Ruta Carlo, “Morte a Ragusa. Il delitto Tumino, Giovanni Spampinato e le macchinazioni della legge”

Edito da Edi.bi.si, Palermo, Gennaio 2005,

“Il delitto Spampinato oggi” di Carlo Ruta
Ragusa ha rimosso, al più commemora, ma il caso rimane aperto. Restano impuniti gli istigatori di quella uccisione e gli organizzatori del delitto Tumino, che ne fu la premessa. L’affare coinvolse a vario titolo uomini delle istituzioni, fra cui l’attuale procuratore della Repubblica Agostino Fera
Sono passati trent’anni dall’uccisione di Giovanni Spampinato, giornalista del quotidiano di Palermo “L’Ora”. Ma di là dall’epilogo giudiziario, il caso non può dirsi chiuso, benché risulti sigillato dal silenzio dei protagonisti viventi e dai deficit di memoria della città. Spampinato venne ucciso da Roberto Campria, figlio del presidente del tribunale di Ragusa, il 27 ottobre 1972, su istigazione di ignoti. Fu un omicidio studiato, bene organizzato, per il quale alcune settimane prima l’esecutore aveva acquistato a Caltagirone una pistola a tamburo e una rivoltella, perché fosse certo l’esito voluto. Campria era un instabile. Era appassionato di armi, con cui spesso circolava in città e fuori. Nelle settimane che precedettero il delitto bruciava di tensione. Ma quella notte operò con cognizione.
Diretto antecedente fu l’assassinio dell’ingegnere Angelo Tumino: antiquario, amante della bella vita, con un passato di costruttore e una parentesi di consigliere comunale del Msi. L’omicidio maturò in una frontiera mossa, che accordava in modo inconsueto eversione nera e affari, di cui Giovanni Spampinato fu cronista attento. In tale frontiera, rappresentativa del moto di avventura che in quella stagione colpì in particolare il sud, convenivano e si compromisero esponenti della Ragusa influente. Si consumava cocaina, si giocava d’azzardo, si coltivava il mito della forza, si preparava lo “scontro fisico”, si attrezzavano palestre e poligoni di tiro, ma più celatamente si faceva altro: si commerciavano reperti archeologici, si colludeva con i contrabbandieri e i ricettatori, si tessevano accordi con i palermitani e i trapanesi, sempre più interessati ai terreni e ai forzieri del sud est.
L’ucciso era stato in stretto contatto con il figlio del presidente del Tribunale, Roberto Campria, vocato ai torbidi e, come detto, fanatico di armi. E per più ragioni su costui si addensarono dei sospetti, di cui si fece portavoce, dalle colonne de “L’Ora”, Giovanni Spampinato. Il Campria, che godeva della fiducia di Tumino fino a tenerne le chiavi di casa, non poté partecipare beninteso all’assassinio. L’alibi offertogli dalla famiglia della fidanzata resse dopo la rottura del vincolo e addirittura dopo l’omicidio del cronista. Ma dopo l’uccisione di Tumino, prima comunque che la cosa divenisse pubblica, commise degli errori: fece delle telefonate sospette, si recò a casa dell’antiquario, verosimilmente per sottrarre documenti. Di certo era al corrente della trama. Con buona probabilità vi aveva partecipato obliquamente. Incalzato da Spampinato, finì con l’aprire allora una lesione, che si cercò di sanare in tutti i modi, con il concorso del braccio giudiziario.
Dopo il ritrovamento del corpo di Tumino in contrada Ciarberi, il 26 febbraio 1972, l’istruttoria venne assunta dal sostituto Angelo Ventura, sotto la supervisione del procuratore Francesco Puglisi e con l’ausilio del sostituto Agostino Fera. E dalla visuale degli assassini di Tumino, erano le persone che servivano. Per tradizione, il Palazzo di giustizia ragusano si ergeva sugli affari, che facevano capo proprio alla Procura, dove la concussione costituiva uno stile di lavoro. Era normale, per esempio, che i politici governativi del tempo, i Giummarra, i Lupis, altri, lasciassero nell’ufficio del Puglisi delle buste sigillate, specie nelle prospettive di elezioni, perché tutto scorresse liscio sotto il profilo giudiziario. Ed era ugualmente normale che il procuratore utilizzasse dei detenuti del carcere ragusano per lavori privati, nella sua tenuta agricola di Santa Croce Camerina, in accordo con il direttore della casa circondariale Carmelo Mauro: complice dei capimafia Rimi di Trapani, quando costoro furono “detenuti” presso il carcere in spregio ai regolamenti dell’epoca, e uno dei più importanti agganci iblei degli esattori Salvo di Salemi e di Michelangelo Aiello di Bagheria. Una Procura di tal fatta si ritrovò dunque l’onere di indagare sull’omicidio Tumino, con esiti da scandalo.
Per forza di cose, vennero incaricati delle indagini sul terreno i carabinieri del comando ragusano, i quali si mostrarono solleciti. Dopo pochi giorni, infatti, trasmisero agli inquirenti un rapporto nel quale si chiariva lo sfondo dell’assassinio e le persone che potettero organizzarlo, legati a vario titolo ai commerci d’arte e di antiquariato. Nel rapporto, venivano fatti in particolare i nomi di Roberto Campria e di altri quattro individui, di cui qualcuno, si disse allora, di rilievo eccezionale. Si trattava di firmare allora cinque mandati di arresto, che non vennero tuttavia spiccati, mentre si provvide a fare sparire il rapporto, di cui non si sarebbe saputo nulla se di quella omissione non avesse detto in un memoriale il presidente del tribunale, a tutela sua e del figlio, dopo l’assassinio di Giovanni Spampinato. Scriveva il magistrato: “Durante l’istruttoria sul delitto Tumino (…) mio figlio si è fatto ricevere dal sostituto procuratore Fera (…). Continuando a conversare, lo stesso sostituto ha detto a mio figlio che, in un certo momento, era stato disposto un provvedimento di fermo per lui e per altre quattro persone: provvedimento che era stato ritirato per riguardo a me”.
Il sostituto naturalmente negò quell’episodio. Ma non è pensabile che il presidente l’avesse tirato in causa per arbitrio. All’acme della carriera e con l’alterigia da status che si ritrovava, Campria non aveva ragioni per comprendere fra i nemici personali il Fera, che, appena trentaquattrenne, recava dietro solo il tirocinio di uditore giudiziario, a Gela prima che a Ragusa. Del resto, nel suo memoriale non ebbe remore a indicare in un presidente di tribunale in servizio nel Nisseno il magistrato che ordiva a suo danno, mentre erano noti, nella città influente, i suoi dissapori con Puglisi, pure lui al culmine della carriera. Quanto dichiarò sul Fera e sui cinque mandati di fermo “ritirati” è perciò attendibile. E dovette certo far riflettere i magistrati catanesi che indagarono, senza esito, sul delitto Spampinato.
L’alt a indagini autentiche era corroborato verosimilmente dal ricatto e da altre ragioni intrinseche. Timorosi degli effetti di uno scandalo, di sicuro gli inquirenti cercarono di coprirsi, di non arroventare le tensioni con il presidente del tribunale Campria, notoriamente vendicativo e votato pure lui all’intrigo, se in accordo con alcuni politici dc aveva fatto carte false ed esercitato pressioni inaudite perché il figlio Roberto lavorasse alla Provincia. Assunte come veritiere le dichiarazioni dell’alto magistrato, il gioco dovette essere però più complesso di quanto il sostituto Fera non avesse fatto credere al giovane “sospettato”.
La terna inquirente, Puglisi-Ventura-Fera, non si allontanò comunque dal canovaccio prescelto, con omissioni e interventi ad hoc là dove l’affare presentava scoperture. Qualche esempio ne dà la misura. Il 26 febbraio, giorno successivo al delitto di contrada Ciarberi, due finanzieri segnalarono, autonomamente l’uno dall’altro, due individui sospetti dentro un’automobile, di cui annotarono la targa. Entrambi riconobbero in una delle due persone il romano Vittorio Quintavalle, legato al golpista Junio Valerio Borghese, e l’auto risultò essere di Tumino. Ma arrivò rapida la sconfessione degli inquirenti. L’automobile non era di Tumino e fra gli occupanti non c’era l’uomo del principe nero. Presente da qualche anno a Ragusa e “amico” di Tumino, Quintavalle era in realtà fra i maggiori sospettabili del delitto, con il pregiudicato Giovanni Cutrone, legato pure lui alla destra estrema. Ma di fatto venne permesso a entrambi di sparire dalla città, dopo essere stati blandamente interrogati. Nessuno ovviamente cercò di rintracciarli.
Tale logica, complice e omissiva, seguitò a valere del resto con Roberto Campria, fino all’epilogo d’autunno. Benché privo del porto d’armi e sospettabile del delitto Tumino, costui poté continuare a tenere in casa un’autentica armeria, poté insistere a circolare armato, potè addirittura ampliare la sua “collezione”. Il 7 ottobre denunziò alla questura l’acquisto, a Caltagirone, di una pistola Herma Luger e una rivoltella Smith &Wesson. Gli scopi potevano essere intuibili, ma nessuno provvide a disarmarlo. Altro atteggiamento valse ovviamente per Giovanni Spampinato, che costituì per gli organizzatori del delitto e i complici il maggiore inconveniente. Il cronista finì sotto controllo, con l’ovvia autorizzazione della Procura, che avrebbe dovuto condividere con lui la ricerca della verità. Scoprì che le sue telefonate venivano intercettate. In più occasioni, in città e fuori, addirittura a Siracusa, scorse di essere pedinato da agenti di PS ragusani. Intanto veniva minacciato impunemente dal Campria. In definitiva, le omissioni e le scelte di campo della Procura ragusana fecero sì che l’omicidio si compiesse.
Il tempo non ha mutato i giochi. Come si diceva nell’incipit, a onta dei decenni, il caso è aperto, in tutti i sensi. Il silenzio ostinato di Roberto Campria testimonia una minaccia che persiste, fino a soverchiare il bisogno di risarcimento, che pure il medesimo mostra di avvertire. Francesco Puglisi e Saverio Campria sono scomparsi, portandosi dietro il loro bagaglio di segreti. Ma altri protagonisti sono presenti e restano scandalosamente in auge. Angelo Ventura è procuratore unico a Gela. Agostino Fera lo è a Ragusa, dove ha elaborato in maniera autonoma una certa tradizione, di affare in affare, senza soluzione.

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