare traduce nella vita di tutti i giorni e fa diventare concreto e reale un ideale che altri definiscono astrazione e utopia. Ada Negri, che nel 1913 era ancora la poetessa dei po­veri, e non aveva, rosa dall’ambizione, imboccato quella via che la porterà a quel misero declino, fatto di invocazioni e di suppliche al capo del fascismo, aveva anch’essa frequentato quella comunità e ne aveva disegnato un quadro indimenti­cabile. Al centro di questo quadro campeggia una figura ma­terna, armonicamente fusa con le creature partorite dal suo seno, e con le altre figure femminili che da eguali collaborano con essa nella fatica quotidiana. A rifissare l’occhio su que­sto quadro, ancora oggi ne siamo conquistati ed incantati; e ci spieghiamo perchè Bruno Misèfari ne abbia sentito, imme­diato, il fascino, e proprio fra quelle creature, la prima par­torita da quella madre, abbia trovato il suo amore. A Zurigo Bruno Misèfari annodò i fili di quell’amore destato a durare vita e oltre la vita, e operò instancabilmente per guadagnare alla causa dell’anarchia e del­la rivoluzione sociale, gli operai perseguitati da tutti i paesi e i lavoratori. Come accade a coloro che tentano di migliorare la struttura sociale, si attirò l’avversione e l’odio della polizia zurighese, e fu arrestato con un’accusa, tutta inventata e tut­ta prefabbricata, di bombe e di attentati. E Bruno Misèfari, nel carcere di Zurigo, fece la prima vera esperienza di quell’internazionale poliziesca, accomunata in tutti gli angoli della terra dall’uso degli stessi espedienti e degli stessi sistemi, che sono, quanto meno, la perfidia, il mendacio, la provo­cazione. Nel 1919 il Parlamento italiano votò l’amnistia per i di­sertori e Bruno Misèfari tornò in Italia per portare il suo contributo alla rivoluzione socialista. Si pensava che l’Italia fosse un paese maturo per la ri­voluzione proletaria. Non ci sono elementi per affermare il contrario. E’ certo, però, che se il proletariato era per­corso da fremiti di rivolta, il governo 1920 (Giolitti) si era rafforzato, psicologicamente, con la cosiddetta vittoria, eco­nomicamente, con i sovrapprofitti di guerra, politicamente, conquistando alla sua causa tutti gli sbandati e gli spostati della minoranza, decisi a vivere non del loro lavoro, ma sul lavoro del proletariato. Nell’autunno 1917 si era presentata un’occasione da po­tere sfruttare per portare avanti con successo la rivoluzione del proletariato. Allora il Governo del 1918 era alle corde per i colpi ricevuti a Caporetto. Ma, solo in Russia Lenin ave­va saputo trasformare la guerra tra i popoli in guerra civile ed aveva fatto della disfatta militare la tomba della Russia zarista. In Italia, di Caporetto i socialisti rivoluzionari non avevano voluto o saputo approfittare, e, nel 1919, insieme agli studiosi dell’anarchismo, si trovavano a fronteggiare un du­plice apparato repressivo: quello legale dello Stato di classe e quello illegale formato dalle bande fasciste e parafasciste. Ed il problema non era solo di opporre violenza a violenza; c’era anche il compito difficile di reagire all’offensiva poli­tica del Governo di allora che, sotto la pressione del pro­letariato, si precipitava a fare delle concessioni da rimangiarsi a tempo opportuno. In questa difficile situazione il fronte rivoluzionario non seppe o non potè darsi gli opportuni strumenti politici, organizzativi, armati per realizzare il suo programma. Questa osservazione non ci autorizza a irridere o a stroncare – sareb­be troppo comodo! – l’attività di coloro che prodigarono tutte le loro energie per condurre alla vittoria il proletariato. Tra questi va annoverato Bruno Misefari, il quale, pur sottoposto senza tregua alla persecuzione della polizia e al­l’inquisizione della magistratura, fu sempre al suo posto accanto a quelli che lavorano e soffrono. Così lo troviamo a Taranto (ottobre 1920), per guidare la lotta degli operai metallurgici del cantiere Tosi in difesa dell’occupazione, a Napoli (ottobre 1921), per pronunciare un discorso per la salvezza di Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti, ovunque il proletariato richiedesse la sua opera, sempre in concordia discorde con i socialisti di sinistra e i comunisti. Come tutti i rivoluzionari sinceri e coerenti pagò col carcere e col confino la sua fede in un ideale, e vide distrut­ta un’esistenza che poteva essere ricca di guadagni e succes­si professionali. Della sua attività, delle sue meditazioni al carcere e al confino, sono rimasti scritti e frammenti, che la donna della sua vita, Pia Zanolli, con amorosa cura e indi­struttibile devozione, raccoglie e ripresenta ancora una volta al pubblico. Già in massima parte riprodotti nell’Anarchico di Ca­labria e nel Diario di un disertore, questi scritti, riproposti sotto altra forma e riordinati con altri intenti, possono real­mente giovarne a quanti con fervore studiano l’anarchismo, e, forse, non a quelli soltanto.

Link Download

Questa voce è stata pubblicata in Libri e contrassegnata con , . Contrassegna il permalink.