Edito da Collana Vallera, Iglesias, 1976, 144 p.
Introduzione
La rivoluzione industriale arrivò molto tardi in Giappone. Fu il risultato logico di una politica di totale isolamento che bloccò l’arcipelago per tre secoli. Mentre il mondo si scopriva geografica mente, si scrollava il medioevo e si gettava nell’avventura della macchina inaugurando la produzione massiva a spese di una nuova classe: il proletariato, il Giappone, con i porti chiusi al mondo, viveva in un regime feudale, di casta, sostenuto esclusivamente da un’agricoltura intensiva, come quella conosciuta da Francesco Javier al suo sbarco nell’Impero del Sol Levante nel 1549. Quando nel 1853 il comandante Perry inaugurò con le cannonate delle moderne navi da guerra statunitensi, le comunicazioni col Giappone, si scoprì una triste realtà: la evidente arretratezza nei campi della tecnica, dell’educazione, del commercio, dell’industria, della politica, della medicina, del trasporto… Fu allora che, a marce forzate, l’imperatore Meiji diede al suo impero tutte le più avanzate innovazioni dell’Occidente. Per ottenere ciò, non esitò ad assumere in forma massiccia tecnici e scienziati stranieri ed a mandare, parallelamente, grossi contingenti di studenti giapponesi nei paesi industrializzati dell’Europa e del Nord America. Prima che il secolo XIX finisse, il Giappone aveva già uguagliato il livello del mondo industriale e moderno ed aveva inoltre vinto la sua prima guerra internazionale contro la Cina, la fornitrice più ricca e più vicina di quelle materie prime di cui un Giappone industrializzato e mancante di esse aveva bisogno. Di genuinamente originale niente o poco potè utilizzare il Giappone che si potesse adattare al grosso cambiamento che si sta va compiendo. Le macchine, i mezzi, le tecniche di produzione e di commercio, il sistema di lavoro, la istruzione primaria e superiore, tutto era una copia fedele di Manchester, della Ruhr, di Pittsburg e persino il suo stesso sistema di repressione poliziesca era fedele modello di quello tedesco. Il Mikado non prese alcuna iniziativa per quanto riguarda ciò che in Europa ed in America costituiva parte integrante, indissolubile ed inerente del sistema: le forme di dottrina sociale, frutto della rivoluzione industriale; ma le correnti rivoluzionarie si installarono in Giappone con la stessa velocità dei complessi industriali, dei tecnici e degli istruttori. L’unica differenza fu che mentre questi entravano in Giappone dalla porta degli invitati, i germi rivoluzionari entravano nel paese dalla porta di servizio. Lungo tutto il lavoro che segue si noterà un visibile sforzo per dimostrare che in Giappone è sempre esistita, come in tutti i paesi che hanno basato sulla coltivazione della terra le fondamenta del loro sistema economico, un’anima genuinamente libertaria. Allo stesso modo, e questo non abbisogna di esempi concreti, lo spirito di ribellione è sempre stato presente nell’animo degli oppressi. Tutto ciò, tuttavia, non aveva molti sbocchi rispetto a tutto il sistema, massicciamente importato, per cui si giustifica, nel campo avverso, la importazione, pur’essa massiccia, delle idee rivoluzionarie. Per quanto riguarda l’anarchismo, nonostante l’originale figura di Ando Shoeki, il William Godwin giapponese, gli anarchici nipponici lo hanno assorbito, praticamente tutto, dai teorici dell’anarchismo europeo. Kotoku ed Osugi, le due più importanti colonne dell’anarchismo in Giappone, nonostante la loro intelligenza ed il loro spirito creativo, preferirono immergersi nella traduzione dei testi di Kropotkin, di Bakunin, Proudhon, ecc. nei quali l’ideale era già ordinato, discusso ed approvato, piuttosto che far ricorso al lungo travaglio di un’esposizione originale degli ideali libertari. Lo stesso vocabolo « anarchismo » venne assimilato cosi com’era, allo stesso modo che la maggior parte di quelli introdotti nel paese — macchinari, tecnicismo, sistema metrico decimale, scienza, istruzione, sistema politico, ecc. — venivano accolti col nome del luogo d’origine. Al rivoluzionario occidentale è stato sufficiente ricorrere alla fonte della nostra cultura, la Grecia, per confezionare, come fece Proudhon, con una radice ed un prefisso, il nome dell’ideale libertario: anarchismo. Il giapponese, per definire un corpo di dottrina sociale che neghi la autorità, ha bisogno di cinque segni ideografici: Mu, che significa assenza, sei, che vuol dire politico, hu, per la parola organismo, shu, per principio egi, che denota un -ismo di modo che tutta la parola, per il purista di linguistica, sarebbe « museihushugi » la vera accezione per designare l’anarchismo in giapponese, per cui di rado si è soliti usare, nei testi anarchici del Giappone, questo lungo vocabolo. L’anarchismo in Giappone ebbe un’epoca eroica che, cronologicamente parlando, potremmo collocare tra gli anni 1903 e 1937. Il lettore troverà, nelle pagine che seguono, la storia di un movimento di puri, di mistici e di martiri, il cui corrispondente difficilmente potremmo trovare in altre coordinate geografiche. Essere anarchico, in Giappone, fino alla catastrofe della seconda guerra mondiale, era una condanna a morte potenziale. Un professore della Facoltà di Economia dell’Università di Tokio, N. Morito, che ebbe la ventura, nel 1920, di scrivere uno « Studio del Pensiero Sociale di Kropotkin », nonostante non fosse nemmeno un simpatizzante del movimento anarchico giapponese, venne condannato ad un anno di carcere e gli fu precluso, per l’avvenire, di esercitare la sua professione di insegnante. Il primo massacro « legalizzato » contro l’ideale libertario, ebbe luogo il 24 gennaio 1911 quando dodici anarchici furono impiccati per il delitto di lesa maestà. La polizia e l’esercito organizzarono quella che venne definita la grande Rivolta (Dai Yaku Jiken), con lo scopo di sbarazzarsi delle figure più in vista del movimento anarchico, appena all’inizio ma già incalzante. Il fatto ebbe risonanza internazionale poiché, tra gli impiccati, v’erano un medico, uno scrittore, due giornalisti, un sacerdote buddista, un funzionario, due proprietari, un commerciante, operai, studenti e contadini, il che dimostrava la falsità dell’accusa. Una diversità di professioni tanto evidente era assolutamente incompatibile con la finalità che, secondo la polizia e l’esercito, gli accusati si erano proposti. Si ebbero pure molte condanne al carcere. Di questo ci rinnovano il ricordo le agenzie internazionali di informazione che, in un cablo del 16 gennaio 1975, annunciano la morte di Seima Sakomoto, una delle vittime della Grande Rivolta, condannato al carcere e morto quello stesso giorno, ad 87 anni d’età. All’assassinio collettivo del 24 gennaio 1911 ne seguirono molti altri. Emerge, sugli altri, quello che ebbe luogo i primi giorni del settembre 1923 quando vennero attribuiti agli anarchici ed ai coreani gli incendi e le devastazioni che seguirono il tremendo terremoto del 1° settembre. In quell’occasione fu impossibile dare una cifra esatta degli anarchici caduti. Infine, quando il 7 luglio 1937 il Giappone dichiarò ufficialmente guerra alla Cina, la repressione contro gli anarchici superò, in ferocia, tutte le prece denti. Si dovette attendere la fine della Seconda Guerra Mondiale per conoscere l’esatta situazione dell’anarchismo giapponese. Sorprendentemente, qualche libertario era sopravvissuto, prima alla repressione della polizia e dell’esercito, e poi, al disastro del conflitto mondiale. Una nuova era si prospettava per l’anarchismo in Giappone ed il 12 maggio 1946 i libertari giapponesi si organizzavano di nuovo. La Federazione Anarchica Giapponese cominciava il suo lavoro. Questo scritto cerca di essere un primo apporto di maggior profondità rispetto agli articoli che con una certa intermittenza compaiono nella stampa anarchica internazionale intorno alla storia dell’anarchismo in Giappone. È un contributo a questa storia che rimane tanto sconosciuta agli anarchici dell’Occidente. Come abbiamo sottolineato all’inizio di questa introduzione, il giapponese ha continuamente bevuto alle sorgenti dell’Occidente. La nostra storia, la nostra cultura, le nostre idee sono state seguite, dal giapponese, senza scosse nel suo cammino. A noi anarchici d’Europa e d’America è mancato il desiderio di reciprocità che ci avvicinasse maggiormente agli anarchici dell’Estremo Oriente. Si conosce pochissimo sulle lotte anarchiche, sulle polemiche sostenute per lo scontro di interpretazioni opposte, sulle necessità e sulle inquietudini di quelli che, agli antipodi, pensano che la umanità debba scrollarsi di dosso il giogo dello Stato ed ab bracciare l’ideale che maggior libertà porta in sé.