Edito da Nuova Ipazia, Ragusa, Settembre 1991, 104 p.
Introduzione di Renato Chiarenza
Tra le carte lasciate da Emilia Rensi vi è un diario, meglio una serie di notazioni, dallo stile aforistico a Lei congeniale, raccolte negli anni di guerra (1940-45). L’autrice ha voluto che fosse pubblicato post-mortem col titolo di Frammenti di vita vissuta, quasi a volerci ricordare il virgiliano non ignara mali, miseris succurrere disco. Queste pensées oltre delineare il profilo spirituale della Rensi ci rivelano la matrice di Angoscia di vivere, libro appassionato ed avvincente che ebbe una maturazione durata ben due decenni.
E la triste e sofferta esperienza della guerra osservata con spirito disincantato, ma puntualmente attento, nel succedersi dei giorni, sempre dolorosi, spesso luttuosi. Vi è il ricordo di tanti patimenti: dei bombardamenti nemici, della fame sofferta, del primo compleanno di guerra, ma soprattutto è presente quell’umanità ridotta ormai ad uno stato di quasi totale abbrutimento. Ciò rafforza nell’Autrice il convincimento dell’inutilità di un’esistenza votata alla sofferenza e al dolore.
Nel 1942 scrive: «la parola fine non rappresenterebbe certo un male per me. Nel tragico quadro degli avvenimenti bellici, mentre siamo stretti da ogni lato dalla morsa della morte, appare molto strano, il fatto evidente che la morte non è affatto “necessaria”». Proprio sul tema della morte frequenti sono le riflessioni filosofiche. Ad esempio dall’osservazione biologica per cui certi parassiti moltiplicandosi per scissione possono raggiungere l’immortalità, si può sostenere che vita e morte «forse sono due modi di essere importanti solo rispetto all’io, senza sostanziale differenza in sé».
Ma quale il valore dell’esistenza di fronte all’incombere di sciagure umane senza che se ne intraveda una fine? Il nucleo del discorso rensiano ruota intorno al male di cui è penetrato l’intero universo. Tuttavia anche questa solitudine che avvolge la sofferenza quasi incomunicabile dell’Autrice, può far superare la crisi dell’io, poiché se l’io perde ogni importanza quando si rimane soli lo si avverte molto meno, e «la solitudine rimette le cose a posto. Si tocca con mano che la nostra vita individuale non ha alcun interesse per nessuno: così finisce per averne meno anche per noi». Paradossalmente ci si persuade anche dell’inutilità, dell’assurdità della vita che si risolve in una condanna per le creature, vittime inconsapevoli di tante pene e dolori, in gran parte causati dagli stessi uomini.
Questa «absolue ignorance de notre raison d’étre» di cui nessun «paradiso» potrebbe consolare, scrive ancora la Rensi (citando A. France e il pascoliano «Abbandonato» in Myricae) quale arcano scopo potrebbe avere? l’individualità dell’io può rappresentare «una forma di vita superiore, in confronto al resto dell’Essere che dall’individualità è escluso. L’Essere è giunto faticosamente per grandi alla costruzione dell’individuo e perché tale costruzione, se non vi fosse altro scopo che quello di uscirne?»
Ad assurdo, quello della vita, si aggiunge altro assurdo: quello della morte. L’esistenza intesa come sacrificio, come lotta, affermazione di valori in via di farsi; l’uomo stesso si pone quale meta. Vi è un’istanza che riprende quel motivo dominante della filosofia paterna espressa nella «Lettere spirituali» e ancor più nel «Testamento filosofico». Lo sviluppo dell’Essere attraverso e oltre l’uomo per fondare, meglio, per trovare una collocazione «di quelle leggi della giustizia e del bene nella «realtà della vita» da cui risultano ancora escluse. Rifiuto di ogni atteggiamento compromissorio, conciliatorio; e ricordando la terribile esperienza dei lager nel racconto dei deportati, l’Autrice scrive: «E proprio per attendere l’ora della giustizia che troverei la forza di sopportare ogni tormento cercando con ogni mezzo di sopravvivere, ma è la passione della giustizia che miterrebbe in vita». Questa confessione ha il significato di un’obbligazione morale; la forza che sostiene la fragile femminilità dell’Autrice trova riscontro in un pensiero di Sénancour: «L’uomo è perituro; può essere; ma speriamo resistendo; e se il nulla ci è riservato non facciamo che sia giustizia».
Tutta la tematica rensiana poggia sull’indefettibile volontà di giustizia per un’esigenza morale di cui pochi eletti hanno avuto piena nozione: saprà l’umanità far proprio questo insegnamento? In «Angoscia di vivere» questa aspirazione diverrà… «la passione di superare la legge attuale dell’Essere e di trovarne una nuova» e ancora… «l’evoluzione dell’Essere (si compirà) attraverso о oltre l’uomo.»; per affermare quell’ideale di giustizia finora escluso dalla realtà della vita. Speranza messianica di un oltre-mondo (terreno) in cui le leggi del giusto trionferanno e vi sarà, non il nicciano superuomo, ma l’oltre-uomo inteso solo a bene operare, e una sorta di intrinseca necessità come se l’Essere riuscisse così a svelarsi, nella sua interezza, a se stesso.
Su questa linea esegetica ci intriga anche l’interpretazione delle luminose e pur toccanti parole del testamento spirituale di Giuseppe Rensi: «atomi e vuoto e il divino in me». Il «divino» per la Figlia del Filosofo, appartiene al tutto, così la coscienza umana è parte essenziale del cosmo: «il divino inteso ovviamente come legge morale è anche nell’universo al quale tale coscienza appartiene». Ma la chiusa del libro con il contraddire, felix culpa, il nichilismo di «Angoscia di vivere», apre alla speranza di un domani meno tetro anzi addirittura migliore. Varrà anche per noi l’interrogativo (che però è anche un aspicio) di J. Rostand? Forse all’homo sapiens seguirà nel corso dell’evoluzione l’homo sapientior.
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Nota dell’Archivio
-In appendice la recensione di Chiarenza del testo “Atei dell’Alba” di Emilia Rensi, “La Ragione”, 1973