Bonanno Alfredo Maria, “Max Stirner”

Edito da Anarchismo, Trieste, 2012, 424 p., Seconda Edizione

Introduzione alla seconda edizione
In fondo, siamo dei costruttori. Non di superfetazioni e aggetti, ma di valori. Nuovi valori, beninteso. Portando avanti la nostra azione distruttiva ci scontriamo con la contraddizione di fondo, quella che fornisce significato al nostro opaco modo di essere. Avremmo privilegiato un significato “altro”, ebbene no: noi, i critici radicali di ogni potere, utilizziamo i medesimi concetti di chi ci sovrasta e ci opprime. Noi, i distruttori più coerenti, succhiamo lo stesso latte dalle stesse fonti nutrici e a nulla giova sostenere il contrario.
La cosa ci manda in bestia e non vogliamo fissarla negli occhi. Ci accorgiamo di stare giocando ancora con i numi, mentre tutto intorno i facitori di utilità si affrettano a dare libera circolazione alle sovrabbondanti idee di umanità, soccorrevolezza, pietà, mutuo appoggio, ecc. La morbida pelle che accarezziamo nasconde qualcosa di guasto.
Che ci si innamori delle proprie idee, passi, che le si condivida pudicamente con gli affilati denti del potere, irrita non poco. L’alternativa sarebbe un essere affannato, solitario, dubitante e fragile: meglio di no. Così discorriamo dei pubblici crucci anche quando non ce ne sarebbe strettamente bisogno. Capisco tenere lontano i denti dello sbirro nel momento che stanno azzannandoci con una veloce messa a punto, oppure le ali nere di un PM nel momento che alza la mano per contare gli anni di galera di cui gradirebbe farci omaggio, ma lasciarsi andare alla “critica” del baraccone policromo che ospita ancora gli ultimi fantasmi truccati da filosofi, non ce n’è motivo.
Il fatto è che non vogliamo deciderci ad andare oltre. L’esile vestito grammaticale che continuiamo a usare ci rende impossibile questo passo. Seguendo il filo logico di Stirner, come ormai faccio da tanti anni, la conclusione non può essere altra che il silenzio. Non l’accidia, ma il silenzio. C’è un cane che non abbaia – mi pare sia il mastino napoletano –, attacca senza abbaiare. È un pericoloso animale.
Ma Stirner non è stato sempre zitto, ha parlato. Ha parlato per tutto un libro, pieno di idee e anche di allusioni non svolte, di suggestioni e perfino di incongruenze. Ha continuato per poco a parlare – qualche altro scritto, qua e là, qualcuno importante, altri (i più) trascurabili –, poi il silenzio, solo dopo, non molto dopo.
La parola acquietante vuole essere ascoltata, si presenta come il segno di qualcosa che esiste, che viene costruito nei dettagli e cerca spazio nell’esistenza per non farsi soffocare. Luoghi del riferimento, mummie angolari, elenchi di ovvietà (tranne qualche rara eccezione) che si rimandano segnali a vicenda, più che immortali, morti e basta.
Affermando, come ho fatto tante volte, che con la parola cerchiamo di nascondere quello che vogliamo dire, ho riaperto il territorio dei possibili, il luogo tragico e oscuro di quello che potremmo trasformare se riuscissimo a mettere a tacere, solo per un attimo, la volontà che ci indirizza alla conservazione di noi stessi, quindi alla riconferma di quello che diciamo per camuffare meglio questa conservazione.
Ho sperimentato, qualche volta, che nell’avvicinarsi di un’azione, di una messa a rischio di me stesso – diciamo appena più significativa di una semplice passeggiata in campagna – la sera prima, tardando il sonno a venire, sentivo l’impulso irresistibile di scrivere. Non sono poche le pagine che ho scritto in queste condizioni. Mentre il cuore voleva balzare oltre l’ostacolo, l’intelletto, amante appassionato della volontà, si metteva al lavoro e come Giosuè guardava con astio il vicino sorgere del sole. Paura? Forse. La paura è sempre consigliera al nostro fianco, ma non solo paura fisica, principalmente paura dell’innocenza che l’azione richiede, della sospensione dei giudizi di valore, di ogni parola argutamente raccolta e messa a disposizione per meglio capire (e quindi per evitare di agire).
La fondatezza delle proprie scelte, quella che viene fuori dalla cosiddetta autodeterminazione, il sogno di ogni buon anarchico con le carte in regola, è il risultato di un battibecco tra larve, viene alla luce di una vita effimera, riconforta perfino la ferocia di un pensiero massimalista, ma non è in grado di sollevarsi al di sopra dei propri limiti (e come potrebbe?). Quanti cantori del desiderio ho visto palleggiare terrorizzati fra le mani, nell’indecisione dell’attimo, l’improrogabile destino munito di miccia fumante.
Stirner è un feroce facitore di astrazioni, produce un meccanismo odioso di oggettive verificazioni, nessuno dei suoi lettori – nemmeno i critici più estremi – ha potuto trovare una falla in questo meccanismo. Ma alla fine, il critico più estremo è vittima delle sue stesse conclusioni. Giunti alla fine de L’unico ci accorgiamo che né lui, né noi, possiamo andare avanti. Il territorio che ci si apre è quello della desolazione, il territorio selvaggio dell’ “assolutamente altro”.
I fonemi che ci hanno catturato sono ormai mutoli, hanno detto tutto quello che c’era da dire, si sono tolti di dosso fino all’ultima aura, suoni senza significato.
Quello che ci è rimasto dentro è un mugolio strozzato, incomprensibile. Il nemico aguzza l’orecchio, avverte questo suono privo di senso, e ne è turbato. Non sa ancora cosa lo mette a disagio. I suoni è abituato a gestirli come animaletti vivi, curiosi lemuri disponibili a qualunque adempienza, ma questo suono non ha registro traducibile. La sua crudele eleganza atonale sembrerebbe voler dire qualcosa, invece non dice nulla, non imita, non sollecita, non intende intimidire. È là, nella sua totale incomprensibilità.
Ora, l’incomprensibilità turba il potere. I grandi mezzi di decodificazione di cui dispone sono inutili di fronte all’ “assolutamente altro”. Il mendicante può essere accontentato con le briciole del ricco banchetto, il minacciante messo a tacere con una promessa di migliori condizioni e, in casi estremi, con una gara di forza nei termini del conosciuto, il sognante catturato nel giro delle illusioni spettacolari dove gli imbecilli di ogni genere nuotano a loro agio. L’ “altro” non ha questi sbocchi, non esiste nemmeno. Se ne sente in lontananza il mugolio, ma questo suono permane incomprensibile.
L’accadere, improvviso ed estremo, non è mai direttamente collegabile a quel mugolio, e quando lo è – per accidente – solo l’accaduto è codificabile (e punibile nel giro della forza), il resto continua ad accadere, improvviso ed estremo, nella sua incomprensibilità. Ma quello che è catturato non è il mugolio assolutamente diverso, ma solo questo fatto qui, parzialmente riconducibile ad azione e perfino identificabile in base a un articolo del codice penale.
L’unico e la sua proprietà non è un manuale di comportamento – da consultarsi alla bisogna – come atrocemente è stato usato troppe volte. È il libro dell’ “assolutamente altro”.
Dopo averlo letto lo si può buttare via: o ha dato il suo contributo a questa definitiva rottura con l’eternamente spiegabile, o non l’ha dato. In ambedue i casi: carta straccia.
Fatevene una ragione, la barbarie si avvicina.
Trieste, 11 luglio 2003
Alfredo M. Bonanno

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Nota dell’Archivio
-La prima edizione è del 1977

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