Edito da Edizioni La Baronata, Lugano, 2000, 170 p.
Prefazione
Non ci si può chiedere di credere alla scienza, poiché è stata l’incredulità, la volontà di verifica, a porre le condizioni della nascita e dello sviluppo della scienza stessa. Allo stesso modo, non ci si può chiedere di arrenderci al progresso, perché se e quando progresso vi è stato, ciò è avvenuto in quanto vi sono stati contrasti di idee e di interessi, resistenze da dover superare, mettendo in campo saperi, tecniche, competenze e, talora, estendendone i benefici. Qui sta la differenza fra Bakunin e gli altri teorici del conflitto, da Darwin a Marx a Nietzsche. Questi ultimi hanno enunciato delle concezioni conflittuali della Vita e della Storia, rimanendo però su un piano del tutto astratto e retorico, cioè quello della riedizione della solita Legge del Più Forte. La retorica della Legge del Più Forte costituisce in realtà un’inibizione al conflitto, in quanto lo traspone su un piano immaginario, più rituale che virtuale, in cui i ruoli di vincitore e di perdente o, per meglio dire, di carnefice e di vittima, sono già assegnati preventivamente; per cui non si può più davvero parlare di conflitto – che presuppone un confronto di più forze, per quanto diseguali -, ma di sopraffazione. Un tipico esempio di quanto appena detto, ci può essere fornito dal Manifesto dei Comunisti di Marx ed Engels, in cui viene enunciata la concezione della Storia come lotta di classe; enunciazione subito rimangiata dagli stessi autori, quando accettano di riconoscere alla borghesia il ruolo di rivoluzionare in continuazione la produzione, attribuendo alla classe operaia una posizione puramente passiva, per cui ogni suo tentativo di resistenza alla innovazione capitalistica non sarebbe altro che sterile velleità conservatrice.
Bakunin, al contrario, riconosce nel conflitto una funzione di riequilibrio sociale e pone le condizioni per analizzare tutta una serie di fenomeni non più in modo astratto, bensì definendoli in base ai rapporti sociali che stabiliscono. Ad esempio, per ciò che concerne la scienza, questa non sarà più interpretata come un semplice atteggiamento mentale, anche se diverso da quello religioso, bensì come un modo in cui le persone entrano in relazione, una relazione di un sano sospetto reciproco, che non è diffidenza distruttiva, ma consapevolezza dell’esistenza e del confronto di interessi diversi, il che comporta che le verifiche non possano essere affidate proprio a chi abbia l’interesse a non compierle. Di conseguenza, anche la religione non sarà più analizzata solo in base ai suoi con tenuti, ma per la relazione sociale che insedia, una relazione squilibrata, sbilanciata cioè tutta a favore di una sola delle parti, la quale può rivendicare una attendibilità illimitata. E quindi lo stesso Bakunin, estimatore della scienza e dei suoi risultati, a metterci in guardia contro il rischio, sempre presente ed incombente, della degenerazione religiosa, dogmatica e sacerdotale delle istituzioni della scienza, i cui rappresentanti ,”cedendo all’influenza perniciosa che il privilegio esercita fatalmente sugli uomini”, possono avere spesso interesse a neutralizzare quel contraddittorio che è alla base del vero metodo scientifico. Il Bakunin che compie un immane sforzo teorico per liquidare definitivamente tutta la metafisica del Creatore Trascendente, il Tiranno dell’Universo (il Dio dei cristiani, o l’Ente Supremo dei giacobini), è dunque lo stesso Bakunin che poi ci avverte che con questa liquidazione il problema non è risolto, poiché i sacrifici umani possono essere imposti nuovamente da teologie e clericalismi di altro genere: “Finora tutta la storia umana è stata solo una immolazione perpetua e sanguinosa di milioni di poveri esseri umani a un’astrazione impietosa qualunque: dèi, patria, potenza dello Stato, onore nazionale, diritti storici, libertà politica, bene pubblico. ”All’individuo spetta quindi di imparare a riconvertirsi da elemento funzionale all’immolazione (“pedina sacrifica bile”), a fattore di contrappeso e riequilibrio nei confronti delle pretese e delle prevaricazioni delle divinità di tu r no, utilizzando il proprio dissenso in modo da svolgere una funzione di garanzia non soltanto per sé, ma per tutti i settori deboli e sacrificabili della società. Ciò non è ancora Rivoluzione Sociale ma, proprio per questo, si dimostra quanto sia falsa l’idea secondo cui l’anarchismo sarebbe privo di risorse se manca all’orizzonte la prospettiva rivoluzionaria. Si dimostra anche che è infondata l’opinione di quanti sostengono che le risoluzioni dei Congressi Anti-autoritari di Saint-Imier del 1872 e di Ginevra del 1873 (quasi certamente formulate soprattutto da Bakunin), abbiano avuto un carattere estemporaneo, cioè dettato dalle esigenze immediate della lotta contro Marx all’interno della prima Internazionale. In realtà l’idea di garantire fino in fondo la facoltà di dissenso delle minoranze – al punto di ritenere che le decisioni della maggioranza impegnino soltanto quest’ultima -, trova, in questi scritti filosofici, un significativo retroterra di riflessione ed argomentazione. I temi della società sacrificale e del carattere “divoratore ” che le astrazioni possono assumere nei confronti della vita umana, sono anche tipici tratti stirneriani. Il fatto che Bakunin riprenda e sviluppi tali temi, può costituire per ciò una conferma a favore della testimonianza di Friedrich Engels, secondo il quale l’anarchico russo avrebbe letto, ed in parte fatto proprio, L’Unico di Max Stirner. Anche l’interpretazione in chiave garantistica dell’individualismo stirneriano, proposta da Max Nettlau (per il quale Stirner è stato in realtà un socialista preoccupato di tutelare l’umanità contro le sue stesse tendenze all’auto-cannibalismo), trova così un fondamentale precedente in Bakunin. Resterebbe comunque da spiegare il perché Bakunin non citi esplicitamente Stirner, come invece fa per Proudhon. Probabilmente Bakunin era troppo legato alla esigenza della costruzione e della organizzazione di un movimento rivoluzionario, per accettare di buon grado l’approccio irridente e lo stile provocatorio di Stirner, un approccio ed uno stile estranei alla sensibilità di tutta la cultura di un’epoca, nella quale, la solennità religiosa del tono e la gravità dell’atteggiamento erano considerate come se gnali certi di senso di responsabilità umana e sociale. Sarebbe un errore ritenere che Bakunin pervenga a certi risultati teorici seguendo un percorso scorrevole ed armonico. Al contrario, il conflitto è anche dentro di lui, tra la sua formazione culturale – avvenuta tutta all’interno del pensiero dell’800, con i suoi pregiudizi eurocentrici -, e la sua esperienza di essere umano e di rivoluzionario: questi suoi scritti filosofici vanno letti anche come il documento e la testimonianza di quel conflitto. C ’è da osservare, per di più, che molti degli argomenti a cui Bakunin fa ricorso quando tratta della psicologia dei cosiddetti “popoli primitivi” o del comportamento animale, sono stati smentiti dagli sviluppi successivi della antropologia culturale e della etologia. Anche la funzione consolatoria ed analgesica della religione – data per scontata da Feuerbach, Proudhon, Marx, Freud, Nietzsche – è oggi messa in questione dai più recenti sviluppi della psicologia, che hanno indotto a notare come la pratica religiosa acutizzi le sofferenze, piuttosto che lenirle. L’analisi bakuniniana del fenomeno religioso risente, inoltre, di un punto di vista eccessivamente occidentale, cioè portato ad individuare nel cristianesimo e nella sua storia – vera o immaginaria che sia – un modello generalmente valido ed universalmente applicabile. In definitiva, Bakunin risentiva, come altri atei occidentali, del pregiudizio secondo cui il cristianesimo sarebbe la religione per eccellenza. In effetti lo schema evolutivo adottato da Bakunin, mutuato in gran parte dall’opera di Feuerbach, non risulta applicabile alla esperienza religiosa dell’Oriente: qui, in fatti, delle dottrine come il Buddismo ed il Taoismo – che, ai loro inizi, sarebbero state classificabili, secondo i criteri della filosofia occidentale, nell’ambito del più rigoroso materialismo -, hanno subito successivamente un processo di degenerazione in senso religioso e, nel caso del Taoismo, persino in senso superstizioso. La linea di progresso ipotizzata dalle filosofie occidentali – secondo cui il pensiero umano si sarebbe gradatamente evoluto dalle fiabe e dai miti della religione sino ai modelli razionali della scienza positiva – non può quindi esser considerata assoluta, per cui si può persino ritenere che, talora, si siano potuti innescare dei processi inversi, cioè che delle scoperte e delle conoscenze scientifiche siano state in passato corrotte in forme di sapere iniziatico ed esoterico, ciò per servire gli interessi di caste sacerdotali. Può essere il caso della casta sacerdotale Egizia e di quella Maya, le quali mescolavano le loro mitologie ad una serie di conoscenze scientifiche effettive, di carattere astronomico, matematico ed architettonico. Ci troviamo quindi di fronte a quello che può apparirci come un paradosso: molti degli argomenti utilizzati da Bakunin sono stati superati, per giungere però a delle conclusioni che, in definitiva, sono analoghe a quelle da lui raggiunte: la religione non è sempre da considerare come un’infanzia della mente, ma può essere ritenuta anche un rischio di degenerazione latente in ogni sistema di pensiero, anche quando parta da premesse positive. In questa nostra epoca post-moderna, la religione ha messo in evidenza il suo nucleo originario, arcaico, che non è la fede ma il sacrificio, la crudeltà: il disincanto è diventato un idolo, ha i suoi sacerdoti e pretende le sue vittime; la faziosità, la pura ricerca di capri espiatorii, surroga egregiamente la fede. L’idea dell’evoluzione lineare, del progresso, può quindi rivelarsi fuorviante, poiché può indurre delle false rassicurazioni, utili per giustificare i sacrifici umani del passato, del presente e del futuro. Ci si potrebbe domandare perché Bakunin non si sia semplicemente sbarazzato del l’idea di progresso e quindi del fardello del pressoché in finito potenziale mistificatorio di tale idea; tantopiù che, con la cosiddetta “globalizzazione”, ormai il suono della parola “progresso ” ha mutato la sua melodia rassicurante in una sorta di stridore inquietante, irto di infausti presagi (un po’ come è già capitato con il termine “riforma”). In realtà l’idea di progresso può svolgere anche una sua valida funzione di filtro, senza la quale il passato – che poi, con tutta l’ingombrante eredità delle sue sedimentazioni e delle sue fisiche testimonianze, è presente più del presente stesso -, ci aggredirebbe soltanto con il peso del suo immenso carico di orrori e di ingiustizie. E l’idea di progresso a darci il senso delle distinzioni, permettendoci di ammirare il senso estetico ed il sapere matematico che ha perm esso di edificare le cattedrali gotiche, senza avallare, per questo, anche la visione teocratica che le ha ispirate. Si tratta quindi di saper vedere l’elemento ingegnoso e liberatorio anche in quei fenomeni in cui si trova commisto con l’oscurantismo oppressivo; il punto è che il primo non può essere invocato per fornire alibi al secondo. Occorre perciò togliere al progresso il suo mistificatorio alone inevitabilistico e giustificazionistico, per restituirlo alla sua dimensione autentica di conflitto e dissenso, il che vuol dire che è da verificare sino in fondo ogni pretesa di progresso.
Comidad 29 settembre 1999
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Nota dell’Archivio
-Traduzione dal francese “Appendice: Considérations philosophiques sur fantome divin, le monde réel et l’homme” (1871)