Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, Settembre 2009, 128 p., Seconda Edizione
Introduzione alla prima edizione
Nel gennaio del 1993, insieme ad un altro compagno, venni invitato in Grecia a tenere alcune conferenze presso il Politecnico di Atene e presso la Facoltà di Lettere dell’Università di Tessalonica.
Alcuni dei testi qui pubblicati hanno una storia particolare che necessita di alcuni chiarimenti. Il primo testo è lo schema delle conferenze che mi accingevo a fare in Grecia; il secondo la trascrizione della registrazione su nastro della conferenza di Tessalonica; il terzo, la trascrizione di una intervista concessa al quotidiano di Atene “Eleftherotipia”. Il primo di questi testi, pur avendo lo scopo vero e proprio di una guida per le conferenze, fu da me sviluppato in forma molto dettagliata perché, d’accordo con i compagni greci, lo si distribuì ciclostilato in traduzione greca a tutti i presenti, poco prima della conferenza, sia ad Atene che a Tessalonica. Questo si rese necessario a causa delle difficoltà di una traduzione simultanea dall’italiano in greco, lingue considerevolmente diverse come struttura grammaticale.
Successivamente, nel maggio del 1993, lo stesso testo, col titolo suo originale di “Nuove svolte del capitalismo” venne da me pubblicato nel n. 72 della rivista “Anarchismo”.
Questi tre scritti hanno una loro omogeneità che li rende pubblicabili, anche in questa sede, come un tutto omogeneo, trattando della ristrutturazione capitalista e, in maniera più approfondita, delle forme di lotta insurrezionale propugnate dagli anarchici.
Una curiosità. Il penultimo paragrafo del primo testo qui pubblicato continua a portare il titolo: “L’organizzazione rivoluzionaria anarchica insurrezionale”. L’origine di questo sottotitolo, diventato successivamente tanto famoso, è un po’ curiosa e merita di essere ricordata. In effetti, avevo titolato questo paragrafo “L’organizzazione informale anarchica insurrezionale”, ma ci si trovò di fronte a difficoltà nel tradurre in greco il termine “informale”, difficoltà che non fu possibile superare prima del mio arrivo in Grecia e che indusse i compagni, nella preparazione del ciclostilato tradotto in greco, con il mio consenso fornito direttamente al telefono, a sostituire il termine “informale” col termine più generico di “rivoluzionaria”.
Nel pubblicare il testo in Italia dimenticai di ripristinare la parola “informale” che resta comunque più idonea a fare comprendere quello che sta scritto nel paragrafo in questione.
Non mi è parso utile procedere ora alla suddetta correzione tenuto conto delle chiacchiere e delle stupidaggini che sopra vi hanno ricamato gli specialisti della procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma, guidati dal Pubblico Ministero Marini.
Credo sia utile passare adesso ad una breve descrizione del modo in cui le teste pensanti della Magistratura italiana e dei carabinieri hanno lavorato sul testo.
Il 17 settembre 1996 decine di anarchici vengono arrestati in Italia, comincia quella che sarà definita la “Montatura Marini”. Accuse specifiche di sequestri di persone, rapine, omicidi, detenzione di armi, ecc. Tutte avvolte in un’accusa di fondo, quella di banda armata, denominata ORAI, sigla tratta da quel mio paragrafo di cui parlavo sopra: Organizzazione Rivoluzionaria Anarchica Insurrezionale.
Il processo è ancora in corso e, forse, durerà, nel suo intero ordine di gradi di giudizio, ancora per anni. Nel frattempo, invece di essere in galera, siamo stati messi in libertà da una banale questione procedurale: le teste pensanti della Procura di Roma avevano troppo da pensare, nel tentativo di giustificare una fantomatica “banda armata”, per seguire le regole del gioco, per applicare i procedimenti che la legge impone anche a loro. Risultato: pur con accuse da ergastolo, quelli che come me non hanno altre condanne da scontare sono tutti fuori del carcere.
Come il lettore spassionato – lasciamo stare gli anarchici che sanno benissimo cosa pensare – si accorgerà leggendo questi testi, non c’è in essi nessuna teoria organizzativa riguardante una determinata banda armata, ma un approfondimento sui modi organizzativi specificatamente insurrezionali. Questi riguardano la formazione dei gruppi di affinità, costituiti da compagni anarchici, l’elaborazione di un progetto rivoluzionario comune, il loro rapportarsi reciproco in una eventuale organizzazione informale, la costituzione di nuclei di base legati a realtà di massa precise, e infine il modo in cui queste tre strutture si possono raccordare insieme.
Mi rendo conto che per l’ottusa mentalità di un carabiniere, educato a vedere nel nemico la fotocopia in negativo di se stesso e della propria organizzazione, nulla esiste sotto la luce del sole che non sia fornito di organigramma, di capi, di strategie e di conquiste da realizzare. E fin qui posso capire perfino una eventuale lettura tendenziosa, ma quello che non posso capire, e che nessun lettore potrà capire, è la pretesa di affidare a un testo come quello qui pubblicato il compito di reggere un modello di banda armata che ancora continua a fermentare nel cervello della Pubblica Accusa, disposta a tutto pur di provare la nostra colpevolezza.
Disposta a tutto. Esatto, perfino a negare l’evidenza. E difatti, come appare chiaro dalle stesse carte processuali, e perfino nello stesso mandato di cattura, per necessità di cose riassunto ai minimi termini, un dubbio dovette sorgere nelle loro menti ottenebrate dal cieco bisogno di giustificare l’ingiustificabile: “Se Bonanno ha sviluppato in questo testo (“Nuove svolte del capitalismo”) la teoria di una banda armata (ORAI), ed è questo che affermiamo noi, Pubblica Accusa e carabinieri, non può essere poi andato in Grecia a parlare pubblicamente in aule universitarie di questo argomento, sarebbe illogico. E siccome il testo in questione deve per forza significare quello che noi, Pubblica Accusa e carabinieri, vogliamo che significhi, ecco che dobbiamo per forza concludere che Bonanno non è mai andato in Grecia, non ha mai fatto quelle conferenze, non ha mai scritto questo testo come scaletta e promemoria per quello che pubblicamente andava a dire a braccio”.
Sillogismo ineccepibile, solo che nega un fatto plateale, il fatto che a quelle conferenze, sia ad Atene che a Tessalonica, erano presenti centinaia di persone, che esistono le registrazioni, non solo delle conferenze ma dell’intero dibattito, che la conferenza e il dibattito di Tessalonica sono stati trascritti per intero e pubblicati in un libro uscito in Grecia (Duo parembaseiw sth YessalonÛkh, Ayhna 1995), ed infine, che esiste addirittura una prova fotografica, pubblicata il 28 febbraio 1993 dal quotidiano di Atene “Eleftherotipia” insieme alla mia intervista (il terzo degli scritti qui pubblicati).
Ma perché l’accusa vuole per forza leggere in questo testo quello che non c’è? Perché vuole a tutti i costi, anche a rischio del ridicolo, vedervi la teorizzazione di una banda armata specifica, con tanto di nome? La risposta è semplice: perché altrimenti non potrebbe condannare decine di compagni per un reato associativo – che ovviamente non esiste – ma solo per eventuali reati specifici, e solo dopo che questi siano stati singolarmente provati in base al codice penale, ecc.
I titolari dell’accusa sanno bene che questa seconda alternativa è difficile da percorrere, sanno benissimo che alcuni reati specifici si basano soltanto sulle accuse di una ragazzina subornata da loro stessi, ecco perché tanta pertinacia nel volere leggere in questo testo quello che non c’è.
Nessuna ipotesi di organizzazione informale può infatti rassomigliare ad una banda armata. Siamo su due terreni diversi. L’organizzazione chiusa, necessariamente rigida se si vuole parlare di banda armata, può essere uno strumento fra i tanti e, in certe condizioni dello scontro di classe, quando ci si trova con l’acqua alla gola, può anche essere utile come mezzo difensivo e offensivo. Per tornare ancora oggi utile, almeno nell’ambito delle caratteristiche che la storia più o meno recente ci ha fatto vedere, dovrebbe modificarsi profondamente la formazione economica e sociale che abbiamo di fronte, il capitale dovrebbe tornare sui suoi passi, alle condizioni produttive degli anni Ottanta, con una classe operaia forte e centralizzata, con una inamovibile catena di trasmissione costituita da sindacati e partiti della sinistra, tutte cose che ognuno vede bene che non esistono più. Per molti aspetti il modello organizzativo chiuso, che spera soltanto, in modo indiretto, nella generalizzazione dello scontro, non facendo nulla in questa direzione se non esportare i propri interventi attraverso i mezzi d’informazione che si sa come lavorano, questo modello organizzativo oggi corrisponde più o meno alle condizioni ideologiche sommatorie del sindacato e del partito. Se non vogliamo considerare il parallelo col partito, dobbiamo per forza prendere in considerazione il parallelo con una organizzazione che ha come proprio scopo la crescita quantitativa, il dilagare delle proprie azioni e quindi il proprio costituirsi come punta di diamante dello scontro di classe.
Certo, se gli anarchici mettono mano alla costituzione di una organizzazione specifica chiusa, lo fanno con intendimenti diversi da quelli classici, sclerotizzati dal procedere dei marxisti leninisti. E non c’è dubbio che Azione Rivoluzionaria, ai suoi tempi, costituì un tentativo in questo senso, un tentativo che ben presto esaurì la spinta iniziale verso la generalizzazione delle lotte, finendo per chiudersi nel reclutamento massiccio e nell’assommazione con le altre organizzazioni combattenti presenti all’epoca sul fronte delle lotte. Non dico che non ci siano stati, specialmente nei documenti dei primi mesi, alcuni spunti analitici di grande interesse, dico che queste analisi non solo non accettarono un approfondimento critico, ma che nel chiudersi in se stesse e nel difendersi, finirono per annullarsi e per dare spazio alla clandestinizzazione e basta. I migliori compagni, si diceva all’epoca, sono quelli in carcere, non occorreva fare altro che andare in carcere per diventare un compagno migliore.
Il fatto è semplice. Nell’elaborazione di un’analisi non si può prescindere dalla propria situazione personale. Questa, anche senza volerlo, finisce per trapelare in quella. E se uno è in carcere, si vede subito che si tratta di un’analisi che proviene dal carcere. In più, quando un compagno vede che le condizioni della realtà che gli è immediatamente vicina sono radicalmente compromesse, finisce per travalicare al di là delle stesse caratteristiche critiche dell’analisi che sta elaborando, massimalizzando le conclusioni e perfino i mezzi d’intervento e i metodi di cui si fa propugnatore. Rinchiudendosi nell’ottica asfittica di un’organizzazione clandestina anche il modo di ragionare diventa clandestino a se stesso, e questo quasi senza accorgersene.
Una volta si affermava che trovandoci in una fase pre-rivoluzionaria (nessuno però forniva spiegazioni sul perché si era in questa fase) l’unica strada da percorrere era quella dell’organizzazione armata più o meno chiusa (poi si vide nella pratica che qualsiasi tentativo di “diversità” finiva per abortire nella più classica delle chiusure). Oggi a nessuno viene in mente di dire che siamo in una fase pre-rivoluzionaria, per cui se dovessimo accettare l’ipotesi di una organizzazione armata chiusa sarebbe una nostra decisione pura e semplice, un modo come un altro di fare qualcosa, e ciò lo dico a prescindere della strana concomitanza con le palpitanti attese dell’accusa al processo di Roma.
A questo punto potrei ripetere quello che ho scritto molti anni fa, e precisamente in un articolo pubblicato su “Anarchismo” nel 1979, dal titolo “Sull’organizzazione clandestina”, facilmente reperibile da più di un decennio nel mio libro: La rivoluzione illogica (pp. 88-90), ma mi sembra inutile. Se molti non hanno presenti quelle vecchie pagine, non so che farci. Neanche io amo rileggerle, in fondo appartengono ad un’epoca diversa dalla presente. Per quel che posso ricordare mi sembra che vi accennassi al fatto che la critica dell’organizzazione clandestina chiusa non è necessariamente affermazione di semplice individualismo. La critica non è mai indebolimento, ma rafforzamento di qualcosa, però, caso strano, quando a essere criticati sono i compagni che partecipano o si fanno sostenitori, sia pure in astratto, di una forma rigida di organizzazione, ecco che la critica viene considerata come un attacco personale o un indebolimento delle proprie precarie condizioni, e quando sei davanti a compagni che si trovano in carcere, con anni di condanna sulle spalle, corri il rischio di essere linciato. Penso che il concetto di generalizzazione della lotta anche armata non sia una negazione dell’organizzazione, e penso anche che la critica dell’organizzazione clandestina chiusa non costituisce un “esporsi al massacro”. Non mi interessano queste massimalizzazioni.
L’organizzazione informale dei gruppi di affinità e il relativo sviluppo dei nuclei di base, in precise situazioni di lotte di massa, è la forma organizzativa che ritengo più utile, almeno in questo momento storico, per favorire la generalizzazione dello scontro, anche armato.
Catania, 10 ottobre 1998
Alfredo M. Bonanno
Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Catania, Aprile 1999