Bonanno Alfredo Maria, “Internazionale Antiautoritaria Insurrezionalista”

Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, 2009, 176 p., Seconda Edizione

Introduzione alla prima edizione

Pensare a una serie di rapporti stabili fra compagni nell’ambito del bacino del Mediterraneo, nucleo essenziale da cui partire verso una possibile maggiore ampiezza futura, anche al di là degli iniziali limiti geografici, è stato un sogno accarezzato per lunghi anni.
Non un feticcio organizzativo qualsiasi, una sigla forte e altisonante, che come un manichino spaventapasseri tenesse lontano i malintenzionati repressori e attirasse le anime pure degli anarchici desiderosi di conoscersi, ma qualcosa di concreto, di reale, capace di andare al di là degli aspetti formali, o, se si preferisce, di bandiera, per essenzializzare il problema.
Tentativi in questo senso ce ne sono stati tanti, tutti animati da una prospettiva più ampia, più generica, quella che di regola alimenta gli incontri fra compagni a livello internazionale, una conoscenza importante per entrare in possesso, in maniera diretta, di quelle notizie che solo chi abita in un posto preciso possiede. Gli aspetti repressivi, quasi sempre, molto meno anche le iniziative di lotta, intese queste ultime nel senso preciso del termine, cioè quando siamo noi, proprio noi, a prendere in mano il gioco e a condurlo a modo nostro.
Pur non nascondendomi l’importanza di questi interessi informativi e degli sforzi che tutti abbiamo fatto, e continuiamo a fare, per svilupparli, pur condividendo la necessità di fare circolare quanto più materiale è possibile in questo senso, in modo che si sappia che succede nei vari Paesi dove ci sono compagni con cui si è in contatto, non c’è dubbio che questa fondamentale attività non è tutto quello che si può fare.
Allo stato delle cose, per quanto possa sembrare incredibile, una fitta rete di fogli e foglietti, di giornali e periodici, rete ricca di notizie, quasi sempre riguardanti la repressione, ma anche qualche attacco diretto contro i responsabili e gli oggetti concreti che rendono possibile il dominio, esiste e svolge benissimo il suo compito. Un tessuto sotterraneo si è sviluppato in questi ultimi anni, in grado di corrispondere perfettamente, o quasi, alla richiesta d’informazione avvertita da tutti i compagni. In questo senso, possiamo dire che i giornali tradizionali, portavoce, nelle diverse situazioni, delle forme classiche dell’organizzazione anarchica, sono proprio quelli che meno partecipano a questo movimento spontaneo, polverizzato in mille iniziative che non è possibile racchiudere in un’intenzione di sintesi.
Ma, ancora una volta, non è questo il punto.
Anche lo scambio d’informazione, e perfino la conoscenza reciproca, diretta e personale, può risultare una panacea come un’altra, un surrogato dell’azione. Io mi drogo d’informazione quotidianamente, attraverso i giornali e la televisione, e continuo così a farlo attraverso i contatti privilegiati che riesco ad attingere con i compagni dei diversi Paesi stranieri con cui entro in contatto. Certo, lo faccio in buona fede, anzi mi do molto da fare per mettere insieme questa seconda dose d’informazione, che non posso cogliere semplicemente girando il bottone della televisione o aprendo il giornale del mattino. Spesso la stessa difficoltà di reperimento di questo secondo tipo di materiale informativo, la fatica e il costo dei viaggi, lo scrivere lettere e il conoscere esotici compagni stranieri, fatto quest’ultimo che mi riempie il cuore di gioia e di mal represso orgoglio, tutto questo alla fine mi impedisce di esercitare sul mio comportamento quel minimo di luce critica che è sempre indispensabile tenere accesa.
Che me ne faccio di questa informazione, diciamo così, privilegiata? Dopo avermela rigirata fra le mani, l’unica cosa che mi viene in mente (ce ne sarebbero altre, ma non saprei da dove cominciare) è di passarla ai compagni, perché si diffonda quella informazione, e così il mio iniziale e personale privilegio diventi patrimonio comune, quanto più possibile generalizzato.
Lodevole pensiero, ma anche questo costretto ad una triste conclusione: e dopo?
E dopo, altra informazione, altri spazi, altri viaggi, altri incontri con altri più o meno esotici compagni, altro rigirarmi fra le mani altre carte e, alla fine, altri passaggi verso quella mitica generalizzazione informativa che dovrebbe essere il lievito della rivoluzione. Dovrebbe, perché di fatto non lo è, non lo è se resta sola, se manco dell’essenziale, se manco di un progetto.
Ecco il punto. Tutto crolla, o almeno si ridimensiona in una gradevole ninnananna adeguata a salvarmi la vita, se manco di un progetto. Ma nessun progetto mi viene fornito come supplemento al pacchetto informativo. Allo stesso modo, non posso andarmelo a cercare per le medesime strade e con gli stessi mezzi che percorro e adopero nella ricerca di quei contatti che mi riempiono, e mi salvano, la vita. Il progetto è dolorosa e sconcertante esperienza personale, bisogno primario di chiedere e chiedersi: perché?, slancio per andare oltre, ancora più avanti, ben al di là di quello che arrivando come latte e miele sembra a tutta prima in grado di soddisfare la mia sete informativa.
Non dico che questo dèmone, una volta ospitato nel proprio cuore, sia in grado di chiudere la porta a qualsiasi altra faccenda, dico solo che insisterà altamente per ottenere di più, e non quantitativamente (altra informazione, altra carta, altri guai, altre belle notizie d’attacco), ma qualitativamente, diventando intransigente, chiedendo di più e proponendo di più.
In fondo, l’adeguarsi, com’è facile capire, non è che il segno della propria inadeguatezza. Io non posso permettermi di chiedere idee e progetti a chi mi trasmette informazioni, sarebbe implicitamente una delega e un gesto scorretto, specialmente per un anarchico, potrei suggerire io un territorio di approfondimento, verso cui indirizzare quel flusso d’informazioni così ricco, che invece mi limito a sponsorizzare in maniera passiva, o a farne carne della mia carne in maniera passionale, ma per fare ciò, per avanzare un passo ancora su questa strada, occorrerebbe il dèmone che mi detta dentro, ed anche il contenuto di questo dettato, la sostanza del progetto. Mancando questa sostanza, e non avendo mai sentito dentro di me la necessità di fornirmi di tutti gli strumenti idonei a farla venire alla luce, non posso fare altro che tacere, ripiegando su una posizione di minore rischio.
Forse nelle pagine precedenti, come spesso mi accade, sono andato al di là delle mie intenzioni. Non tutti i compagni si pongono passivamente di fronte all’arrivo del flusso informativo da loro stessi sollecitato e reso operante. Molti pensano che la stessa circolazione delle notizie sia progetto rivoluzionario e, dentro certi limiti, hanno ragione, però anche questi compagni devono convenire che il progetto può essere ben più ampio e, principalmente, per essere considerato tale, deve possedere la caratteristica dell’iniziativa, deve cioè essere un nostro progetto di attacco e distruzione dell’ordine esistente. Può, di sicuro, avere anche dimensioni circoscritte, e perfino microscopiche, ma questa caratteristica la deve possedere in pieno fin dal primo momento della sua elaborazione.
Può anche darsi, e non posso escluderlo, che molti compagni abbiano un progetto di massima, diciamo un indirizzo verso lo sviluppo e la crescita quantitativa del movimento anarchico, inteso in senso largo, e pur non appartenendo ad un’organizzazione specifica di sintesi, si sentano in grado di legare quel loro impegno nella ricerca dei contatti informativi con quel loro progetto di crescita, pur restando quest’ultimo racchiuso nella nebulosità di uno sviluppo rinviato sempre ad un domani più prolifico di risultati dell’oggi. Può darsi, ma non è questo il progetto di cui discuto.
Se dentro di me il dèmone mi detta, a volte confusamente e perfino contraddittoriamente, una sollecitazione distruttiva, e se questo bisogno primario, che in me è come quello dell’aria che respiro, si concretizza in visioni apocalittiche di masse insorte che azzerano gli intrighi e le sostanze del dominio, non posso nascondere che tutto ciò potrebbe solo essere un bel sogno, o un incubo, a seconda dei punti di vista.
Sarebbe stupido andarmene in giro a parlare ai compagni di queste visioni notturne che mi induriscono l’animo e mi trascinano all’azione, al massimo tutto ciò potrebbe giustificare le mie azioni di fronte a me stesso, rendermele comprensibili e quindi realizzabili, ma il progetto è qualcosa di più e qualcosa di meno.
È qualcosa di più, perché traduce in termini pratici e teorici quegli impulsi e quei desideri, perché li fa vivere come processi sociali possibili legandoli alle condizioni effettive del nemico di classe e alle sue trasformazioni nell’organizzazione del dominio. È qualcosa di meno, perché nel fare ciò rimpicciolisce l’afflato possente del dèmone e lo porta nell’ambito del discorso tecnico, persuasivo e perfino un poco pedante.
In ogni caso, sia ricorrendo alle semplici immagini dell’ira, che tutto vorrebbero azzerare dell’immondo nido di guai in cui viviamo, sia costruendo le linee di un progetto insurrezionale specifico, non mi sono mai sentito in grado di pensare, le due strade, come un possibile completamento dei contatti e della fruizione del flusso informativo di cui sopra. Dall’altro lato, più spesso di quanto non si pensi, avvertivo negli altri lo stesso interesse e la stessa passione che si agitavano in me, però non mi riusciva di legare i due momenti, avvertivo sempre una sorta di salto logico inaccettabile che mi faceva ripiegare con prudenza. Così, spesso finivo per abitare due universi separati, e con me tanti altri, quello informativo e quello progettuale. A volte volevo fare in fretta a sbrigarmi del primo per dedicarmi al secondo, persistendo nell’immagazzinarli separati.
Sarebbe inesatto dire che il problema venne risolto riflettendo sui possibili sviluppi della situazione sociale, economica e politica dei Paesi del Mediterraneo dopo il crollo dell’impero sovietico. Inesatto, ma indicativo.
La riflessione cominciò proprio da lì. Senza stare ad approfondire i problemi dei nuovi Paesi emergenti dalla decomposizione del socialismo reale, sembrano a prima vista più che probabili situazioni di estremo disagio generalizzato non solo nelle fasce più miserabili, ridotte al lumicino delle risorse, ma anche in quelle che una volta erano le classi medie, privilegiate dalla piramide gestionaria dello Stato onnicomprensivo, ed ora abbandonate a se stesse, a un destino se non di miseria, di degrado sociale e quindi di abbassamento delle prospettive alle quali erano state da sempre educate.
A partire dal 1990 questa situazione è diventata evidente, poi ingigantitasi sempre più, frenata solo dallo sporadico e casuale intervento umanitario delle organizzazioni internazionali, dal braccio secolare degli Stati Uniti e dall’occhiuta carità della rinnovata Germania.
Molti di noi, a partire diciamo dagli anni Sessanta, siamo stati abituati a considerare circoscritti alla Spagna, alla Francia, alla Gran Bretagna, alla Germania, alla Svizzera i rapporti internazionali con gli altri compagni anarchici. Dopo la caduta del fascismo spagnolo, iniziative interessanti di attacco vennero a cessare di fronte all’equivoco di una rinascita spettacolare del movimento anarchico iberico, rinascita maldestramente gestita nel corso di questi due decenni appena trascorsi, ma che nelle sue speranze di forza popolare quantitativamente significativa aveva, fin dall’inizio, bloccato qualsiasi tipo di attacco contro la nuova democrazia spagnola, considerata una possibile controparte per un dialogo gestionario della cosa pubblica.
Le tristezze di queste valutazioni politiche portarono compagni dapprima impegnati, e seriamente, nell’antifascismo e nella cosiddetta lotta clandestina, a limitarsi ad un sostegno esterno delle forze democratiche di sinistra, se non a un’accettazione del voto come strada verso progressivi miglioramenti utili agli sfruttati.
Ma, anche accantonando queste miserie, e prendendo in considerazione la lotta più radicale, o almeno tale in apparenza per il suo sistematico ricorso alle armi, nessuna delle esperienze partite con intenzioni libertarie, dovute alla considerevole presenza di anarchici, si può dire che si sia conclusa con una vera e propria sperimentazione organizzativa e metodologica diretta a spezzare il cliché del partito armato. Dal M.I.L. al G.A.R.I., da Action Directe al 2 Giugno, fino ad Azione Rivoluzionaria, l’avvitamento è stato per un irrigidimento delle posizioni di partenza, con l’eccezione, forse, dell’Angry Brigade, per quel che è dato sapere. Senza nulla togliere all’interesse e alla validità di tali esperienze.
Diciamo che la continuazione “antifascista” in seno a esperienze di organizzazioni armate specifiche di matrice libertaria, non è stata senza conseguenze. La mentalità “reclutatrice”, conseguenza della visione quantitativa come simbolo di forza e presenza nella realtà, indirizzandosi verso il chiuso del proselitismo da sigla facile da ricordare (AR nell’elenco alfabetico viene prima di BR), tagliava inconsapevolmente la strada alla generalizzazione dello scontro, anzi, alla fine, vedeva ogni sforzo verso la polverizzazione nel territorio delle azioni armate, come un elemento disgregatore e quindi negativo. Il massimo dell’indecenza è toccato al grido: “Unità delle organizzazioni combattenti”.
Nel senso contrario, nel senso cioè dello “Stiamo arrivando”, di cui si era fatta portatrice l’Angry Brigade, non si fece molto, anche per la mancanza in tanti compagni del coraggio di sperimentare, per cui si preferiva ripiegare su strutture più “solide”, in apparenza, come, per esempio, Action Directe, evitando la preoccupazione di mettersi a pensare dove potesse mai condurre una esperienza del tipo “Stiamo arrivando”, senza sapere in effetti cosa fare e dove andare a parare.
Eppure, a fianco di queste esperienze, e fin dentro di esse (se non altro a livello di dibattito teorico), ci sono state decine di migliaia di piccole azioni, corrispondenti nei fatti al desiderio diffuso, se non proprio generalizzato, di attaccare il nemico in mille modi diversi, non pretendendo di colpirlo nel cuore che non esiste, e neanche nei centri operativi essenziali che seppure esistono si coprono uno con l’altro. E queste azioni, quasi sempre non rivendicate, oppure assistite da fantasiose rivendicazioni e da improbabili sigle, avevano solo lo scopo di allargare l’attacco armato, fare vedere come esso fosse possibile a prescindere da strutture verticistiche più o meno chiuse, e in fondo come lo si potesse proporre quale strumento rivoluzionario generalizzabile, in certi casi, a tutta una situazione di lotta. Nessuna intenzione di crescita quantitativa.
L’anarchismo insurrezionalista nasce qui, in questo rifiuto del ricatto quantitativo e nell’intrapresa delle piccole azioni come modello rivoluzionario di intervento nella realtà. Ma, per molti motivi, nasce qui e resta confinato ad esperienze quasi esclusivamente dell’Europa occidentale, con l’ulteriore restrizione dei diversi settori nei quali sembra prendere corpo e incanalarsi: la liberazione animale, l’antinucleare, la solidarietà internazionale verso i popoli oppressi in maniera particolarmente feroce, ecc. Un progetto generale stenta a prendere piede, e meno che mai ad indirizzarsi verso Paesi europei con un altro genere di esperienza alle spalle e altri problemi da affrontare.
Se l’anarchismo insurrezionalista propone un metodo di attacco diffuso nel territorio, sembrerebbe a tutta prima la proposta progettuale più adeguata alle condizioni, a volte prossime all’anomia, presenti in molti Paesi dell’Est. Forti conflitti di base caratterizzano queste condizioni: una classe operaia in sfacelo ma ancora fortemente legata ad obsoleti luoghi di produzione, una classe dirigente velocemente indirizzata verso una inevitabile proletarizzazione, un vertice politico instabile e senza più l’alibi ideologico che in passato l’aveva aiutato a superare tanti momenti critici. Eppure non riusciamo a farci intendere. Anzi, in molti Paesi, come la Russia, è proprio il movimento anarchico tradizionale, l’anarcosindacalismo e l’archinovismo, che prendono piede, ripercorrendo i tristi itinerari spagnoli di dieci anni prima. Forse alcuni percorsi storici sono inevitabili?
Non credo, ma i fatti sono così, si presentano così. La riscoperta della propria identità rivoluzionaria, specie per le nuove generazioni, non è mai un movimento lineare, ma un processo contraddittorio che si sviluppa in maniera contorta e che per questo costa molto di più in termini di lacrime e sangue. Forse l’uomo, come diceva Bakunin, non ha ancora trovato una strada diversa per ribellarsi, e si attarda alla ricerca del mezzo migliore, rovistando nella cantina degli orrori passati.
Venendo sempre più a contatto, sia pure attraverso la stampa, ma qualche volta anche grazie a notizie che riescono a farsi largo fra le mille remore e le malcomprensioni che persistono, non ultima la barriera delle lingue, ci si rende conto che in questi Paesi la metodologia insurrezionalista non è un metodo fra i tanti, e neppure un progetto ben delineato, quanto una necessità alla quale non c’è modo di ovviare diversamente. Se finora le insurrezioni sono state espressioni circoscritte del malcontento popolare, fra poco potrebbero diventare incendio generalizzato, inarrestabile, in grado di determinare ripercussioni non facili a controllarsi nel resto dell’Europa, regioni mediterranee in particolare.
Questo ragionamento, in molte occasioni rigirato come un calzino, ci ha portato, in occasione del Convegno di Trieste, del 1990, ad avanzare una proposta organizzativa fondata su di un progetto insurrezionale. Le risposte che si sono avute alla lunga non sono risultate incoraggianti, anche perché presentate all’interno di un contesto dove dominava un altro modo d’intendere l’incontro stesso, il parlare fra compagni, il prendere contatto per la prima volta con esperienze lontane dalle proprie. Forse in quella occasione si lasciò che prevalesse (e come si poteva fare diversamente?) l’ideologia del siamo tutti anarchici, cerchiamo tutti uniti di raccogliere l’eredità della sinistra socialista e del mondo da essa creato, un mondo di orrori e torture, togliamo da questa esperienza tragica lo Stato, liberalizzandola a partire dall’economia, e ci resterà come l’oro in fondo al crogiolo alchemico, il comunismo anarchico.
Di certo le cose non stanno a questo livello di facilità. L’anarchia è altra faccenda, passa prima di tutto per una profonda trasformazione dell’individuo, e questa trasformazione non può aversi senza la crescita della coscienza, quindi senza l’avvento di una nuova capacità – prima inesistente – di organizzare la propria vita e il proprio mondo in modo radicalmente diverso. Non c’è solo da togliere il marcio della mela, c’è proprio da buttarla via.
Nella differente considerazione del che fare?, ecco che in quell’incontro, mi sembra, leggendo gli Atti (Est: laboratorio di libertà?, Milano 1992), ché all’epoca mi trovavo nel carcere di Bergamo, finisca per affiorare un malinteso di fondo. Nel Convegno ognuno parlava una diversa intenzione programmatica e si aspettava, per converso, di essere capito, cosa che naturalmente non poteva accadere nei limiti temporali di un momento destinato più che altro a conoscersi personalmente e senza nessun progetto discusso prima, di comune accordo, e dentro certi limiti condiviso. Si perpetuava così, all’ingrosso, il rito celebrato al minuto della perenne ricerca di contatti e informazioni. Questi contatti c’erano, finalmente visibili in carne e ossa, le informazioni anche (la grande madre Russia di nuovo in campo sotto i simboli dell’anarchia), ma non si poteva andare oltre, e chi voleva farlo, e cercò di farlo, dovette sembrare ai più, per quel che è stata la mia impressione di lontano spettatore, un marziano.
Qualcosa di diverso, pensarono in molti, un incontro che possa concretizzarsi su di una base teorica precisa, non solo circoscritta nei temi e nei progetti metodologici, ma perfino geograficamente. Il Mediterraneo come luogo di intersecazione di problemi comuni a tanti popoli e Paesi, ma problemi capaci anche di riverberarsi come effetto e come punto di riferimento sulle condizioni di lotta di Paesi geograficamente lontani.
Ma qualcosa di continuativo, che fosse capace di mantenere in vita un flusso informativo retto da un progetto comune, un progetto che concretizzasse nella pratica, e nelle diverse situazioni, l’anima insurrezionale lasciandosi alle spalle ogni illusione di sigle reboanti e di conteggi a mano armata.
L’idea dell’incontro, fra compagni dei diversi Paesi del Mediterraneo, più incontri nel tempo, cominciava a prendere corpo. E, parallelamente, la necessità che questi incontri non fossero la gigantografia dei contatti individuali dedicati quasi soltanto alla reciproca conoscenza e allo scambio d’informazione. In essi occorreva affrontare anche il problema del progetto insurrezionalista, problema complesso e difficile da porre sul tappeto in modo chiaro, ma che la realtà, da canto suo, s’incaricava ogni giorno di più di porre in evidenza.
Che fare? Che fare in casi come la Bosnia, come l’Albania, la Romania, l’Armenia, la Cecenia? Che fare? E ancora, che fare in casi come l’Algeria, la Palestina, Israele? Che fare? Quante situazioni bisognava vedere passare sotto i nostri occhi prima di capire cosa fare?
L’Internazionale insurrezionalista, come idea e come progetto nasce da questo flusso di problemi.
Per tanti motivi, non ultimi quelli repressivi, ma anche per le tante incomprensioni fra compagni che in questi ultimi anni sembra abbiano reso più corrusco del solito il non mai limpido cielo del movimento anarchico, non si è arrivati al primo passo, quello di una riunione preparatoria del Convegno iniziale dell’Internazionale.
Mi auguro che questo libro possa costituire una spinta per andare avanti, per tornare a parlare del problema e per arrivare là dove si era pensato di arrivare.
Che, alla fine, la voglia di fare prevalga sulle remore e sui sospetti.
Catania, 13 dicembre 1998
Alfredo M. Bonanno

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Catania, Marzo 1999

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