Bonanno Alfredo Maria, “Teoria e pratica dell’insurrezione”

Edito da Edizioni Anarchismo, Trieste, Novembre 2013, 416 p., Terza Edizione

Estratto dall’Introduzione della Prima Edizione
Il senno del poi è sempre critico. Ed è questa l’epoca dei critici e dei benpensanti.
Ciò consente di capire meglio, ma bisogna anche darsi una prospettiva. Non si può approfondire all’infinito. Si rischia di relegare tutto nell’archeologia del fare, spingendo lo sguardo tanto indietro da non vedere nulla.
Questo libro insiste invece nella riproposizione della realtà del dato immediato, nella progressività del costruibile. Potrà quindi sembrare statico, limitato, a volte dogmatico.
Esiste comunque una chiave di lettura che consente una specie di superamento dell’immediato, l’apparizione di un qualcosa di inatteso. Il senso della passione deve sovrapporsi all’ordine ravvicinato degli elementi (fatti, avvenimenti, frasi, parole). Abbiamo lavorato nel senso dell’azione rivoluzionaria? Vi abbiamo, al contrario, opposto resistenza? Forse nessuno potrà rispondere a queste domande. Il corso della vita umana è una continua negazione dell’origine, del problema dell’origine e quindi, anche, del problema del percorso (in un senso o nell’altro). La vita è o non è. La rivoluzione anche.
Ma chi aspetta immobile non può dirsi privilegiato per non essersi sporcato le mani. La sua è semplicemente un’illusione solitaria.
L’azione è delimitazione di fatti, progresso di avvenimenti, riflessione in atto. Essa non si compie per dimostrare la certezza della teoria (qualora questa fosse balenata a priori). I motivi del suo venire al mondo sono diversi. Anche la gioia è un ottimo motivo. Spesso il solo motivo valido, anche se rarissimo.
Vedendola dall’esterno l’azione appare però come fornita di una logica ferrea. Nessuno ammetterebbe di agire senza un buon motivo. L’economicismo di questa premessa sfugge a tutti coloro che negano in teoria la loro schiavitù logica e vi soggiacciono nella pratica.
Tale logica ferrea costituisce l’elemento esteriore di questo libro, la cosa che più facilmente si coglie e l’ultima ad avere importanza.
Eppure bisogna considerare bene una simile presenza-assenza. Ciò che è secondario diventa soccorso della memoria e sostegno agli imprevisti del cuore. Il medesimo che si ripresenta è senz’altro un grosso peso che ci portiamo al piede, ma è anche l’elemento modesto e continuo su cui costruire l’azione. Una cosa di poca importanza non è detto che vada sottovalutata. Ogni tassello fa parte del mosaico e l’incompletezza di quest’ultimo offende a qualsiasi livello.
E poi è una faccenda di gusto. Il contenuto di una struttura non è determinato dai limiti che essa possiede. Al contrario, l’azione di questi limiti – come prodotto dell’istituzione – sopravviene alla creatività individuale e la racchiude in una prospettiva che le dà l’illusione di movimento. Al solito non ci si convince che si cammina nonostante le catene, ma grazie alle catene. Se ci si lascia sopraffare dai limiti della struttura essa si solidifica proprio nel momento che ci racchiude. Dobbiamo saper riconoscere il suo statuto mortale, la sua origine delittuosa. Per superarla, per usare il senso costruttivo che possiede (se lo possiede).
Dallo Stato in giù le strutture si moltiplicano e si ramificano, incontrandosi (e scontrandosi) con le forme vitali. Anche l’organizzazione rivoluzionaria è una struttura, spesso ripresenta i difetti del mini-Stato, ma ciò non può impedirci di cogliere le differenze. In quest’ultima specie di struttura la presenza formale della creatività individuale dovrebbe essere maggiore, di gran lunga maggiore, che nelle strutture vicine al modello statale. È anche una questione di sfumature. Anche l’individuo è una struttura. Basti pensare ai processi di sovrapposizione che governano le sue possibilità di ragionamento, alle deformazioni ideologiche, ai condizionamenti biofisici. Ma una notevole parte della caratteristica individuale è costituita dalla creatività (o dalla potenziale creatività), cosa che non si può dire delle strutture più complesse in cui l’elemento organizzativo prevale.
La salvaguardia della creatività all’interno della struttura si basa sulle capacità autorganizzative che non devono essere subordinate all’efficienza o all’economicismo dell’azione. Nella struttura queste capacità sono allo stato latente per cui la vediamo annegata in un immenso dispositivo di prevenzione. In fondo il suo scopo principale è la sopravvivenza, da qui la necessità di mettere ordine e limite alle istanze interne di natura creativa, proprio perché negatrici di quelle regole che garantiscono la perpetuazione del modello. Recentemente si è visto come le strutture riescano a gestire anche gli stimoli creativi (mode giovanili, correnti musicali, avanguardie letterarie, sistemi innovativi nella produzione, gusti orientaleggianti, ecc.), riconducendoli all’interno della gestione centralizzata.
In fondo siamo noi che diamo alla struttura la fondatezza che possiede. La nostra abitudine a ubbidire consente la gerarchia dei contenuti strutturali. L’ipotesi organizzativa in sé è una semplice tautologia, una riconferma che per vivere e agire bisogna mettersi d’accordo su regole minimali. In pratica non esisterebbero più istituzioni se smettessimo di credere nel mito dell’istituzione, dell’ordine, dell’organizzazione. Ed è proprio la ribellione che ci permette di negare questo niente, di dirci individui liberi, di costruirci un progetto di libertà.
Non c’è da farsi illusioni sulla totale estraneità della struttura alle condizioni della vita, al progetto rivoluzionario.
Su questo punto occorre riflettere meglio. […]

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Nota dell’Archivio
-Prima edizione: Catania, 1985

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