Bonanno Alfredo Maria, “A mano armata”

Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, 2009, 332 p., Seconda Edizione

Introduzione alla prima edizione
La vera arma dell’uomo è la mano.
L’uomo è un animale che la natura ha selezionato con una mano dal pollice contrapposto alle altre dita.
Un animale che afferra, che vuole prendere, tenere saldo in mano, far proprio.
L’arma nel suo significato essenziale è quindi la protesi che incrementa la capacità attiva della mano. Protesi significava in greco l’atto di mettere davanti. Ben considerando, dalle frecce le cui punte erano ricavate da pezzi di selce opportunamente appuntite, impiegate dai nostri remoti progenitori, fino alle sofisticate armi attuali, che colpiscono a distanza e moltiplicano a migliaia l’unico bersaglio d’un tempo, la linea di sviluppo tecnologico è unitaria e ininterrotta.
Impiegare un’arma è facile. Anche un imbecille può quindi essere a mano armata. Anzi, nella maggior parte dei casi, dietro un’arma spianata ci sta quasi sempre un imbecille, o almeno, qualcuno che è costretto con le spalle al muro.
La società produce una costante emarginazione, il suo meccanismo impietosamente concorrenziale sollecita verso l’estrema periferia della sopravvivenza un enorme quantitativo di persone.
La mancanza di lavoro è solo una parte del problema, spesso un luogo comune e un alibi.
Chi non ha lavoro si arrangia in qualche modo, riduce le pretese, essenzializza la propria domanda di beni, si scava una nicchia nella società che, in questo caso, è perfino disposta a venirgli incontro, ad aiutarlo con qualche misero sussidio, ma vuole prima accertarsi della sua disponibilità a restare ai patti.
Il lavoro in se stesso può essere tale da tradursi in un prendere in mano le armi. Pensate al militare, al poliziotto, alla guardia del corpo, mestieri che prevedono istituzionalmente l’uso delle armi, e per i quali è prevista perfino una indennità di rischio che aumenta, sia pure di poco, l’emolumento salariale di base.
Chi indossa la divisa, qualsiasi divisa, la mattina, mettendo l’arma in tasca, e imbracciando il mitra d’ordinanza, non fa nessuna riflessione in merito, sono movimenti condizionati, spenti dal mestiere nell’ottundimento dei significati morali che il gesto potrebbe ancora presentare, al lumicino di una piccola riflessione.
A mano armata è quindi un problema di riflessione, un moto della coscienza, un momento, sia pure estremamente concentrato nel tempo, in cui chi impugna un’arma cerca di capire perché ha scelto quella protesi di particolare violenza e aggressività.
Tornando alla questione della protesi, mi sembra evidente che anche nella scelta più articolata può esserci un residuo di stupidità. Non c’è mai una collocazione netta in quest’ordine di cose. Niente è bianco e nero. La vita è sfumatura e modulazione, anche nella stupidità.
Ho visto compagni, di cui apprezzavo la disponibilità umana e l’impegno rivoluzionario, maneggiare con voluttuosa accuratezza e con evidente soddisfazione un’arma, accarezzarne l’acciaio brunito e liscio, ammirarne la struttura e la potenza, forma d’imbecillità più diffusa di quanto non si creda, anche fra compagni.
Quindi, tra il pugno che stringe l’arma e l’arma che viene stretta nel pugno, nella mano che la ospita e la padroneggia, deve esserci un contatto, una sorta di confine psicologico, sempre presente nella coscienza dell’individuo che quell’arma impugna, che ha deciso di impugnare.
Questo contatto non può mai invertire il proprio senso direzionale, cioè l’oggetto non può mai prevalere sulla condizione critica che ne ha sollecitato l’uso, descrivendone gli elementi positivi in quanto protesi tecnologica capace di accrescere le capacità di chi l’impiega.
Certo, la natura stessa di questa facilitazione può travalicare in una più o meno estesa degenerazione della condizione critica di partenza. L’arma fa sentire forti e invincibili, e questa condizione di sudditanza nei riguardi della protesi, se prolungata nel tempo e incrementata da una certa disponibilità di strumenti, può arrivare all’estremo che fa quasi sentire di essere nudo in caso di mancanza chi ha fatto l’abitudine ad andare in giro armato.
E la nudità è, oltre che fortuito accadimento contingentale, anche più spesso, condizione psicologica di inferiorità.
La crescita di potenza, dovuta al possesso fisico, allo stesso contatto tra la pelle e l’oggetto, non dovrebbe mai sfuggire alla condizione critica vista sopra, pena una subordinazione alla protesi e una inadeguata capacità di vedere tutti i limiti che quest’ultima comporta.
Non c’è dubbio, infatti, che avere un’arma in pugno non significa, di per sé, disponibilità a usarla. La cosa è ancora più fondata in rapporto alla potenza mortale della stessa protesi. La crescita dell’illusione di potenza, a volte ridicolmente sconfinata, non fa sparire del tutto la vigile valutazione morale delle conseguenze relative all’uso concreto dell’arma.
Questi due elementi, che sembrerebbero escludersi a vicenda, non si annullano reciprocamente ma si fronteggiano con forza e finiscono spesso, dove l’imbecillità non ha di già avuto la meglio, per costituire una irrisolvibile contraddizione, carica a volte di conseguenze mortali per chi ha sprovvedutamente spianato l’arma senza rendersi conto di non essere disposto a usarla.
Di per sé, la ferocia con cui l’arma viene usata in molti casi (basta pensare agli eccidi di massa o alle esecuzioni, oppure alla banale obbedienza agli ordini per quel che riguarda i militari), è l’esatto contrario del comprendere e decidere quello che si sta facendo. Il non sapere cosa fare e il farlo senza sapere si equivalgono e, alla lunga, l’efficienza bestiale del militare e del killer professionista finisce per trovare la propria stazione d’arrivo.
L’uso della protesi di cui discuto, l’arma in pugno, è una questione di coscienza. Ma che cos’è una questione di coscienza? È la conoscenza della realtà fatta propria, cioè introiettata criticamente nell’ampio raggio delle relazioni che la costituiscono.
Nessun aspetto di questo movimento complessivo dovrebbe restare in quella zona d’ombra dove manteniamo gli elementi più difficili di quello che costituisce il nostro agire, spesso inquietanti in quanto toccano corrispondenze mantenute segrete ma che ciononostante sono dentro di noi e sviluppano conseguenze non sempre prevedibili.
L’arma in pugno è quindi impiego di un rafforzamento tecnologico che dovrebbe appartenere alla decisione responsabile dell’individuo.
Dico dovrebbe perché non sempre è possibile acquisire, in questo campo, una profondità critica sufficiente. Nessuna esecuzione di ordini è pertanto accettabile, nessuna delega, nessuna graduatoria di competenze nell’azione. Allo stesso modo, nessun imbecille diventa quello che non è per il semplice fatto di impugnare un’arma.
Qui si collocano due argomenti, fra loro contrastanti, eppure legati insieme da un preoccupante filo logico. Il primo riguarda la semplificazione decisionale, il secondo l’eccezionalità di certe situazioni che impongono una sorta di gerarchia delle competenze. Sviluppiamoli con calma.
La decisione critica del singolo, che si assume le sue responsabilità per gli atti che compie, si basa su fatti che dovrebbero apparire illuminati da una valutazione critica, non resi evidenti da una pregiudiziale ideologica, la quale ultima potrebbe nascondere una inavvertita banalizzazione.
Se io decido di colpire un responsabile dello sfruttamento potrei anche azzerare qualsiasi lume critico e affidarmi semplicemente al simbolo. Non quel carabiniere, o quel giudice, o quel medico, o quel giornalista, ecc., ma un qualunque carabiniere, giudice, medico, giornalista, ecc. Non c’è dubbio che il ragionamento fila, ed è stato fatto, e, dentro certi limiti, permane condivisibile in astratto.
Ma nel concreto determina un rischio considerevole, quello dell’azzeramento critico e dell’affidamento della decisione al banale massimalismo ideologico.
La disponibilità ad approfondire la condizione specifica del nemico che si vuole colpire non è importante per evitare di colpire un possibile “innocente”, perché nessuno è innocente, ma lo è per non banalizzare l’azione stessa riducendola a un semplice abbattimento di birilli, tutti uguali fra loro nella notte delle nebbie ideologiche.
E poi c’è un altro argomento, quello ricorrente degli imbecilli, che non a caso sposano sempre, con fervore e accaloramento passionale, questa tesi che evita loro ogni gravame critico di cui, per le ridotte capacità mentali di cui dispongono, non saprebbero venire a capo.
Queste considerazioni non contraddicono la tesi del colpire nel mucchio, di cui mantengo il ricordo di una vecchia polemica, in quanto, al contrario, l’individuazione del mucchio è questione critica più difficile e non accesso secondario alla banalizzazione decisionale.
Veniamo ora all’altro argomento: la necessità, in casi di particolare difficoltà, di una gerarchia delle competenze. Anche qui il problema deve essere ricondotto all’approfondimento critico svolto dall’individuo.
Torna pertanto la tendenza dello stupido a considerarsi onnipotente, anche a causa della protesi armata che il caso e non la propria scelta cosciente gli ha posto in mano. L’illusione di onnipotenza porta direttamente a non capire le difficoltà della situazione, a sottovalutarle proprio a motivo della propria incompetenza e a considerarsi capace di fare quello che in effetti non si è capaci di fare. I guai di questo particolare tipo di imbecillità sono inimmaginabili.
L’apprendimento delle difficoltà è parte essenziale dell’approfondimento critico. Non essere capaci di valutare bene i propri limiti, evitando di imbarcarsi in imprese al di là delle proprie forze, è presunzione che impedisce l’apertura mentale necessaria all’apprendimento. Lo stesso per tutte le volte che si sostituisce la valutazione critica con il semplice entusiasmo o, peggio ancora, con un superficiale amore del pericolo, o desiderio del rischio.
Tornando all’inizio del nostro discorso mi sembra si possa vedere, adesso, con maggiore incisività il rapporto che esiste tra l’arma in pugno e la capacità di capire.
Desidero però fare notare che ogni capacità della coscienza, che dall’intelletto trae alimento per allargarsi nel campo delle relazioni possibili, ma che qui non si arresta travalicando nell’azione come condizione di continuo passaggio mai concluso, né concludibile, ogni capacità della coscienza è solo in minima parte un regalo della cosiddetta natura.
Nella sua componente essenziale è fatica, riflessione, esperienza, prova, coraggio, ricerca della differenza. Se tutto questo apparato analitico si pensa possa essere accantonato come ciarpame prendendo le armi in pugno, perché la protesi brunita ci rende onnipotenti, l’errore è grave e non tarderà a fare sentire i suoi effetti nefasti.
Questi effetti sono di due tipi, ancora una volta solo apparentemente antitetici.
Il primo è dato dall’incapacità critica che rinsecchisce il possesso dell’arma in una vuota protuberanza capace di generare ogni tipo di inconcludenza, dal farsi uccidere, all’uccidere senza sapere il perché, aspettando che dal fatto stesso di avere eliminato un nemico venga fuori la chiarificazione critica che avrebbe dovuto precedere la sua eliminazione.
Il secondo è dato dal tirarsi indietro di molti compagni dal prendere le armi in pugno e attaccare a causa della convinzione, inesatta, di non essere adatti all’uso di quelle protesi, pensandole come adeguate solo a un certo tipo di persona e non attribuendo invece la loro evidente (a volte persino patetica) inadeguatezza, come sarebbe giusto, a un mancato approfondimento critico.
In fondo il problema resta sempre quello: nessuno ci regala niente, non esistono condizioni facili facili per farci entrare in possesso delle conoscenze indispensabili all’azione, e pensare l’arma solo nella sua circoscritta (e marginale) caratteristica tecnica d’impiego, è un modo come un altro per fuggire davanti al problema di fondo della conoscenza critica, misura e condizione attiva di ogni attacco contro il nemico di classe.
Come si è visto nelle pagine che precedono, ho cercato qui di mettere tutta la mia attenzione sul problema dell’arma in pugno, del perché, a un certo momento della vita, un uomo cosciente di quello che significa un’arma, della sua mortale potenzialità distruttiva, decide di impugnarla, e, principalmente, di usarla.
Credo di avere se non altro contribuito a fare riflettere sui meccanismi che stanno dietro a questa decisione, processi logici ed emotivi a volte non chiari e spesso dati per scontati come banalità a cui è bene non pensare nel momento dell’azione.
Ma queste banalità sono esse stesse le banalità dell’analisi teorica, dell’approfondimento critico della situazione che si sta affrontando nel suo insieme complessivo, e definire questo aspetto come secondario, o privo di importanza, tanto nel momento che si è “a mano armata” i più forti siamo noi, possessori della protesi magica, è un tragico errore.
L’arma, per la sua stretta connessione con la teoria che criticamente penetra il mondo, è quindi qualcosa di più – come si è visto – di un semplice pezzo di ferro, e questo qualcosa di più può prendere consistenze e forme più articolate dall’oggetto brunito e pesante che di solito chiamiamo arma, può cioè prendere l’aspetto di una rapportazione, di una codificazione di rapporti in vista del raggiungimento di fini comuni, in altre parole può prendere l’aspetto di un’organizzazione.
Anche l’organizzazione è una protesi, ed anche per essa valgono tutte le considerazioni fatte prima, con alcune precisazioni, più delicate e difficili, che mi industrierò di fare qui di seguito, sperando nell’attenzione dei miei pochi compagni, disposti a seguirmi in questo ragionamento.
Torna qui il problema delle attese. C’è chi si immagina che tutto dipenda dall’esterno e che una forza, a lui ignota e per questo solo fatto immaginata fuori di ogni misura umana, arrivi a dare un senso alla propria vita altrimenti banale e subordinata alle opinioni correnti. Attesa che finisce sistematicamente per restare disillusa.
Costui è irrimediabilmente condannato a restare in attesa, anche quando avanza, petto in fuori, nel proscenio di quello che lui scambia per la Storia, e dichiara guerra al mondo in nome di una forza che esiste solo nella sua poco fertile immaginazione.
Fuori di queste stupidaggini, fuori di ogni tronfia messa in mostra della propria ignoranza, c’è la realtà concreta, e qui, nel medesimo movimento che produce l’approfondimento critico, nasce la forma dell’organizzazione specifica in funzione di un progetto.
Non è questa forma a determinare il progetto, ma essa permane strumento del progetto, anche se a volte preme alla porte dell’attenzione e dell’emotività del singolo compagno, sollecitando significatività più ampie. La duttilità della forma dell’organizzazione è quindi elemento essenziale, se quest’ultima deve essere strumento di un progetto e non, al contrario, rubare a questo tutte le cure che esso merita e tenersele per sé, in una ottusa crescita quantitativa.
Non voglio qui scendere nella scelta organizzativa specifica. Personalmente, come anarchico insurrezionalista, sono arrivato al convincimento che la soluzione migliore, quindi la forma più adatta di organizzazione specifica, è quella “informale”, altri potranno convincersi diversamente, e prediligere strutture forse più rigide, illudendosi di ottenere risultati più concreti a breve scadenza: sigle, comunicati, rivendicazioni, campagne, e tutto il ciarpame vetusto a cui un’epoca non proprio recente della storia comune a ognuno di noi ci aveva abituati. Liberissimi, per carità.
Se qualcuno pensa che la protesi sia utile in funzione della sua rigidità, si faccia avanti, proponga seriamente e seriamente discuta, invece di affermare o modulare gradazioni di valore. Ma, per favore, non parta dallo strumento, parta dal progetto che quello strumento deve impiegare, altrimenti tutto è banalizzato nell’appiattimento della tesi che “qualunque sbirro è quello buono”.
Partire dal progetto significa analizzare criticamente la realtà. E qui il problema torna a masticare la propria coda. Chi non ha la possibilità di portare fino in fondo questo approfondimento ha due alternative: o sceglie quello che c’è in corso di elaborazione, cioè quello che circola, più o meno approssimativamente, nel dibattito fra compagni; o decide da solo di trovare i mezzi per pensare diversamente, ma realmente in modo diverso, essendo solo un patetico risvolto della banalità il suggerimento, buono per tutti i gusti, di limitarsi sempre e comunque a dire di no.
Ora, sul tappeto c’è sia la discussione sull’organizzazione informale, come strumento rivoluzionario di lotta per un attacco contro le istituzioni e gli uomini del potere, sia, in sordina e in bassa fortuna, l’ipotesi strutturata di un’organizzazione più rigida: sigla, dichiarazioni politiche, scelte di fondo strategiche, campagne da rivendicare, ecc.
Insomma, un’organizzazione che parla da sé, che non propone margini critici, un’organizzazione che sa quello che deve fare e che agisce in nome dell’efficienza. Dopo tutto, in caso contrario, che protesi sarebbe? Mi chiedo, e vi chiedo: può un imbecille, o peggio ancora un testardo ignorante, sicuro di conoscere l’universo mondo proprio grazie alla propria ignoranza, accettare la prima ipotesi, quella dell’organizzazione informale che lo obbligherebbe a un approfondimento critico della realtà di cui egli stesso, per primo, si riconosce incapace? No di certo. Egli preferisce la seconda soluzione, quella è la sola che “pensa al posto suo”, o almeno che dà questa impressione.
Ecco perché ho messo insieme questi testi, perché i compagni di cui qui si parla erano tutti in grado di pensare con la propria testa, principalmente quando si trovavano con le armi in pugno, a mano armata.
Mi auguro che, una volta tanto, questa lettura sia occasione per riflettere sul da fare e non un modo come un altro per fantasticare sul passato.
Catania, 31 luglio 1998
Alfredo M. Bonanno

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Catania, 1998

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