Bonanno Alfredo Maria, “Critica del sindacalismo”

Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, 2009, 190 p., Seconda Edizione

Introduzione alla prima edizione
Visto a distanza di più di vent’anni questo scritto contiene alcune interessanti previsioni. Niente d’eccezionale, beninteso, ma in questa materia la capacità di prevedere è essenziale alla nozione stessa del vedere. Alla metà degli anni Settanta il mondo era ancora legato alla rigidità produttiva, il Capitale, arroccato nelle sue roccaforti si difendeva ricorrendo agli ultimi frutti del vecchio taylorismo. Si cercava in tutti i modi di razionalizzare la produzione applicando nuove e complicate tecniche di controllo dei tempi, riducendo i meccanismi d’autodifesa che la classe operaia aveva ritagliato nel corso di un secolo e mezzo di sfruttamento alla catena.
In verità i risultati non erano brillanti. Le difficoltà del Capitale crescevano, e continueranno a crescere fino alla metà degli anni Ottanta, quando la svolta organizzativa resa possibile dell’innesto telematico nella fabbrica classica, la tesi di politica economica fondata sulla flessibilità e sullo smembramento della produzione nel territorio, la crescita del mercato indotto dal terziario avanzato, oltre agli effetti della precedente crisi del petrolio, renderà possibile un quadro diverso.
Alla metà degli anni Settanta, la classe operaia si presenta ancora monolitica nei suoi contrafforti di fabbrica, considera con sospetto le manovre del Capitale (invero si tratta di manovre che si attardano su teorie vecchie di cinquant’anni), e si prepara ad una strenua resistenza sul posto di lavoro.
In questa mentalità resistenziale i sindacati, in quell’epoca ormai lontana e scomparsa, trovavano la loro forza e anche la loro stessa possibilità di sopravvivenza. Rappresentare la classe più avanzata nello scontro con i proprietari dei mezzi di produzione, nello schema delle sinistre europee (per le condizioni rispettive dell’URSS e degli USA andrebbe fatto un discorso diverso), dava ai sindacati una consistenza teorica che non avevano diritto alcuno a rivendicare. La situazione era questa. La stessa rigidità dei costi di produzione (manodopera in primo piano) che il Capitale era costretto ad affrontare, vestiva i rappresentanti di questa manodopera di un’aura ribellistica che essi peraltro sfruttavano al meglio delle possibilità.
Gli anarchici stessi, dopo tutto (e di là dalle loro stesse capacità di capire l’eredità di cui erano portatori), non andavano oltre a qualche piccolo discorso d’avanzamento rivendicativo. Tutti, più o meno compatti, nelle organizzazioni di sintesi europee, accettavano l’idea della rappresentatività sindacale e guardavano con ammirazione ai compagni svedesi, artefici della riuscita della SAC, con quasi un milione di aderenti. I compagni spagnoli, in esilio in Francia, nelle riunioni della CNT, ricordavano i tragici errori della guerra civile spagnola, ma non mostravano sufficiente grinta critica per metterli chiaramente sul tappeto.
Non poteva essere altrimenti. Ad una certa condizione della distribuzione dei mezzi di produzione, corrisponde una certa capacità organizzativa delle forze di resistenza allo sfruttamento.
Ragionamento deterministico? No di certo. Chi entra in una fogna non può non sentirne la puzza, è nella logica naturale delle cose.
Per vedere le possibilità critiche di un’analisi del sindacalismo, nell’atmosfera operaista e resistenziale della metà degli anni Settanta, occorreva sottrarsi alla mentalità dominante di un’epoca, e in questo allontanarsi dalla realtà non illudersi di essere in grado di potervi incidere dall’esterno, per la virtù stessa della maggiore fondatezza critica di quello che si poteva così riuscire a dire. In fondo, in quell’epoca ormai remota, la gente voleva sentire il discorso sindacalista, voleva che nelle fabbriche ci fossero rappresentanti sindacali in grado di tutelare le lotte e di garantire i risultati, anche se poi tutto rientrava nella maggiore gloria di un contratto meglio agghindato di stupidaggini e di piccole concessioni subito inghiottite dall’aumento dei prezzi al consumo.
In fondo l’ideologia fordista (e taylorista) era un tentativo estremo di ricollegare organicamente il Capitale allo Stato, in modo da produrre in piani di sviluppo centralizzati e capaci di controllare i perturbamenti del mercato. Così si pensava, e si continuò a pensare, che l’accettazione delle proposte del capitale, mutuate dalla garanzia statale, potesse condurre il proletario verso quel rafforzamento considerato indispensabile al balzo successivo verso la grande avventura della rivoluzione. Il rafforzamento diventava dapprima sicurezza sociale, poi, in contraccambio, mobilità e garanzia di evitare perturbamenti estremi, infine, funzione di volano della domanda per assicurare livelli adeguati di produttività e continuità lavorativa.
Un compromesso evidente che, sia pure con difficoltà, poteva essere letto nella realtà degli anni Settanta, e il presente opuscolo lavorò in questa direzione. Una funzione collaboratrice e garantista che il sindacato aveva da sempre custodito dentro di sé, come l’anima sporca del traditore, e che così veniva alla fine in superficie sostenendo la dissoluzione del precedente modello di compartecipazione e diventando produttore in proprio di pace sociale. Da qui il passaggio successivo: di fronte all’emersione dei limiti strutturali dello sviluppo economico inteso come certezza deterministica del futuro, in cui il sindacato assumeva definitivamente il ruolo di testimone della frantumazione operaia, non solo impotente a porvi freno (che senso avrebbe fermare la storia!), ma anche interessato a sviluppare il processo in corso fino alle sue ultime conseguenze. La drammatica miopia dell’analisi marxista mostrava qui tutti i suoi risvolti tragicomici: nessun movimento sociale può liberarsi del proprio destino se non lo realizza fino in fondo. Alla fine, non c’era altro che la cenere delle cattive volontà addomesticate sotto la prosopopea d’un linguaggio rivoluzionario senza riferimenti concreti ad una realtà di lotta.
Escluso, frammentato, emarginato, precarizzato, diluito in mille prospettive, il proletariato scompariva come figura antagonista (se mai ci fu un tempo in cui questa figura ebbe ad avere una sua veste storicamente precisabile nell’immane scontro per liberarsi dallo sfruttamento), lasciando dietro di sé le tracce d’ogni illusione perduta, i compagni morti, gli ideali traditi, le bandiere nel fango.
La nuova realtà produttiva manifesterà un’eterogeneità impensabile qualche decennio più tardi. Il sindacato velocemente si adegua, partecipa alla diluizione, anzi se ne fa artefice e propugnatore, accetta la bassa intensità di lavoro in contraccambio di una rappresentatività che ormai è solo una delle ruote, e neppure la principale, del meccanismo produttivo capitalista. Il ciclo lavorativo si scioglie a livello mondiale, i confini e le frontiere, prima di essere tagliati dalla rivoluzione dal basso, sono superati da una ristrutturazione dall’alto.
L’opuscolo che ripresento lo scrissi quindi in un clima tutt’altro che ricettivo e lo pubblicai su “Anarchismo”, precisamente nel n. 2. Una rivista che era da poco venuta alla luce, nel 1975, come un pugno in occhio per il movimento anarchico italiano. L’anno dopo, la traduzione inglese non ebbe di certo migliore accoglienza, per quanto curata anche da alcuni compagni che facevano parte dell’ala sindacale più critica delle organizzazioni scozzesi del settore metallurgico.
I tempi non erano maturi. Bene, e ora?
Ora, i tempi sono maturi. Sono maturi a tal punto che alcune di queste tesi possono perfino sembrare ovvie. Tali però non sono. Mi preme qui ricordare alcuni punti teorici perché una critica del sindacalismo resta ancora valida, sia pure aggiornata alle condizioni attuali dello scontro tra esclusi e inclusi.
I sindacati sono oggi importanti forse più di prima, non per il motivo che li reggeva nel 1975 (e continuò a reggerli fino a metà degli anni Ottanta), ma per il motivo inverso. Se prima sostenevano la classe operaia nelle sue posizioni resistenziali, limitandone però, nello stesso tempo, le pulsioni rivoluzionarie nell’ambito del dialogo e del recupero contrattuale, adesso sostengono il Capitale per garantirne gli esiti produttivi in una condizione generalizzata di mobilità della manodopera. L’attuale funzione sindacale è quindi quella di gestire la malleabilità dei produttori, di partecipare ai movimenti delle masse produttive da un settore all’altro, di predisporre l’offerta del lavoro in base alle necessità della domanda. Ciò significa un’ingerenza sindacale a monte e a valle. A monte, negli accordi con il Capitale e lo Stato, sia per i diversi contratti (ormai solo parzialmente significativi e territorialmente differenziati), sia per il mantenimento di un tasso organico di disoccupazione cioè al di sotto dei livelli di pericolo; a valle, nella continua e capillare organizzazione delle richieste, dei desideri, dei sogni e perfino dei bisogni di chi è ancora legato ad un salario per vivere (non ha importanza che a questo salario corrisponda una vera produttività di merci in termini tradizionali).
Così, quasi senza accorgersene (e gli anarchici, come sempre, hanno fatto di tutto per non vedere il fenomeno se non nei suoi aspetti marginali), alla base si è sviluppata un’idea resistenziale più avanzata, quella dei Cobas. Per carità, nulla d’eccezionale, ma si trattava pur sempre di un’indicazione. Lo scopo era sempre quello rivendicativo, ma qui l’attenzione poteva essere portata sui metodi, cioè poteva venire fuori una prevalente importanza dei mezzi impiegati sui fini da raggiungere. Non so se la parola “sabotaggio” sia mai stata pronunciata in queste riunioni di brave persone, ma di certo la distanza che queste strutture di base avevano percorso nei riguardi dei sindacati era stata segnata proprio da questo problema: attaccare il Capitale nelle sue realizzazioni per scuoterlo a migliori intese, oppure lasciare che la semplice contrattazione più avanzata segnasse la differenza?
Non c’è dubbio, come ho avuto modo di dire più volte, che la differenza radicale è sempre quella segnata da un abbandono dei metodi resistenziali e dal passaggio al metodo dell’attacco.
La prima condizione per porre in atto questi metodi d’attacco (a prescindere dalla richiesta che può sempre restare rivendicativa) è quella di non delegare ai propri rappresentanti (sindacali o para-sindacali) la decisione della lotta. La conflittualità deve pertanto essere permanente. Nessuna organizzazione di base (Cobas d’ogni genere) accetta fino in fondo questa tesi, essenziale per parlare di vera e propria fuoriuscita dalla resistenzialità sindacale.
Ma il problema è ancora più ampio. A differenza di quanto accadeva a metà degli anni Settanta, oggi è ormai evidente che il Capitale ha imboccato una via senza ritorno. La telematica ha permesso di smembrare definitivamente la classe operaia. Non solo questo smembramento è visibile nello spazio, essendo in via di polverizzazione la grande cattedrale produttiva, spesso ubicata strategicamente nel deserto e non nella grande città, ma la frantumazione si è realizzata in modo più profondo, direi più intimo, ha penetrato a livello della coscienza proletaria, fino a polverizzarla, rendendola disponibile, malleabile, fruibile in tutte le prospettive d’impiego suggerite dal sindacato e messe a disposizione dal Capitale.
Il produttore nuovo che è uscito fuori da questo sconvolgimento del tradizionale assetto produttivo capitalista è abbandonato a se stesso, non ha più una coscienza di classe, non vede a portata di mano (e quindi d’azione) i suoi compagni di lavoro, è aizzato in una falsa conflittualità tutta interna alla produzione stessa, riceve incentivi che lo spingono a farsi poliziotto e spia d’eventuali comportamenti antiproduttivi dei suoi vecchi compagni di lavoro, non tiene più in pugno strumenti di lavoro che non gli appartengono e di cui desidera impadronirsi (questi strumenti sono stati quasi sempre virtualizzati dalla tecnologia telematica), non sogna più un mondo diverso, libero dal lavoro coatto, un mondo in cui i mezzi di produzione, finalmente espropriati al padrone, potrebbero costituire la base per una comune vita felice, per un benessere collettivo. Tira a campare, sta attento a non farsi espellere dal giro della flessibilità: oggi saldatore, domani giardiniere, poi necroforo e pasticciere, infine bidello. Tira a campare, e non spera altra fortuna per la sua progenie che quella di un salario qualsiasi, in una prospettiva di degenerazione culturale di cui non si rende più nemmeno conto, un salario qualsiasi per sopravvivere. I sogni del passato, i sogni – perché no? – della rivoluzione, i sogni della distruzione definitiva d’ogni sfruttamento e d’ogni potere, sono finiti. La morte è adesso nel cuore, la morte e la sopravvivenza.
Oggi, nel momento in cui quasi tutto quello che va fatto deve essere ripreso da cima a fondo, mentre sull’umanità cala la nebbia invisibile dell’imbroglio tecnologico, mettere da parte l’ostacolo sindacale per andare avanti è assolutamente indispensabile. E questo testo, che ha segnato l’inizio di una messa in sospetto del sindacato, di qualsiasi sindacato, anche di quello cosiddetto anarchico, torna di attualità.
Catania, 6 gennaio 1998
Alfredo M. Bonanno

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Catania, 1998

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