Bonanno Alfredo Maria, Distruggiamo il lavoro

Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, 2013, 36 p., Quarta Edizione

Introduzione
Capire il fare significa capire la speranza. Fare è sperare il completamento. L’immagine emblematica è quella del collezionista. Atroce, ma veritiera. Nel mondo io sono il fare, mi progetto e mi ricordo come fare. Vivo la vita e non voglio che sia altro dal fare, in caso contrario avrei paura di non viverla, di lasciarmela sfuggire. Il volere, che mi domina, non è altro che fare, il volere fare è una forma riflessa di fare, fare anch’esso. Il lavoro è una forma particolarmente acuta del fare, la forma coatta per eccellenza. Non ho certezza del fare che intraprendo, ma è la completezza a cui miro. So bene che questa prospettiva tranquillizzante non è praticamente accessibile, ma la tenga attiva. Spero che non sia così, anche se so che è così, che la morte verrà e concluderà la partita per sé e non più per me. Inafferrabile e lontana è la completezza, essa risiede nella straordinaria rarefazione della qualità e mi affascina non con la sua pienezza, che posso attingere solo con intuizioni coinvolgenti e pericolose, comunque non durature, ma con l’inganno del desiderio, vuota immaginazione che la necessità riempie di contenuti presto assimilati nel processo produttivo. Distruggendo il lavoro che mi opprime, sabotando l’amministrazione del mondo, mi accingo a passare oltre, a guardare che c’è oltre la siepe che chiude la prospettiva dell’orizzonte.

Il progetto che si inoltra fuori dell’abitudine e del condizionamento può sembrare destinato a poco futuro, a volte perfino ridicolo, ma è progetto fiero nello stesso tempo. Ridicolo per la sua vacuità e inconsistenza, misurate sul mondo e le sue coordinazioni, fiero perché scala il cielo, lancia una sfida, arrischia e rinuncia a un piacere accomodante per uno slancio diverso, un appassionato gesto distruttivo. Lascio i patti e le regole e, improvvisamente, il rischio mi piomba addosso. Il mio corpo reagisce, si difende, poi attacca per meglio difendersi.

Occorre che tutto questo coraggio venga da me sottratto alla signoria della volontà, altrimenti è una banale dimostrazione muscolare. Attacco senza volere dimostrare a me stesso alcunché, voglio attaccare come respiro, rifiutare questo mondo e il fare coatto che lo regge, aspirare alla qualità senza volere volere fare tutto questo, senza traguardi da raggiungere o spiegazioni da fornire a qualcuno, sia pure un improbabile referente rivoluzionario privilegiato per le sue (supposte) capacità di capire. Non si tratta di azioni riflesse o involontarie, ma azioni con le quali non voglio dimostrare niente e che realizzo perché le sto mettendo in atto. Il fatto ineludibile che le voglio realizzare non è la mia volontà che mi controlla, questo accade solo quando io sovrappongono alla volontà il mio volere attraverso quello che sto realizzando, cioè: fare un progetto, dimostrare, indicare, rassicurare e rassicurarmi. Questa volontà va messa da parte, aggirata.

Non mi devo fare incantare dalle parole, non sono le uniche porte della conoscenza. Il dolore può essere raccontato, ma viverlo è altra faccenda. La ricerca costa fatica e sofferenza, non fornisce garanzie, non accetta soste e non consente di reclinare il capo. Lo faccio soltanto una volta e sono un ricercatore della domenica, poi ritorno ai giorni della settimana che mi portano l’acquietamento e l’accumulo. Il possesso viene a farmi visita e mi infligge le sue lezioni con cui la mia autonomia respira male. L’ingenuo ribellismo non fa altro che ridipingere le catene.

La teoria della distruzione del lavoro è fondata sulla perfetta intuizione della qualità ma appartiene, in ogni caso, alla coscienza immediata, al mondo del fare coatto. Essa è pertanto contraddittoria e faticosa, non può vantare privilegi o purezze, non può mettersi sotto la protezione dell’assolutamente altro. Esce subito da questa protezione dove è entrata astrattamente e rinnega l’abbandono per la certezza inquieta del fare e del calcolare. Uscendo non accetta il non fare che poi sarebbe una forma neanche tanto subdola del fare.

L’abbandono si deve conquistare, l’ozio come prospettiva non basta. L’amore per il sapere fa restare con i piedi per terra, occorre di più del sapere e del mio amore per la conoscenza. Chi ama la conoscenza può essere banalmente un collezionista. La distruzione è altro. Non taglia fuori ciò che resta, va dietro anche all’incredibile, a quello che mi strappa l’anima e mi porta altrove. La sabbia scorre lenta nella clessidra e il tempo diventa inesorabile, ma non mi impaurisce, sono qua ad attenderlo e guardo al modo in cui posso intuire la fine, figlia della necessità. L’azione non muore, non muore perché non ha vita nel mondo, lo oltrepassa.

L’azione non si trova nella totalità della vita come nella cassaforte di una banca. Essa è interna al fare e non può raggiungersi semplicemente superando le angustie modificative. La contentezza del fare, del fare che si circonda di giustificazioni e scopi, sta in questo contenuto interno non nella completezza inarrivabile. L’eccesso del fare è sempre l’azione, e questa non è un aumento quantitativo del semplice fare. Non è una ricerca dell’assolutezza del fare, ma è l’ammissibilità del sogno che lo vivifica e mi sconvolge. La purificazione non mi appartiene, non la caldeggio come una specie di fare migliore, dico che la qualità sta altrove, ma è anche qui, nel mondo dell’immediatezza. Non cerco condizioni di privilegio, non sono un artista ma un artefice, non creo opere d’arte ma il mondo nella sua semplice e banale condizione di essere là davanti a me, tutti i giorni, in attesa delle mie misurazioni e dei miei controlli.

Nel riflettere sui limiti del lavoro non esco dalla simmetria del dire, solo la passione mi fa accedere, mi purifica facendomi uscire dalla sede del mio produrre, riconoscendomi come colui che ha uno scopo altro. L’accesso a questo scopo è l’abbandono, il fondamento inesistente e privo di forza, non il limite che ritengo valido ma l’illimitato, che non ha interesse alcuno, il segreto sempre diverso della inutilità. Questa mancanza è una presenza diversa, allo stesso modo in cui l’inutilità è nell’utilità, tutto si concatena e si sostiene. Fare e agire non si contrappongono, sono il solito e il diverso, ma si tratta di interpretazioni che colgo mentre sto nella bambagia del mondo. Loro sono legati insieme, si traducono reciprocamente e si trasmettono il senso e la tensione senza mai riuscire a riunificarli. L’attenzione del fare e il disinteresse dell’agire si uniscono inestricabilmente. Eppure l’assolutamente altro è oltre la distruzione del lavoro, anche se questo oltrepassamento non può essere considerato il raggiungimento di uno scopo.

Pensando alla distruzione del lavoro penso a un’arcaicità che non ha logica corrente, quella del prima e del dopo le suona estranea. Tento di spiegare le condizioni del suo apparire come condizioni superiori al semplice fare coatto, ma non ci riesco, continuamente le parole racchiudono il concetto della distruzione nell’ambito di un fine, quel fine che sperimento nel mondo attraverso la sofferenza e l’occlusione del mio destino di fronte al massiccio attacco del lavoro contro di me. Intraprendendo il passo distruttivo, propongo un ora e subito che azzera il mio essere nel tempo, rarefazione di cui non ho cognizione deduttiva, di cui non so descrivere per vie logiche il movimento realizzativo, anche se mi industrio di descriverlo, di localizzarlo per avere un punto di riferimento e farlo conoscere ai congiurati della parola che aspettano come tanti passerotti il verbo comprensibile, conciso e chiaro. So che la qualità a cui posso accedere con la distruzione, del lavoro in primo luogo, partecipa anche alla conoscenza dei dettagli, ma non posso aggredirlo allargando la spiegazione e l’interpretazione di questi ultimi. Nell’avventura distruttiva non c’è un cominciamento su cui poggiare i piedi, sono sempre con in mano gli stessi strumenti che avevo nel fare lavorativo. L’azione nasce dal fare, è decisa nel fare, e qui sposa la quantità che opprime e che rende possibile la distruzione grazie all’abbandono dei frutti accumulati che lascia morire in mezzo alle regole dell’utilità coatta. La decisione di distruggere, se rimane solo un conato della volontà, anche della migliore coscienza rivoluzionaria, resta inascoltata a bamboleggiare nella quotidiana timbratura del cartellino, mentre tutto intorno crescono le occasioni della tristezza. Poi smetto di decidere per darmi forza, la negazione e l’abbandono mi consigliano di alzare il bavero e di affrontare il vento. Non smetto di colpo di servire il mondo e di servirmi delle sue regole, non sono un angelo, so soltanto che qualcosa si muove diversamente, un alito di vento smuove l’atmosfera, è un uragano e non so perché. In un attimo intuisco dove andare, che desiderare, che distruggere dell’immane fantasma del lavoro che mi opprime, mi esalto come di una grande conquista ma non ho niente fra le mani, vuoto e niente, non riconosco i soliti connotati coatti in quello che sento, nel cuore che mi balza in petto. Il mondo mi guarda con occhi diversi. È il momento della distruzione.

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: in “Anarchismo”, n. 73, Maggio 1994, pp. 24-33

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