Ansart Pierre, “Proudhon. Il socialismo come Autogestione”

Edito da Edizioni del Centro Studi Libertari Camillo Di Sciullo, Chieti, 2004, 48 p.

Premessa Tra il 1800 e il 1850, nel periodo cioè compreso tra le rivoluzioni politiche della fine del Settecento e le rivoluzioni sociali del 1848, si realizza in Europa uno sforzo senza prece- denti di elaborazione ideologica. In questo breve periodo si costituisce il nuovo linguaggio con cui verranno presto organizzandosi le strutture intellettuali della critica socialista, comunista e anarchica. Si ridefiniscono vecchi termini, così da renderli adatti all’analisi dell’ordine sociale esistente, termini come “capitalismo”, “sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo”, “classi sociali”, “proletariato”, “rivoluzione”, “associazione”. Si formano nuove catene di significati che, attraverso una serie di coppie di opposti, collegano alla rivolta sociale una rappresentazione coerente delle finalità politiche: “associazione dei produttori” contrapposta a “capitalismo”, “socializzazione dei mezzi di produzione” contrapposta a “proprietà privata”, “piano concertato” contrapposto a “concorrenza”, “democrazia industriale” contrapposta a “repubblica”. Si può dire che, in pochi anni, sia stato formulato il nucleo essenziale dei grandi problemi che caratterizzeranno la storia delle lotte sociali del XIX e del XX secolo. Questa breve fase va collocata in un periodo molto più ampio che segna il passaggio dalla vecchia società contadina, rimasta ancorata al tradizionale quadro religioso e monarchico, alla società capitalistica e industriale. Questa generale trasformazione assume però forme brutali che provocano incredibili sofferenze, violente rivolte, e rendono possibile una presa di coscienza collettiva della situazione. Nell’Europa continentale, la caduta dell’Impero napoleonico dissolve le apparenze sotto cui si celava l’emergere delle nuove classi dominanti; dopo il 1830, in particolare, si comincia a comprendere con maggiore chiarezza che lo spossessamento delle classi feudali non era affatto avvenuto a vantaggio del “popolo”, come proclamavano i rivoluzionari del Settecento, bensì a vantaggio dei diversi settori – fondiario, finanziario, industriale – della classe possidente.
La diffusa coscienza di ciò assume un carattere pratico per le classi oppresse, in particolare per le classi operaie urbane il cui numero e la cui forza si fanno crescenti con lo sviluppo dell’industrializzazione. L’estensione della miseria nelle città industriali, la disoccupazione legata alle crisi settoriali o generali, l’angosciosa incertezza della condizione operaia, ma anche il contrasto tra questa situazione e la rapida accumulazione di fortune tra le classi privilegiate, suscitano una rivolta endemica e inducono alla presa di coscienza della divisione della società in classi antagonistiche. Allo stesso tempo, il ripetersi degli scioperi, l’organizzarsi delle leghe, l’esplodere di moti sanguinosi, ricordano di continuo che il conflitto è permanente e che la lotta per la difesa delle classi oppresse è possibile. Nascono da qui tre interrogativi fondamentali cui dovranno rispondere i protagonisti di queste lotte e, in particolare, gli intellettuali del movimento operaio: come interpretare scientificamente la situazione sociale e la sua evoluzione? Verso quale modello di società si orienta e deve orientarsi l’azione rivoluzionaria? Quali mezzi utilizzare per conseguire tali obiettivi? Questa è la situazione generale della lotta di classe in cui viene a collocarsi Proudhon il quale, in concorrenza con altri sostenitori del movimento rivoluzionario (Owen, Saint-Simon, Fourier, Louis Blanc, Buonarroti prima di Marx, Engels e Bakunin), edificherà un’opera monumentale destinata, secondo la sua esplicita intenzione, a dare un contributo alla lotta politico-sociale. Le sue origini popolari e la sua costante fedeltà alla classe operaia, faranno di lui un interprete privilegiato delle aspirazioni e delle esperienze proletarie. È soprattutto nel primo periodo della sua produzione intellettuale, tra il 1840 e il 1848, che Proudhon si sforza di dare risposta al primo dei tre interrogativi e di costruire un’analisi scientifica dell’organizzazione sociale. Infatti, se è ormai acquisito per i teorici sansimoniani, così come per le vittime dell’assetto sociale esistente, che lo “sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo” è conseguente alla disuguaglianza nella distribuzione dei beni, questa indicazione generale è lontana dall’essere chiaramente teorizzata e l’analisi del rapporto sociale di appropriazione è lontana dall’essere perseguita sistematicamente. L’eccezionale successo della Prima Memoria (Qu’est-ce que la propriété? ou Recherches sur le principe du droit et du gouvernement, 1840) sta chiaramente a dimostrare come Proudhon rispondesse ad un’aspettativa largamente diffusa e, allo stesso tempo, fornisse qualcosa di ben diverso dalla semplice denuncia tradizionale della disuguaglianza delle ricchezze. Come Marx coglie chiaramente in questi stessi anni e come scrive nella Sacra famiglia, Proudhon sottopone qui “la proprietà privata, base dell’economia politica, ad un esame critico, anzi al primo esame critico, spietato e insieme scientifico” che rende “per la prima volta possibile una vera scienza dell’economia politica”. Nel 1846 Proudhon amplia questa analisi e propone di riconsiderare l’intera organizzazione economica del capitalismo come un sistema di contraddizioni: è l’argomento del Système des contradictions économiques, ou Philosophie de la misère (1846), cui Marx replicherà ironicamente con la Miseria della filosofia. Dopo il 1848 Proudhon completa l’analisi critica del sistema sociale estendendola alle strutture politiche e formulando quella che può essere considerata la prima analisi anarchica del fatto politico: ci riferiamo in particolare alle Confessions d’un révolutionnaire (1848). A questa problematica può essere riallacciata quell’ampia riflessione sul ruolo delle guerre nella storia che è La guerre et la paix (1861). Infine, la grande opera in quattro volumi De la justice dans la révolution et dans l’eglise conclude l’analisi del “regime proprietario” mostrando come l’apparato simbolico serva a consolidare il sistema sociale e a garantirne la difesa contro le rivendicazioni rivoluzionarie. La seconda questione, quella del nuovo sistema sociale che sarà sempre più spesso definito “socialista”, è oggetto, intorno al 1840, di innumerevoli discussioni e iniziative. Gli operai e gli artigiani non si accontentano più di una semplice denuncia del regime di cui sono vittime e non si limitano più alle lotte quotidiane: in un periodo come questo, in cui la rivoluzione sociale sembra farsi possibile, essi definiscono nuovi modelli sociali e si aspettano dai teorici che a questi progetti sia data una precisa formulazione. Già negli anni intorno al 1820 Claude-Henry Saint-Simon aveva fatto appello all’organizzazione del “sistema industriale”, Robert Owen aveva delineato la sua “nuova società”, Charles Fourier “l’armonia industriale e agricola, il Falansterio” e, negli anni seguenti, continuarono ad essere proposte molteplici soluzioni del problema sociale che dettero luogo non soltanto a discussioni, ma anche a numerosi tentativi di realizzazione. Ora, tra questi diversi e confusi progetti, si potevano già distinguere due orientamenti differenziati: vi era chi, da un lato, non vedeva altra soluzione se non nella instaurazione di un sistema fortemente centralizzato e autoritario (come, ad esempio, Etienne Cabet e Constantin Pecqueur) e chi, all’opposto, concepiva la realizzazione del socialismo come un proliferare di iniziative operaie (come, ad esempio, Philippe Buchez e i “Mutualisti” di Lione). Il primo compito di Proudhon sarà quello di effettuare anzitutto una vigorosa chiarificazione critica dei diversi progetti e di porre nettamente in luce l’opposizione, ancora confusa, tra un comunismo autoritario e un socialismo libertario. Questa netta distinzione viene da lui operata attraverso una violentissima condanna di ogni formula politica che, con il pretesto di una difesa delle classi operaie, possa condurre all’organizzazione di un nuovo Stato centralizzato, altrettanto potente e oppressivo del regime politico del capitalismo. Scopo della sua ricerca sarà, d’ora in poi, quello di costruire il modello di un modo di produzione in cui il potere politico si dissolva a vantaggio di una regolamentazione delle forze economiche, in cui i produttori si associno senza perdere la loro autonomia di decisione, in cui il socialismo non solo sia conciliabile con la libertà ma sia anzi la condizione di un espandersi delle libertà individuali e collettive. A questi problemi, egli dedica in particolare la Solution du problème social (1848), l’Idée générale de la Révolution au XIXe siècle (1851), Du principe fédératif et de la nécessité de reconstituer le parti de la révolution (1863). È su questi temi che l’opera di Proudhon segna una tappa fondamentale nella storia del socialismo e nella storia della prassi rivoluzionaria. Ed è su tale aspetto che ci soffermeremo più a lungo in questa nostra presentazione. Alla terza questione, quella relativa ai mezzi da porre in opera per realizzare la distruzione del “capitalismo borghese” ed instaurare la democrazia industriale, Proudhon risponde anzitutto criticando le utopie socialiste o comuniste, in particolare quelle di Owen, Fourier e Cabet. Egli scarta fin dall’inizio ogni tentativo che pretenda di sovvertire l’ordine del mondo a partire da un modello ideale, costruito dalla immaginazione di un qualche fondatore, obiettando semplicemente che ogni rivoluzione scaturisce da un insieme di contraddizioni oggettive e che queste, in primo luogo, vanno conosciute. Al teorico non spetta inventare una società chimerica, ma analizzare il movimento profondo delle contraddizioni per ricavarne un modello generale che servirà all’azione pratica delle classi oppresse. Poiché la vera rivoluzione non può essere realizzata che dalle classi produttrici, è necessario portare avanti una lotta nel seno stesso del movimento popolare, per evitare che l’iniziativa sia sottratta ad esse e monopolizzata, cosa che facilmente può verificarsi nel corso del processo rivoluzionario. Alla questione dei mezzi da utilizzare per instaurare la società socialista, Proudhon risponde incitando i lavoratori a organizzare essi stessi la produzione in primo luogo sul loro posto di lavoro, a guardarsi da iniziative politiche e di parte che rischiano di distoglierli dai loro obiettivi a vantaggio di vecchie o nuove classi dominanti, a combattere nelle loro stesse file i vecchi miti cesaristi che tanto spesso hanno fatto fallire i loro tentativi di liberazione. La costruzione teorica di un socialismo antiautoritario e antistatalista darà un contributo importante a questa lotta e a questa demistificazione in quanto mostrerà alle classi lavoratrici la loro reale capacità politica rivoluzionaria: è questo il tema dell’ultima opera di Proudhon, De la capacité politique des classes ouvrières (1865), destinata a diventare, in quegli anni e durante la Comune di Parigi, un punto di riferimento degli operai francesi in lotta contro le strutture capitalistiche. Proudhon definisce con l’ambiziosa formula “destruam et aedificabo” le due componenti della sua opera che sono anche, ai suoi occhi, le due facce del movimento rivoluzionario: analizzare e distruggere, da un lato, il regime della proprietà privata, definire e costruire, dall’altro, il modello di un socialismo libertario. Nello spirito di Proudhon, questi due aspetti devono essere intimamente legati, giacché non si tratta più di vagheggiare una città ideale, ma di dimostrare che la prassi rivoluzionaria deve partire dalla coscienza delle contraddizioni proprie del regime capitalistico. Questi due versanti del pensiero di Proudhon vanno considerati contemporaneamente se si vuole comprendere quale sia il modello sociale che egli ha voluto costruire, modello che può essere ritenuto come la prima elaborazione di un socialismo non propriamente anarchico, come viene spesso definito, ma più esattamente autogestito. Questo vasto progetto deve inglobare tutti i livelli dell’attività sociale, sovvertire tutti i rapporti materiali e intellettuali, puntare ad una riorganizzazione complessiva, cioè economica, sociale, politica e culturale della società. Uno degli elementi di grande originalità di Proudhon, in una fase in cui il movimento rivoluzionario poneva l’accento soprattutto sulle riforme economiche, fu infatti il dimostrare che una rivoluzione, per essere radicale, deve attaccare il sistema esistente nella sua totalità, sovvertire insieme l’organizzazione delle forze economiche, la distribuzione del potere politico e i sistemi collettivi di rappresentanza. Ponendoci successivamente a questi tre livelli dell’analisi, potremo individuare le grandi linee del progetto proudhoniano.

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Pierre Ansart, P.-J. PROUDHON, ed. La Pietra, Milano, 1978

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