Edito da Edizioni Collana Vallera, Pistoia, 1973, 263 p.
Edito da Agenzia X, Milano, 2011, 253 p.
Introduzione di Dando Dandi (1973)
Sono pienamente cosciente del fatto che trattando di Severino Di Giovanni, io calco un terreno estremamente delicato, suscettibile di urtare la sensibilità dei compagni pacifisti ad oltranza, specialmente oggi in cui il problema della violenza viene, dalla maggioranza degli anarchici, ridotto e contorto ai minimi termini della moralità cristiana e ai concetti francescani della rinuncia individuale e collettiva.
Intendiamoci bene: io non sono per la violenza per se stessa. Aborro la violenza repressiva dello stato adottata a scopo di dominio e di potere per schiavizzare i popoli per sfruttare i diseredati, per scatenare le guerre e le distruzioni universali. Mi riferisco alla violenza difensiva dei proletari quale diritto sacrosanto degli oppressi per proteggersi dalla violenza organizzata della società per mantenere i privilegi dei dirigenti del mondo capitalista e delle classi dominatrici. Insomma, la violenza inevitabile dei diseredati e degli oppressi per difendersi dalla violenza brutale dei tiranni, riconosciuta dai nostri maestri da Bakunin a Malatesta quale diritto inalienabile degli schiavi per contrapporre la violenza liberatrice alla violenza dei suoi carcerieri. Perciò è impossibile concepire la rivoluzione sociale senza violenza.
Nel discutere la violenza quale metodo di espropriazione anarchica della proprietà per usarla per il movimento — come è appunto il caso di Severino Di Giovanni — è quasi impossibile ragionare con i pacifisti, stante molti esperimenti negativi da Ravachol ad oggi, e anche perchè alcuni anarchici fingono di dimenticare che la proprietà è un furto. Osvaldo Bayer, autore del libro di cui parliamo in questo articolo definisce Severino Di Giovanni l’idealista della violenza, ciò che descrive in modo preciso la filosofia, l’azione del Di Giovanni. A proposito non è male ricordare che gli avvenimenti sociali di questi ultimi anni nel Sud America, nell’Argentina, nel Brasile, nell’Uruguay che la violenza disperata dei ribelli concentrata nel rapimento di personalità borghesi influenti offre dei risultati concreti e non astratti come le dimostrazioni contro la guerra nel Vietnam che non impediscono allo Stato di continuare le imprese criminali nell’Asia e altrove. Un conto è ammazzare milioni di persone nelle guerre con crudele disinvoltura come sistema di dominio per la salute dello Stato in quanto le moltitudini umane rappresentano semplicemente delle pedine inanimate mosse sulla scacchiera della politica del potere; ma è un altro conto per i tiranni morire ammazzati essi stessi nella tragica constatazione che la guerra sociale cruenta e sanguinaria è penetrata in casa propria, nel seno delle loro famiglie. Severino Di Giovanni voleva diventare maestro elementare, ma non completa gli studi e nel 1923 lascia la nativa Chieti per recarsi in Argentina dove la sua dinamica personalità si rivela subito nelle dimostrazioni antifasciste e nelle attività del movimento anarchico come scrittore e oratore non comune. Apprende il mestiere di tipografo e si fa una cultura leggendo le opere di Proudhon, di Bakunin, Reclus, Kropotkin, Malatesta, Stirner, Nietzsche, Nettlau e altri e presto pubblica il periodico anarchico « Culmine » che egli scrive, stampa e distribuisce da solo con l’aiuto graduale di un gruppo ristretto di amici. Collabora con il settimanale anarchico di New York, L’Adunata dei Refrattari, e con il mensile iconoclasta di San Francisco, l’Emancipazione, con i quali ravvisa delle incoraggianti affinità ideologiche.
Nel 1926 viene arrestato la prima volta durante una dimostrazione antifascista al teatro Colon e si dichiara anarchico. Per l’anarchico Di Giovanni la questione sociale si presenta di una chiarezza lapalissiana: la borghesia domina con la violenza repressiva dello Stato e delle istituzioni capitaliste e il modo più logico e più proficuo è di combattere la borghesia con la violenza anarchica contro la violenza capitalista,- giacché le dimostrazioni, i comizi, le proteste contano un fico secco, Di Giovanni consiglia gli anarchici di attaccare la borghesia con le armi alla mano.
Nel maggio 1926 una bomba scoppia nei locali dell’ambasciata degli Stati Uniti a Buenos Aires e Di Giovanni è arrestato, la sua abitazione perquisita e libri, carte e giornali asportati, sua moglie e i suoi figli malmenati dai poliziotti.
In questo frattempo Di Giovanni fonda la casa editrice « Culmine » con lo scopo di pubblicare e divulgare letteratura anarchica, e gli anarchici notano nei suoi articoli una serietà, una maturità politica, una consapevolezza anarchica non comune che molti vecchi compagni attribuiscono a Aldo Aguzzi, l’anarchico italiano più conosciuto nel Sud America. Pertanto, Di Giovanni fa conoscenza negli uffici del giornale « La Antorcha » con i fratelli Scarfò, Alessandro e Paolino, due giovani anarchici la cui vita rimarrà strettamente collegata con le vicende tragiche della lotta anarchica del Di Giovanni fino alla morte e la cui sorella, Josefìna, sarà amante appassionata di Severino.
Nell’agosto 1927, durante l’esasperata agitazione per Sacco-Vanzetti, degli attentati dinamitardi avvengono a Buenos Aires al monumento di Washington, all’agenzia automobili Ford e altri luoghi della città; la polizia fa una retata di anarchici ma questa volta Di Giovanni si rende latitante. D’ora in poi egli sarà braccato e perseguitato dalla polizia non solo a Buenos Aires, ma a Rosario, a Cordova e in altre città.
Le esplosioni si susseguono a Buenos Aires nelle banche, nella sede del consolato italiano, nei locali delle ditte statunitensi con morti e feriti; le autorità, i giornali, l’opinione pubblica sono allarmati e attribuiscono tutti questi fatti dolorosi a Di Giovanni nella cui mente si va rapidamente maturando un piano d’azione vagheggiato nella sua adolescenza. Egli pensa con profonda tristezza ai sacrifìci immensi compiuti dagli anarchici per pubblicare dei giornali, degli opuscoli, dei libri, per la propaganda rivoluzionaria; la sua m ente solidale vola con ansia verso i compagni che si levano il pane dalla bocca per aiutare i prigionieri politici vittime della reazione internazionale, mentre le ricchezze create dai lavoratori servono ai capitalisti per mantenere le moltitudini lavoratrici schiave e derise, e per sostenere nello sfoggio e nei bagordi la borghesia vile e sfruttatrice. Sarebbe un semplice atto di retribuzione sociale usare codesta ricchezza per il bene di chi la produsse, per rompere le catene degli schiavi che da secoli attendono la liberazione.
Perciò si passa senz’altro all’azione. Si circonda di u n gruppo risoluto di audaci, svaligia le banche di somme considerevoli che usa per le attività editrici del movimento anarchico. Nel 1930 pubblica due volumi delle opere di Eliseo Reclus con prefazioni e note biografiche di Luigi Galleani e di Giacomo Mesnil che vengono distribuiti a prezzi ridotti o addirittura regalati ai gruppi libertari in tutto il mondo.
Nel 1928 era salito alla presidenza della repubblica Ippolito Yrigoyen considerato liberale e amico del popolo, ma in seguito dimostratosi politicante reazionario come tutti gli altri; comunque, l’Argentina attraversa un periodo di febbrile attività rivoluzionaria. Di Giovanni, oltre le sue preoccupazioni letterarie, continua le sue vicende espropriatrici al pari della banda Roscigna e quella dei fratelli Moretti, senza contare la breve apparizione di Francisco Ascaso e di Buenaventura Durruti in viaggio attraverso il Sud America nella loro campagna espropriatrice internazionale. Di Giovanni ne approfitta del denaro carpito alle banche e delle false banconote fabbricate dal suo amico Fernando Gabrieleskf per intensificare la campagna per la liberazione di Simon Radowitzky agonizzante nel penitenziario di Ushuaia, nella Tierra del Fuego.
In questo punto critico scoppia il dissidio nel campo anarchico. Diego Abad de Santillan e Lopez Arango trattano Severino Di Giovanni e le sue azioni di banditismo anarchico e di delinquenza comune e Di Giovanni risponde per le rime affibbiando agli scrittori di «La Protesta» gli aggettivi di anarchici da salotto e spie. Polemica nociva che si ripercuote nel Nord Am erica e precisamente a San Francisco, California, ove « L’emancipazione » rimprovera a Santillan e Arango di boicottare deliberatamente la proficua azione anarchica per la liberazione di Radowitzky, di Scarfò e di Oliver, questi due ultimi compagni arrestati quali complici di Di Giovanni.
Di Giovanni, che ora assume il nome di Mario Vando, diffida Santillan e Arango di ritirare gli insulti. Intervengono Luigi Fabbri, Aldo Aguzzi, Ugo Treni (Ugo Fedeli), Vincenzo Capuana dalle carceri di New York per esortare la calma e il buonsenso, ma « La Protesta » rincara gli epiteti ingiuriosi. Il 25 Ottobre 1929 Emilio Lopez Arango è ucciso a revolverate e pochi giorni prima Giulio Montagna, ex amministratore di « Culmine » veniva freddato nel medesimo modo. Di Giovanni è incolpato di entrambi i delitti. Tuttavia Di Giovanni continua la sua opera nonostante la scissione del movimento anarchico e la reazione che la borghesia argentina preparava contro i sovversivi e contro il lavoro organizzato.
Con l’entrata di Yrigoyen nella Casa Rosada la reazione si intensifica, specialmente nelle questure ove gli arrestati vengono sottoposti a orribili torture, reminiscenti dell’epoca medioevale. Il vice commissario Juan Velar della questura di Rosario si specializza nel torturare gli anarchici di cui si vanta pubblicamente sadista patologico. Velar si divertiva a sferrare calci nei testicoli e poi rideva a crepapelle mentre le vittime si contorcevano nel dolore. Si specializzava altresì nel trucco della « ley de fuga » cioè di sparare nella schiena dei prigionieri con la scusa che tentavano di fuggire.
Paolino Scarfò e Antonio Marquez si incaricarono di troncare le infamie di codesto mostriciattolo: un giorno, quando Velar usciva dal suo ufficio fu assalito da due individui i quali a pugni e a calci lo ridussero un rudere umano per tutta la vita incapace di torturare i suoi simili. Il 24 Dicembre 1929 Gualtiero Marinelli tenta di uccidere il presidente Yrigoyen che rimane illeso e Marinelli muore crivellato dalle palle dei poliziotti. La stampa borghese giudica il Marinelli quale povero squilibrato mentale; però Di Giovanni che lo conosceva scrive un articolo nell’Adunata dei Refrattari in cui dichiara che Gualtiero Marinelli era un anarchico appartenente al gruppo « Nueva Era », che era un uomo serio e risoluto che voleva sopprimere un tiranno.
Gli avvenimenti incalzano. Di Giovanni si prepara per pubblicare un quindicinale che raccolga gli scritti dei migliori pensatori anarchici e riceve incoraggiamenti da Fabbri, Fedeli, Aguzzi, oltre dei compagni d’Italia, della Francia e degli Stati Uniti; ma per dare mano a un’opera simile ci vogliono denari, tanto più che Severino aveva in mente di liberare Alessandro Scarfò dal carcere e farlo partire per l’Europa. La banda di Di Giovanni svaligia parecchie banche con continue sparatorie con la polizia.- non passa giorno che il nome di Di Giovanni non appaia a caratteri di scatola nelle testate dei grandi quotidiani. Per il popolo’ Di Giovanni diventa il leggendario ribelle che sfida la società, che insulta impunemente l’autorità, che sghignazza sulla faccia dei poliziotti con la sua incredibile audacia. La questura è presa dal panico. Finalmente Radowitzky viene liberato e da Montevideo giunge la notizia che la giuria anarchica composta da Luigi Fabbri, Ugo Treni e T. Gobbi incaricata di investigare la vertenza Santillan-Di Giovanni assolve quest’ultimo da ogni colpa e censura « La Protesta » per il suo linguaggio calunniatore e ingiurioso.
Uriburu è eletto presidente della repubblica. La reazione dilaga. Gli anarchici fuggono nell’Uruguay. Di Giovanni è messo al bando e cacciato come una belva da tutti i cosiddetti fautori dell’ordine grandi e piccoli, ma Di Giovanni compie l’ultima prova della sua audacia con lo svaligiamento di una grossa banca che gli frutta quasi trecentomila pesos e si rifugia sotto falso nome in una cascina a Burzaco, nei dintorni della capitale. Assieme a Paolino Scarfò e alla sua amante, Josefina, Di Giovanni cura la pubblicazione del quindicinale « Anarchia », corregge le bozze dei due volumi di Eliseo Reclus e prepara altre pubblicazioni di autori anarchici. Mezza giornata è dedicata al lavoro dei campi per non dare adito a sospetti sulla loro identità e il resto del tempo viene prodigato per il movimento.
Il 30 gennaio 1931 Di Giovanni si presenta nella tipografia di Gennaro Bontempo per discutere sulle nuove attività editrici, benché fosse stato avvisato dai compagni che la polizia era al corrente dell’appuntamento e l’avrebbe aspettato al varco. Qui si tratta di una bravata temeraria del Di Giovanni che manifesta il suo carattere eroico e imprudente. Appena entrato in tipografia, il locale viene circondato da agenti armati; Di Giovanni si apre la strada a revolverate, ma viene in seguito da decine di poliziotti e ferito e catturato. Il processo a Di Giovanni doveva apparire come una semplice formalità legale, poiché tutti sapevano che egli era stato condannato a morte in precedenza. Le autorità militari nominano quale difensore d’ufficio il tenente Ramon Franco.
Senonchè in questo processo avviene un fenomeno più unico che raro negli annali della giurisprudenza militare: un fenomeno che meravigliò il mondo intero per il fatto che un ufficiale delle forze armate difende un anarchico quale essere umano libero che ha diritto alla vita come tutti gli altri cittadini.
Prima del processo, Ramon visitò Di Giovanni in carcere, il quale dichiarò al suo difensore che si aspettava da lui la verità, che non tentasse di denigrare il suo ideale poiché egli aveva piena coscienza della sua situazione; aveva giocato contro la società, aveva perduto e pagava con la vita il prezzo delle sue azioni rivoluzionarie.
Nell’ampia sala del tribunale il tenente Franco dichiara subito che le autorità non avevano nessun motivo di imporre la legge marziale a Buenos Aires, poiché i delitti attribuiti a Di Giovanni, nel regime democratico argentino, dovevano essere giudicati dalla magistratura civile e non dalla giustizia militare, la quale ha soltanto diritto di intervenire in tempo di guerra, mai in tempo di pace. I giudici militari sono mortificati e Di Giovanni osserva con interesse il suo straordinario difensore. Inoltre, continua Ramon, Di Giovanni era un cittadino con la fedina penale pulita, un uomo che badava ai fatti suoi, un giovane che voleva alleviare la miseria dei suoi simili, un benefattore del popolo. Per di più, non fu Di Giovanni ad attaccare la polizia, ma fu questa ad attaccare lui, a perseguitarlo con accanimento senza tener conto dei suoi diritti di libero cittadino. Furono decine di poliziotti a circondarlo nella tipografia e cinquanta rivoltelle fecero fuoco su Di Giovanni finché fu ferito a morte. A questo punto il presidente del tribunale, colonnello Risso Patron, chiama Ramon all’ordine ammonendolo di attenersi al soggetto esclusivo della difesa. Però Ramon continua imperterrito che la ragazza uccisa nello scambio delle revolverate fu ammazzata dal fuoco degli sbirri che sparavano all’impazzata nella foga sanguinaria di massacrare Di Giovanni. Il tenente Ramon fa una pausa, fissa nella faccia ciascuno dei giurati, e asserisce che fu la società a spingere Di Giovanni verso la ribellione alle autorità e alla legge, e domanda al tribunale di non giudicare Di Giovanni con lo spirito arrogante della legge marziale, ma con un senso imparziale di umana giustizia. Di Giovanni fu condannato a morte in pochi minuti.
Mentre si svolgeva il processo un nugolo di poliziotti assalì la cascina di Burzaco e nella sparatoria rimasero uccisi Braulio Rojas, Juan Márquez e Paolino Scarfò venne ferito e catturato. Il tenente Ramon fu scacciato dall’esercito, esiliato nel Paraguay e perseguitato per tutta la vita; esempio catastrofico di una persona onesta che crede nella democrazia della società borghese.
All’alba del primo febbraio 1931 Severino Di Giovanni fu fucilato e cadde al grido di Viva l’Anarchia, alla presenza di una comitiva di pezzi grossi che non volevano perdere l’occasione barbara di vedere morire un loro nemico. Così finisce la vita eroica di quest’uom o straordinario e la borghesia può dormire tranquilla. Gli editori del libro ci tengono a fare la seguente dichiarazione pubblicata in calce sulla copertina: « Di Giovanni passò nella storia della repubblica Argentina del secolo ventesimo come protagonista di un ciclo breve ma vertiginoso di violenza. Personaggio relegato ingiustamente nel pozzo nero della cronaca poliziesca, viene riscattato per la storia dal letterato e storiografo Osvaldo Bayer che lo proietta sulla ribalta pubblica nella sua reale dimensione umana di ideologo e di militante, capace di spingere le sue idee verso le ultime conseguenze ».
D’accordo. E finisco col dire che si possono attribuire a Severino Di Giovanni dei gravi errori e delle gravissime colpe: tuttavia, non si può negare che la sua vita e le sue azioni furono tutte improntate per la bellezza del suo ideale, che nulla fece per se stesso, che rimase incorrotto, fiero e integerrimo fino alla morte.
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