Mera Cipriano, Rivoluzione armata in Spagna. Memorie di un anarco-sindacalista.

Edito da La Fiaccola, Ragusa, Settembre 1978, 496 p.

Prefazione di Andrea Chersi
Questo libro, scarno e poco « letterario », con ripetizioni, periodi brevi e vacillanti a volte, ha forse i suoi pregi nella forma in cui è stato scritto dall’autore o meglio forse curato e preparato sugli appunti suoi.
Scritto da un « albanil », come orgogliosamente ammette l’autore, trovatosi alla fine della guerra, quasi casualmente, col grado di tenente colonnello al comando di un corpo d’armata. È questa una rivincita davanti al generale disprezzo, soprattutto in campo militare, verso gli anarcosindacalisti che fin dal primo momento rappresentarono invece la maggioranza delle forze mobilitate. Questo valoroso militante è morto il 24 ottobre del 1975 a St. Cloud, un mese prima di Franco. Da molto tempo risiedeva nei dintorni di Parigi, dove aveva ripreso il suo mestiere di muratore finché potè, continuando a dare il suo contributo al Movimento Libertario spagnolo in esilio, pur mantenendo uno spirito di autonomia che lo portò, insieme a molti altri militanti, a duri scontri con la burocrazia immobilista che dirige il Movimento in esilio (ne è prova la sua partecipazione alla fondazione del « Frente Libertario » ).
Testardamente, fino all’ultimo, rifiutò sempre di pubblicare in Spagna questo libro, anche dietro l’offerta di fortissime somme.
Proprio in concomitanza con l’assassinio « legale » del compagno Puig Antich, rifiutò seccamente ancora una volta qualsiasi proposta in tal senso. Grandissimo merito di questo libro è che contribuisce a combattere la montagna di menzogne dei libri e stalinisti e borghesi sulla guerra civile spagnola.
È un libro chiarissimo, in prima persona, in cui Mera racconta solamente ciò che vide e fece. Un libro chiarissimo anche per il lettore, nel bene e nel male. Quella sua conoscenza degli ambienti, dell’atmosfera, degli intrighi, gli permette di descrivere gustosamente negoziazioni, patti, accordi e porcherie tra generali, rappresentanti monarchici, socialisti e libertari.
Ma su due punti vorrei qui solamente fare un accenno: il primo è il grosso problema della questione militare nella guerra civile spagnola, per cui nessuno parla del periodo successivo alla militarizzazione, mentre un’abbondante letteratura esiste sull’opera degli anarchici nelle collettivizzazioni, sui primi episodi della lotta armata e della fase miliziana. Ma, e l’aspetto militare? È questa forse la prima testimonianza dell’attività militare degli anarchici e dei confederali alla lotta antifascista. Cipriano Mera fu uno dei protagonisti della spinosa questione della militarizzazione delle Milizie Volontarie. Certo, fu lui a sostenerla come necessaria, come unica soluzione, per avere un « esercito ancor meglio organizzato di quello nemico », senza distinzioni di partito, con una disciplina di ferro.
Ne nacque una tremenda polemica che è durata nella letteratura anarchica e che dura tutt’ora (vedi Santilldn, Semprun Maura, ecc.), ma occorre tener presente che, come scrive lui stesso, egli all’inizio fu sempre strenuo sostenitore della guerra per bande, la guerra tradizionale e vittoriosa degli spagnoli contro i francesi di Napoleone. Oggi si continua ad affermare che Mera è stato uno degli artefici della militarizzazione. Ma dopo la decisione dei « ministri anarchici » di far parte del governo, che altra soluzione poteva rimanere? Comunque, quando ormai il nemico è alle porte, è lui a riproporre i gruppi di guerriglia da infiltrare nelle linee nemiche. Curioso poi che la teoria delle « partidas » di « braudoleros » venga ripresa poi (nel ventennio ’40-60 soprattutto), e per massima parte, dai comunisti (v. Pons Predes, « Guerrillas espanolas 1936-1960 », Barcelona 1977).
Santilldn dice: « la nostra guerra non era una guerra di un esercito contro altri eserciti, ma l’azione armata di un popolo contro i suoi nemici ». È vero, ma poi anche Santillan si perde per strada con elucubrazioni su praticamente improbabili differenze tra guerra di Stato e guerra di popolo, sullo spirito che ne è alla base, eccetera e torna anch’egli alla guerriglia popolare antinapoleonica del XIX secolo come l’unico modello possibile di azione popolare.
In stretto legame con il problema della militarizzazione, c’è quello dell’oscuro affare Casado. Dice Ignacio Iglesias che Casado non avrebbe potuto far niente senza Cipriano Mera e i libertari.
In effetti, Mera fu uno (se non l’unico) strumento e l’artefice principale del volere di Casado, che costituì una Giunta per arrivare ad una « pace onorevole » coi fascisti. Dice sbrigativamente Vernon Richards: « a Mera l’uniforme andò alla testa ».
Il problema poi non è tanto quello della necessità o meno della militarizzazione, ma di come venne risolto, con atto autoritario e con l’avallo dei leaders carismatici che svolsero un ruolo « ambiguo ed equivoco ». Ci fu una prevaricazione ed una presa di decisioni da parte dei « capi » senza il controllo della base, cosa che fece sbottare il Berneri in un’accusa di « bolscevizzazione » della CNT che seguiva le decisioni prese in alto e volute dai consiglieri russi. Questi santoni della CNT furono dunque docili strumenti di mistificazione verso gli anarchici. Dei pompieri. Decisione che diede esca allo strapotere dei comunisti nella polizia e nell’ambito militare. E fu proprio Berneri l’unico a tentare di conciliar la necessità della guerra con lo spirito delle milizie, sostenendo un compromesso tra i princìpi « eterni » dell’anarchismo e la dominante frenesia militarista.
Rimane il fatto che, come dice Semprun Maura, si perdette la guerra perché non si volle fare la rivoluzione.
Perché Mera fu forse l’unico a scrivere sull’attività militare degli anarchici? Esisteva da parte degli anarchici una certa ripugnanza verso tutto ciò che ha a che fare col mondo militare. E si riteneva, da parte degli anarchici che parteciparono alla guerra spagnola, accidentale l’intervento nella lotta armata. Una specie di errore di cui meglio è non riparlare. Quindi si potè sviluppare la leggenda per cui la lotta armata fu sostenuta esclusivamente dai comunisti e quell’altra leggenda che sosteneva che gli anarchici erano tutti dediti all’ozio o litigavano o rubavano o scappavano davanti al nemico, mentre gli altri « patrioti » (i comunisti, naturalmente) combattevano e morivano. Resta il fatto che per sconfiggere militarmente i comunisti che erano alla difesa di Madrid, Mera ci metta appena un paio di giorni.
Il secondo punto è la sgradevole impressione che il libro lascia nel lettore quando descrive il periodo susseguente alla vittoria di Franco: l’estrema « correttezza » di molti funzionari franchisti, le proteste nelle carceri, la libertà di poterne uscire dietro « garanzie » rappresentate da compagni anarchici presso le autorità, la semi-libertà di cospirare. Certo, ci sono le centinaia, migliaia di assassina « legali », la vendetta compiuta a freddo, la tremenda repressione. Ma perché, dopo essere stato condannato a morte, proprio Mera viene liberato due anni dopo? Una mossa propagandistica, come sostiene lui? Un po’ eccessivo, mi pare. È questo un aspetto che lascia perplessi.
Avvincente è il racconto delle sue peregrinazioni in Africa del Nord, avventuroso viaggio senza meta, comune a tanti combattenti antifascisti. Il nostro Pio Turroni ha avuto un’odissea simile che l’ha portato a Casablanca (dov’era anche Mera) in giro per il mondo. (Ottimo contributo alla nostra storia sarebbe una sua autobiografia.)

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Nota dell’Archivio
-Traduzione del libro “Guerra, exilio y carcel de un anarcosindacalista”, Editions Ruedo Iberico, Chàtillon-sous-Bagneux, 1976

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