Bonanno Alfredo Maria, “Autogestione e anarchismo”

Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, Dicembre 2013, 336 p., Terza Edizione

Introduzione alla terza edizione
I clamori dell’attenzione di chi pensa sempre di stare sulla cresta dell’onda si sono spenti sul problema autogestionario. Non se ne parla. I reduci sono tornati ai vecchi baloccamenti e si limitano a raccontare le passate glorie, infiocchettando il racconto con qualche esagerazione che tanto non guasta. I fronzoli si sa è meglio che siano sovrabbondanti.
Andando al nocciolo delle cose il problema dell’autogestione, prima o poi, si ripresenterà. Macchiato sanguinosamente dalla protervia dei padroni, che considerano questa via come una sorta di tesoretto di riserva, oppure esaltato dal movimento insurrezionale del futuro che, pagando ancora una volta col proprio sangue, finirà per riscoprire quello che il passato ci ha messo sotto gli occhi, sotto i nostri occhi miopi.
Mi viene voglia di tagliare qui l’argomento, che troppo stanco sono di pestare acqua nello stesso mortaio e troppo stanchi dovrebbero essere i miei pochi lettori di guardare il mio tramestio indaffarato. Eppure i sogni sono sempre qui, compagni insofferenti di viaggio, si agitano e sbuffano e vogliono dire la loro e non accettano di essere messi da parte.
Ancora una volta tocca alla parola, alla mia parola, e tocca pure al problema dei miei rapporti con la parola, con quello che con la parola riesco a dire (o a non dire).
La memoria, le tecniche della memoria, aumentano la capacità di sentirmi padrone di me stesso, anche ora che sono avanti con gli anni questo convincimento, se si preferisce, questa illusione, non mi abbandona. L’esperienza della LIP in Francia, ad esempio, un momento, uno dei miei migliori momenti, andato perduto per sempre, è qui, accanto a me che scrivo queste righe, adesso, ed è arrivato attraverso una fessura del tempo troppo sottile per farci passare un supporto fisico differente dalla memoria.
Per evitare che questo miracolo fuoriesca e vada perduto lo devo vestire con le parole, e qui la confezione è un procedimento d’amore, quindi una commistione di coraggio e avventatezza, di eccesso e di coinvolgimento.
La parola ha così un tempo nuovo da proporre, e lo coordina con un luogo nuovo che dall’assenza si sposta sul futuro, in un avvento possibile che dal passato riceve il legame della rammemorazione. Ogni ritorno su queste progressioni nuove ha una base tautologica che concresce su se stessa, fondamento di novità e reiterazione, aspettativa e disinganno, falsità e corteggio globale di modulazioni sempre differenti.
Questa vita interna alla parola approfondisce gli intrecci e i ritmi li modula in una maniera più ampia, regolando con le proprie pulsazioni sia il riferimento all’esperienza diversa, ora assente, sia l’orizzonte dell’attesa, ora presente, senza che il destino possa non corrispondere al gioco delle possibilità. Più questo intreccio si arricchisce di volute che appaiono perfino chiuse in se stesse, prive di sbocchi, false e depistanti, e più l’infallibile risposta del destino si approssima a realizzarsi. La parola mi dice che l’attesa è vicina a vedere compiersi la possibilità del tempo nuovo.
Datazione di testi, collocazione di date tra parentesi quadre, è come aggirarsi nei viali dei cimiteri. Eppure non è soltanto così. C’è in tutto questo una nuova sfida. La chiarezza è la degna comare dell’imbroglio. Le parole hanno una profondità che non lascia tracce alla superficie, esse appaiono così disseccate in una sorta di insipidezza che le colloca nella formalina dei vocabolari, cimiteri, questi sì, del di già detto. Eppure, non appena si solleva un primissimo strato sotto appare l’insolita veste dell’arbitrario, il fiorire tracotante e irregolare di una originalità che niente potrà mai regolare definitivamente. Ciò perché non c’è mai stato, nel battere il ferro quando era caldo, un interesse altro, un tentativo di ricavare qualcosa di utile, qui per me, qualcosa che mi salvaguardasse la vecchiaia, non c’è mai stata una riserva mentale, un calcolo del più e del meno, un bilancio patrimoniale. Leggere e ascoltare, oggi, gli ordinati oratori dei cosiddetti critici mi fa venire il voltastomaco se penso alla virulenza e alla forza di Lutero, di Savonarola, di Segneri. La chiarezza qui non è di casa, l’attacco a fondo sta a fianco della frase cortese che prepara una stoccata ancora più grave. Gli enigmi e le ridondanze propongono scossoni alla coscienza e la sottopongono a un viaggio disagevole. Ma la vita è un viaggio che sgomenta e che non tutti sono in grado di affrontare.
Trattandosi di problemi economici sono tentato di fare appello alle mie competenze, pergamene di laurea, antichi ricordi di tomi sfogliati e digeriti, la mia amata matematica, i miei sogni metalinguistici, i calcoli con infinite variabili quantitative sempre pronti in apposite cartelline colorate. Poi il disgusto. Nessuna oggettivazione è possibile, bene, ma quali sono i sacrifici che impone qualsiasi processo assolutamente altro, a cominciare dal silenzio?
No, non sono d’accordo. Il silenzio è pieno di parole, di minacciosi riferimenti a mancanze, paure, incertezze, sospensioni di responsabilità e tutte le ombre delle lunghe notti passate a guardare i pochi metri quadrati dell’isolamento carcerario. La rinuncia alla condizione immediata del mondo, la possibilità limite di un non ritorno, la desolazione eterna della cosa, la morte, è ancora contro di loro che combatto.
Se mi impregno della qualità, e perdo per sempre il contatto con il mondo da me creato, posso andare avanti all’infinito, chiuso nella mia ormai incomprensibile corazza. Ma non sono un privilegiato e nel mio petto non batte un cuore di coniglio.
La tensione anarchica è l’espressione più chiara del nulla, non conosco qualcosa che renda meglio questo universo sconosciuto. Le parole la violentano nel tentativo di riempire quel nulla. Ogni tentativo del genere è un modo di salvarsi la vita. L’indifferenza non è una modulazione accessibile del fare, lo costituisce ma come elemento oggettuale, quindi accidentale ed estraneo. Per un altro verso, l’impegno del fare è falso, non è coinvolgimento ma accidente. Se forzo la mia volontà non avvicino l’indifferenza, al contrario l’allontano. La strada più accettabile è sempre quella più lunga e tortuosa. Abbandono e indifferenza non sono la stessa relazione. Il demone alberga nei posti più strani.
Niente lunghe elencazioni esplicative. Documenti che propongo, quasi certamente per l’ultima volta, in un luogo fisico, un libro, pagine di un libro, dove troveranno la loro fine corsa, almeno per quel che mi riguarda. Eppure non sento odore di crisantemi.
A lungo andare, il percorso della parola riesce a delineare sullo sfondo indicazioni improvvise, capaci di fare esplodere l’assenza, non sono semplici ampliamenti della memoria, ma luci e riflessi che riecheggiano, in modulazioni e movimenti contraddittori e spazi impensabili, il dire di fondo, il muoversi costante e creativo della parola rammemorante. Il tempo, allungandosi, getta ombre che coprono le possibilità di comprensione, fatti sfumano e si confondono, richiedono nuova linfa interpretativa. Non sempre è possibile evitare riflessi che ingannano anche l’orecchio e l’occhio più esercitati. Uno scarto, a volte consistente, a volte quasi minimo, tale da perdersi nell’interstizio del ricordo giacendo incompreso. Questo scarto è cambiamento profondo pure non essendo cambiamento radicale, è frattura nella traccia del dire.
Non ho cercato di metterci una medicazione, la cattiva coscienza è uno dei camminamenti di disturbo della ferrea custodia del controllo, e forse in molti casi non è neanche volontaria, ma a volte compare improvvisamente la considerevole consistenza di un vagito, un fremito di ali, un calore di sole cocente sulla faccia coperta da un velo leggero, un presente che non vuole ammettere il passato che si difende dichiarando ostracismo e fissando vendette.
La volontà di attaccare, di sgominare il nemico, torna a dominare e il suono si fa ancora più prossimo. La stessa incomprensione è desiderio, qualcosa che venero perché preservato da quella condizione degradante che chiamo chiarezza a portata di mano. Libero in questo modo il mondo dalla sua sufficienza ovattata e lo pongo nuovamente in una dimensione che esclude la limitazione, che cancella tutto quello che limita. Profano, con le mie scarpe infangate e da allora mai pulite, tutto ciò che propone sacralità e limitatezza non profanabile. Predispongo l’illusione che trova modo di collocarsi al posto della certezza che mortifica.
La lotta, e la pietà che pretende gestire la conoscenza, non si sposano facilmente. La parola è un’arma che viene a volte gestita con pietà, in modo maldestro e sciocco. Danzare con le parole, farle apparire leggere e diafane, quando possono anche essere pesanti e mortali, vuole dire accreditare loro una funzione che esercitano solo per conto dell’imbroglio, di chi gestisce il potere. Certe sfumature possono starci nelle parole e così venire raccolte, ma non si tratta di fervore dissacratorio, solo trascurabili raffinatezze. Volere essere inumani con le parole non è difficile, alla fine si tratta di strillare di più, ma è faccenda per spiriti deboli, addentrarsi invece nella loro possibile oscurità è altra questione, qui si sollevano di colpo vertiginose profondità che nessuno aveva mai sospettato, senza con questo indicare la strada per arrivare fino in fondo. La rigidezza e il completamento non sono stimoli per l’uso del dire, nel senso in cui l’intendo io, sono solo appesantimenti e titubanze.
Andiamo insieme, ancora più oltre.
Trieste, 15 maggio 2008
Alfredo M. Bonanno

Nota editoriale indispensabile
La prima edizione di questo libro venne preparata a Parigi agli inizi del 1975 per conto delle Edizioni Spartacus. René Lefeuvre mi aveva infatti suggerito l’idea di mettere insieme il materiale da me pubblicato su riviste e giornali e di fare un libro adatto alla situazione francese e allo stato delle ricerche sul problema dell’autogestione in quel paese che, come si sa, era ed è molto più avanzato di quanto non sia in Italia. La traduzione del dattiloscritto, fatta da Frank Mintz, non piacque all’editore che decise di non pubblicare il libro fin quando non si disponesse di una nuova traduzione che, fatta successivamente da Isabella de Caria, non mi sembra sia stata a tutt’oggi pubblicata.
Nel settembre del 1975 si presentò una favorevole occasione di stampare il libro in italiano con le Edizioni La Fiaccola di Franco Leggio, anche per le condizioni vantaggiose fatte dal tipografo. Non essendoci il tempo di aggiustare il dattiloscritto, adattandolo meglio alla situazione italiana, si preferì stamparlo per come stava.
Per la seconda edizione italiana ho riscritto le parti che avevano, nel frattempo, trovato collocazione in libri usciti in Italia. Ho lasciato, con l’indicazione della fonte, le parti che erano state pubblicate, sempre in Italia, su giornali, ciclostilati, riviste e come introduzioni.
Infine il libro è stato aggiornato con un approfondimento degli aspetti più recenti e più interessanti del problema dell’autogestione dal punto di vista rivoluzionario.
La terza edizione presenta, oltre a qualche aggiunta di poca importanza, il saggio su “La lotta della LIP”, che ritengo particolarmente significativo, e le Annotazioni di Amfissa.

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Note dell’Archivio
-Prima Edizione: La Fiaccola, Ragusa, 1975
-Seconda Edizione: Anarchismo, Catania, 1981
-Le Annotazioni di Amfissa sono state pubblicate in traduzione greca in opuscolo col titolo Καταστροή του κεφαλαίου και γενικευμένη αντοδιαχείρηση s. l. 2012.

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