Bonanno Alfredo Maria, “Guerra civile”

Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, Novembre 2013, 67 p.

Nota introduttiva alla prima edizione

Capire le nuove condizioni della guerra civile, quelle che diverranno così familiari a tutti noi negli anni futuri, richiede uno sforzo di liberazione. Scrostare il proprio modo di concepire il mondo dai residui di un intero secolo (l’ultimo, con tutti i suoi guai) di sedimentazioni non è facile.
Qualcosa di profondo, che si è annidato dentro di noi, proprio nel nostro sentire più intimo e protetto, dove non permettiamo a nessuno di accedere, deve cadere, deve aprirsi e permettere al ferro rovente dell’indagine impietosa di farsi avanti. Dopo tutto si tratta di linee d’ordine, anche se sono state spacciate come l’ultimo baluardo del rifiuto dell’ordine, la revoca in dubbio del modo di vivere cosiddetto borghese. E noi, distruttori dei valori della borghesia, pensavamo di essere i depositari di quel sogno dell’avvenire che ci eravamo portati in cuore. Tutto questo potrebbe mantenere qualcosa di concreto e di vivo, ma potrebbe anche essere di no. Solo dopo che il ferro rovente delle esperienze senza ritorno sarà passato attraverso, solo allora potremo sinceramente rispondere alle nostre antiche domande. Fino a quel momento, si consiglia il silenzio.
Non basta volere la libertà, bisogna avere anche la schiena adatta per sopportarla. Gli uomini sembra che non si siano ancora prodotta questa schiena sufficientemente asinina per il loro futuro, quindi non sono ancora pronti per la libertà. E siccome non vedo perché si debba affidare questa speranza a un qualsiasi processo di evoluzione, dei tanti che se ne trovano in commercio, non mi resta che la speranza dei folli, quella contro tutto e contro tutti. Il che mi sta bene, ma che sia chiaro: qui siamo dei folli imbarcati in una nave senza destino, la cui rotta, forse proprio per questo, è aperta a tutte le possibilità.
Nella penuria ci siamo stretti uno all’altro, dandoci reciproca forza, credendo in un Dio unico che ci indicava la strada. In tempi recenti, e meno recenti, questo Dio ha cambiato volto, grosso modo le condizioni dello stare assieme sono rimaste valide fino ad oggi. Il futuro ci ispira ancora tanta paura, ed è quindi necessario mettersi uno accanto all’altro per fare fronte. Ancora oggi, qualche stralunato rivoluzionario parla di “Fronte di classe” o qualcosa del genere. Poiché non siamo mai stati, in fondo, animali da armento, ci siamo sempre sentiti portatori di stimoli eversivi, diretti a rompere le forze aggregative che premevano in senso contrario. Non poche volte noi stessi abbiamo stigmatizzato questi stimoli, in uno con le scomuniche delle chiese in carica. Si avvicinano tempi che potrebbero rendere questo modo di fare sempre più necessario, proprio per questo diciamo subito di tenerci alla larga. Nessuna chiesa, per favore, meno che mai quella anarchica che sembra (a volte) negare ogni chiesa in nome della chiesa delle chiese, quella che si fregia del titolo irrefutabile di distruttrice di tutte le chiese. Anche di questa chiesa, alla larga.
Anche dal modello “naturale” alla larga, per favore, ancora un poco di pazienza, seguitemi un altro poco. La forza e la potenza dell’uomo, il suo braccio muscoloso che apre le fauci della belva, modello contrapponibile al povero e atrofizzato braccio del mendico che chiede l’elemosina di un aiuto, il brando possente di un liberatore, solo in apparenza sono antitetici, in fondo sono le due facce della stessa condizione. Condottiero e condotti si sostengono reciprocamente, l’uno, senza gli altri, sarebbe un farneticante manichino. Se, finora, abbiamo accettato la punizione all’interno del gregge, la soluzione non può essere semplicemente quella della rivolta nel gregge, altrimenti ci resterebbero solo le scottature del sole della ribellione, e dopo, tornato il maltempo delle necessità ricostruttive, non faremo altro che rimpiangere di essere ancora in vita e di non avere trovato sorella morte ad accoglierci il primo giorno della rivolta.
La forza va bene, se sta dalla mia parte, la ribellione anche, l’intelligenza e la capacità di progettarsi un intervento seriamente distruttivo contro il mio nemico, sono condizioni importanti dell’attacco, ma non sono tutto. C’è qualcosa d’altro, ed è questo qualcosa che viene fuori dalla guerra civile. C’è il mostro della libertà, armato di tutto punto, con tutti i suoi aculei al posto giusto: ecco quello che in fondo mi fa più paura, ecco quello che devo capire se non voglio continuare ad aprire la strada ai futuri dominatori.
L’istinto vitale, la forza che posso sentire (ascoltando bene, senza tentennamenti) dentro di me, perfino le sue selvagge modulazioni, l’orgoglio, il coraggio, l’egoismo, l’entusiasmo, mi sollecitano ad andare avanti, a superare questa condizione di vita, ma se mi limitassi a questa piattaforma di “generosità” fondata sulla certezza finirei per fare una brutta esperienza. Ancora una volta, il cavaliere senza macchia si armerebbe nella notte della veglia per morire (se fortunato) al sole del giorno dopo. Non c’è difatti niente da “superare” in quell’armamentario di generosità. Occorre scavare più a fondo, penetrare più intimamente nella piaga che nascondiamo sotto il fiammante giustacuore della coerenza.
La libertà richiede un’analisi profonda dei valori che ancora fioriscono attorno a noi, come erme sulla strada dell’incredibile futuro. Ognuno di questi simboli fallici racchiude il sogno di una potenza estinta. Singolarmente presi avevano un senso, dicevano qualcosa (forse) all’uomo che non c’è più. Il coraggio è diventato materia per corride spagnole e circuiti motociclistici. I migliori lo coltivano, innaffiandolo quotidianamente con letture edificanti, in attesa della prima barricata dove andarsi a infilzare nella lancia dell’avversario. In fondo, della libertà, ai migliori, che gliene importa? Loro hanno una bella armatura di coerenza con cui vanno in giro pavoneggiandosi per cortiletti e stradine di periferia, e tanto gli basta. Saranno gli ultimi a cogliere questo discorso, feroce fino in fondo, un discorso senz’ombra dove nascondersi. La libertà è mortale.
Niente come la guerra civile ce lo dimostra. Non c’è nessuna tendenza al bene. La rivoluzione, considerata nella sua realtà e condotta fino in fondo, la rivoluzione che non abbiamo ancora visto, è l’azzeramento di tutti i valori, la nascita di una condizione di anomia assoluta, la sola in cui si può parlare di libertà: può quindi chiamarsi l’avvento del bene? Farlo adesso, dopo le tante esperienze di quest’ultimo secolo, significa continuare uno stupido scherzo. Non c’è compimento possibile della storia, non c’è finalizzazione verso il miglioramento, non c’è progresso.
Messa insieme questa merce poco digeribile, si può guardare in faccia la guerra civile, senza restare al primo livello: quello della riprovazione e del disgusto.
Catania, 29 aprile 1999
Alfredo M. Bonanno

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Catania, 1999

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